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Autore: Callie_Stephanides    17/09/2011    9 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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5.
La scelta di Vinus

È opinione comune che in punto di morte il tempo si arresti e si dilati. Ora che la clessidra della vita piange gli ultimi grani, ti rivedi com’eri all’inizio dell’avventura: un neonato, un bimbetto di pochi mesi, un ragazzo, un uomo.
Il Mito vuole che sia una graziosa concessione di Dendre, perché la morte ti colga senza dolore. Te ne stai riverso nella polvere, a fissare un cielo lontano e vuoto, quando la dea ti affianca e ti porge la mano.
“È tempo di andare.”
Di te non resta che una spoglia inerte, perché lo spirito immortale cavalca incontro all’Eternità delle Terre del Ricordo.
In tempo di guerra, quella era la consolazione che cercavano orfani e vedove: mentre una pira bruciava la conchiglia martoriata di chi avevano amato, da qualche parte brillava la speranza di un ricongiungimento. Erano plaghe assolate, libere e pacifiche, le Terre del Ricordo: era l’Eleutheria che avevamo perduto.
Immobile davanti al Drago Nero, tuttavia, non vedevo che lui: un maschio dalla bellezza oltraggiosa e dallo sguardo crudele.
Il mio tempo era rallentato, ma vivo; il cuore pompava con un’energia che non conoscevo, mentre i muscoli delle braccia, gravati dalla balestra, urlavano.
 
“Coraggio, donna uccello.”
 
Sulle labbra sottili, l’appellativo scivolava come il peggiore degli insulti.
Conosceva il mio nome – tutti conoscevano la terribile Magistra – ma godeva nel pungolarmi con il suo disprezzo: davanti ai suoi occhi, non c’era un avversario degno di questo nome, ma una femmina troppo brutta persino per chiamarsi tale.
Una testa d’uccello.
E un cuore rapace, cane, pensai, premendo il piolo che avrebbe fatto scattare la noce della balestra.
La violenza, con cui il dardo si liberò dalle corde, fu tale che il rinculo mi rovesciò a terra.
Strizzai le palpebre, inebetita dalla sorpresa. La mia conoscenza delle armi da getto era tutta calcoli e pergamene, non pratica. Per la prima volta comprendevo Nephyl e il suo scetticismo: pretendevo di vincere usando il cervello, quando l’essenza autentica della guerra era viscerale e terragnola.
 
“Magistra!”
 
La voce del generale mi raggiunse, tonante e disperata, alle spalle, mentre Vinus – un osceno sorriso a sfregiargli le labbra – mi restituiva la cortesia con un rapidissimo colpo di coda. Vidi il dardo sciabolare l’aria e modificare in modo radicale la traiettoria: ero certa di aver puntato al cuore del dracomanno, ma scoprivo con orrore d’essere il nuovo bersaglio. Lo sarei stata, almeno, se Rael, con un ultimo spasmo, non si fosse sollevato da terra per proteggermi.
Il dardo penetrò in profondità la polpa della spalla, sbilanciandolo. Dischiusi le labbra, ma non ne uscì un fiato.
“Non è lei…” disse mio fratello, mentre un rivolo di sangue sfuggiva alle sue labbra per morire in terra con un plotch raggelante.
Nel silenzio immobile di quell’improvvisata arena, il rantolo dell’agonia di Rael pareva l’unico suono vivo.
Pietrificata dal terrore, non riuscivo a muovermi: me ne stavo in terra, le cosce dischiuse in una posa oscena, le mani lorde di terra e sangue – il sangue di un altro.
“Via di lì, Magistra!” ruggì ancora Nephyl, prima di sguainare la spada e abbandonare le retrovie per affiancarmi. Con lui, terreo ma determinato, c’era anche Jail.
Rael, sostenuto solo dall’orgoglio e da un coraggio suicida, era il nostro bastione e non cedeva, ma non sarebbe durato: Vinus era stato tanto abile da incuneare la spada tra le placche di raccordo dell’armatura, raggiungendolo allo stomaco. La sua esperienza sul campo di battaglia era tale che sapeva dove e quando ferire. Non era importante uccidere l’avversario sul colpo, quanto renderlo inoffensivo.
 
Di Eleutheria, dunque, non restavano che stracci sanguinolenti: il suo campione e il mio orgoglio.
 
“Vinus! Che aspetti?”
 
Dalle fila dell’esercito di Koiros si levò una voce imperiosa, dotata, tuttavia, di un’inspiegabile sensualità. Qualcosa di languido mi scivolò dentro, mentre fissavo un nemico che persino il Drago Nero temeva.
Lethor delle falesie aveva perso un occhio, ma non la baldanzosa arroganza dell’autorità che Koiros gli aveva conferito: luogotenente del tiranno, era il diretto superiore di Vinus.
A vederlo l’avresti preso per un eleutheride, se solo non l’avesse ammantato una bellezza tanto straordinaria da possedere qualcosa di velenoso e respingente. Indossava una lorica a scaglie d’argento, su cui i capelli biondi scivolavano come bioccoli preziosi. L’occhio che aveva perduto era protetto da una banda di seta rossa; l’altro, grigio, aveva la pupilla verticale distintiva degli ophelidi e dei demoni. Cavalcava un liocorno candido come la neve, drappeggiato di broccato cremisi, e portava sulle labbra il raffinato disgusto dei nobili costretti a vivere la vita dei soldati.
Vinus si volse subito nella sua direzione, quasi l’avesse punto uno scorpione.
 
“Non ricordi gli ordini del grande Koiros?”
 
Lethor sollevò la mano al cielo; nel centro del palmo guizzò una fiammella azzurra. Le viverne superstiti, liberate le caratteristiche strida, cominciarono a volteggiare in cerchio sulle nostre teste.
È lui. È il signore delle viverne, pensai sgomenta.
Mi rialzai a fatica e raggiunsi mio fratello. Rael, stremato dall’emorragia, si piegò sulle ginocchia e franò tra le mie braccia, trascinandomi nella polvere con il peso del suo corpo. “Scusa,” lessi sulle sue labbra. Mi sforzai di ricordare cosa fosse un sorriso, ma uscì appena una smorfia asimmetrica. “È con Melian che dovrai scusarti.”
Mio fratello vomitò un altro fiotto di sangue, prima di chiudere gli occhi. Stava morendo e non avevo il diritto di sentirmi ancora vittima: quella consapevolezza mi attraversò con la forza di un dardo e mi fece male – malissimo.
Era colpa mia, perché io – e non Vinus – l’avevo condannato a morte. Con la mia disperazione ostentata, con la mia ambizione suicida, giorno dopo giorno, gli avevo inoculato la convinzione che il sangue degli ophelidi fosse marcio: lo fosse al punto, almeno, che solo spenderlo tutto avrebbe potuto salvarlo.
“Rael…” singhiozzai. “Non morire, ranocchio.”
Gli occhi di Vinus erano vuoti come quelli di un morto, mentre ci fissava. Pensai che lo facesse per compiacersi della mia umiliazione, invece era sorpresa, la sua: sorpresa per il coraggio autolesionista del suo avversario, per un affetto suicida, per la determinazione con cui, davanti alla sconfitta, Nephyl e l’esercito di Eleutheria sceglievano comunque di mantenere la posizione.
Qualcosa di terribile e nostalgico lo travolse, paralizzandolo: era la memoria dell’ultimo giorno di Lephtys. Il principe degli ophelidi si arrese allo sguardo del ricordo e si vide com’era allora, cucciolo vivo e terrorizzato tra i morti: la donna uccello era il cadavere sventrato di sua madre; Rael, quel che restava di Zauror.
 
“Non ho tradito il nostro sangue più di quanto non lo abbia fatto tu. Io, almeno, non combatto per l’assassino di mio padre.”
 
Le parole di mio fratello lo martellavano nel vivo di una ferita suppurante.
Aveva ragione il figlio di Freil: mordeva come un cane alla catena.
 
“Vinus! Vuoi che…”
 
Il Drago Nero guardò le fila dell’esercito che aveva condotto sino alle porte di Trier. L’onda delle sue chiome frustò l’aria, scintillando come un nastro d’hydrargyrum.
“Vuoi che ti faccia saltare anche l’altro occhio?”
Lethor indietreggiò inorridito.
Con un fischio, Vinus richiamò a sé il liocorno, montandolo quasi tutto gli fosse diventato all’improvviso indifferente.
Quegli occhi, tuttavia, continuavano a cercarmi.
“Quando ci rivedremo, io ti caverò il cuore,” sibilai.
La sua risposta fu un ghigno feroce, mentre raccoglieva le redini e dava alla cavalleria il più improbabile degli ordini. “Alla piana di Mizar!”
 
Eravamo salvi: solo per un caso e senz’altro non per molto, ma la Capitale era ancora libera.

*

Nephyl mi afferrò per le ascelle, costringendomi a rialzarmi. Mi accorsi solo allora della gora scura che s’intravedeva tra le mie cosce: mi ero pisciata addosso.
“Non provateci più, Magistra,” mormorò il Generale.
Avrebbe potuto umiliarmi, ma scelse la via del silenzio, perché era un uomo d’armi e d’onore.
Avevo sbagliato tutto: avevo rischiato di far macellare la mia gente per una vendetta che nessuno aveva reclamato; avevo perso lucidità e buonsenso, inseguendo un fantasma che il mio dolore aveva evocato.
Sotto un sole accecante, non restavano che rovine.
Le mie.
“Occupatevi di Rael e degli altri feriti,” mormorai a testa bassa.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, ma non sopportavo che qualcuno potesse vederle e scoprirmi debole.
Per quanto sbreccata, ero ancora la rocca di Trier.

*

Il vento della notte soffiò impetuoso, trascinando con sé nembi gonfi di pioggia. Chiusa nel mio studiolo, nel cuore del Collegio, ascoltavo lo scrosciare violento dell’acquazzone attutire le urla strazianti che provenivano dal Sanatorium di Trier.
C’era anche Melian, tra le donne che piangevano i morti?
Non avevo il coraggio di affrontarla: per questo, vigliacca fino in fondo, mi aggrappavo ai privilegi del mio rango per non prendermi il disturbo di misurarmi con la sua collera. Se fossi stata la compagna di Rael, almeno, avrei preteso la testa della Makemagistra.
Mio padre mi raggiunse che la furia della tempesta si era quasi placata. Qualche rara stella s’intravedeva oltre la trifora, tra cirri filamentosi e impalpabili come spettri.
“Perché sei qui, Leya?”
La sua voce trasudava in eguale misura affetto e delusione. Ero stata la sua bambina, un putto dorato e prepotente, pieno d’illusioni; ero ora una donna esangue e crudele: non c’era nulla di cui potesse andare fiero.
Non elusi il suo sguardo, perché non temevo giudizi: mi ero già condannata da sola.
“Perché non ho il coraggio di spiare l’agonia di mio fratello.”
Leonar lisciò la candida barba, prima di sedere accanto al finestrone.
Il suo sguardo si perdeva lontano, eppure avevo come l’impressione che non avesse mai smesso di frugarmi dentro.
“Rinuncerò all’incarico. Dovrete trovare un altro Magister.”
L’apatia si sostituiva al dolore, annegandolo con le sue lente, implacabili onde. La mia voce, atona, era quella di uno spettro.
“No, non lo farai.” L’espressione di mio padre era severa. “Non lo farai, perché devi prenderti le tue responsabilità, Leya. Farlo fino in fondo.”
Risi. Di un’isteria atroce. “Ne sei convinto? Quanti ancora vuoi che ne faccia ammazzare?”
Leonar sospirò. “È Koiros che ha emesso la condanna. Tu hai fatto il possibile per prolungare un’agonia annunciata.”
“Io non ho fatto niente.” La mia voce s’incrinò. Le ultime sillabe abbandonarono le labbra flebili come il mugolio di un gattino. “Non sono riuscita a fermarli! Non...”
Mio padre si alzò di nuovo. “Tu e Rael avete fermato il Drago Nero. In qualche curioso, inspiegabile modo, siete riusciti a colpirlo. Questa è una vittoria, Leya.”
Leonar aveva ragione, ma non possedevo la sua saggezza, né la sua lungimiranza. Mi riusciva facile, piuttosto, credere che Vinus potesse essersi abbandonato a un capriccio: era un gatto che giocava con un topolino indifeso, farci durare un giorno, poteva essere divertente, no?
Mi passai le dita sulle palpebre. Mi bruciavano gli occhi, ma non volevo rassegnarmi alle lacrime. “Rael… Morirà?”
Non possedevo abbastanza coraggio d’ascoltare la risposta, ma non potevo sopravvivere con quel dubbio.
“Lyra di Janua si sta occupando di lui. È vecchia e quasi del tutto cieca, ma non esiste migliore guaritrice in tutta Eleutheria.”
Era vero: da adolescente mi ero illusa di poterla eguagliare, tuttavia, come la stessa Magistra aveva sentenziato, umiliandomi al punto da rendere indimenticabile la lezione, mi mancava ‘l’istinto della vita’. Impaziente e violenta, non coglievo il lessico segreto della pelle, né i lievi sussurri con cui un corpo racconta della guarigione e della morte.
 
“Tu calcoli, non ascolti; memorizzi, ma ti manca la pietà!”
 
Era una megera gracchiante, eppure aveva ragione: come guaritrice ero abile, ma non sarei mai stata eccellente.
Come Makemagistra, invece…
 
“Che devo fare?”
Leonar mi sorrise. “La cosa giusta.”
“E quale? Se mi vedessi riflessa, non mi riconoscerei. Come potrei scegliere?”
Mio padre mi accarezzò i capelli, trattenendone tra le dita qualche ciocca.
“Comincia a porti le domande giuste; poi, come solo tu sai fare, trova le risposte.”
A quel punto si congedò da me e mi lasciò a contare le ombre che la candela proiettava sulle pareti dello studiolo.
“Sei un vecchio pazzo,” sibilai, prima di affondare il viso tra le braccia e singhiozzare di rabbia e di sollievo.
 
Coraggio, Leya.
Coraggio.
La partita è ancora aperta.
Tu sei viva.
 
Il sonno mi vinse come non capitava da mesi, e nel buio ritrovai Lukas: non sognai, tuttavia, dei giorni in cui c’eravamo amati, ma di quando eravamo bambini.
Trier era un bagno di luce e le tinte mi apparivano vivide come capita solo durante l’infanzia. Ci inseguivamo per il borgo, noi due, incuranti del fastidio dei mercanti: ero libera e felice e il mondo mi apparteneva.
 
Mi svegliai pervasa da una sensazione d’intenso benessere, divisa tra la vergogna d’essermi arresa alla stanchezza e l’incredulità d’esserci ancora: non c’erano eserciti, alle porte di Trier; il Drago Nero non aveva ancora allungato l’ultimo morso.
 
“E se…”
 
Fu allora che trovai la prima delle domande cui aveva accennato mio padre.
 
Come avrebbe reagito Koiros all’iniziativa di Vinus?
 
L’aveva sguinzagliato perché pretendeva un massacro, non perché ci terrorizzasse senza colpo ferire.
 
“Forse… Forse abbiamo ancora tempo,” sussurrai, mentre mi dirigevo al Sanatorium.
La città era silenziosa e deserta. Sull’acciottolato, i miei passi rimbombavano in modo innaturale; di quando in quando m’imbattevo in qualche staffetta, ma della popolosa Trier non restavano che ombre e polvere.
Strinsi le labbra e deglutii: li avrei salvati. Finché fossi rimasta viva, avrei fatto il possibile per proteggerli. Non avrei più ceduto all’egoismo, né alla paura. Sarei stata il filo della spada che avrebbe decapitato non solo Vinus ma ogni demonio nato dal freddo dell’Icengard.

*

“Sapevo che l’avresti fatto.”
Leonar mi prese le mani e mi condusse sino al letto di mio fratello. Incosciente, Rael sembrava all’improvviso giovane e fragile come non l’avevo mai visto. Seduta al suo fianco, Melian allattava Lukas.
“Mi dispiace,” balbettai. “Non avrei dovuto permettergli di…”
La figlia di Luthien sollevò lo sguardo: i suoi occhi erano asciutti. “Rael non ascolta nessuno, se non se stesso.”
 
Non c’era risentimento nelle sue parole, né odio: l’amore di Melian stava tutto in quella profonda, completa accettazione della natura di mio fratello.
Nessuno di noi aveva mai voluto cogliere in Rael l’ophelide, se non lei: la donna che non avrebbe mai accolto un uomo.
 
“È per te, che vive,” dissi. “La mia guerra non gli interessa, quanto la tua vita.”
Melian sfiorò con le labbra il capino lanuginoso del figlio. “Allora ci regalerà la pace, perché io resterò al suo fianco.”

*

Il nuovo giorno sapeva del sale di troppe lacrime, ma quel che potevo piangere, non era perduto: era amato, era vivo e pieno della speranza che non avevo mai perso; la stessa per cui dovevo prepararmi a un nuovo assalto.
A una nuova guerra e a un indimenticabile amore.

   
 
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