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Autore: Vale11    27/09/2011    0 recensioni
“Ragazzino, ce l’hai un nome?”
Le sembrava abbastanza sveglio da essere in grado di rispondere, dopo essere riuscita a convincerlo a infilarsi qualcosa nello stomaco. Era magro, ma aveva un fisico decisamente tirato. Un fascio di muscoli e nervi, ecco cos’era.
“E questo che razza di accento sarebbe?”
“Un accento italiano, biondo. Ce l’hai un nome?”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Li avrebbe scansati, se avesse bevuto meno. Li avrebbe scansati tutti. Era un quarterback, anche se non aveva una squadra. Un lineman, un kicker e un quarterback di sicuro non bastavano a mettere su una squadra di football per lo meno decente. Lui era un quarterback, e i riflessi li aveva.
Tornando al contingente, li avrebbe scansati tutti. Avrebbe. Se avesse bevuto meno, cosa che non aveva assolutamente fatto.
Intendiamoci: non era il tipo da annegare i dispiaceri nell’alcool. Non era tipo da alcool, in generale. Fumare si, fumava, ma bere non rientrava nei suoi hobby.
Ergo, non avrebbe bevuto affatto se non fosse successo niente. Ma era successo, quindi lui aveva bevuto, quindi era uscito di casa praticamente ubriaco e quindi aveva iniziato ad azzuffarsi con un tizio trovato per strada. E, non sapeva come, il tizio era diventato tre persone.
“Non hai abbastanza muscoli per placcare, Hiruma. Ti farai ammazzare. Ma conoscendoti, non te ne frega niente”
Musashi aveva ragione, non gliene fregava niente. Aveva preso l’abitudine di azzuffarsi con chiunque, la chiamava palestra gratis.
“Stupido biondo, la prossima volta che le prendi ti lascio per strada!”
E invece lo raccattava regolarmente, lo teneva per la vita e lo riportava nel suo appartamento. Nella sua camera d’albergo. Prima o poi se ne sarebbe andato, sentiva il bisogno di un buco tutto suo.
“Fammi il favore di non cercare la rissa a posta, cretino”
Aveva annuito senza nemmeno ascoltare, e il giorno dopo si era presentato al club con un occhio nero. Kurita si era preoccupato, Musashi l’avrebbe preso a sberle.
Di nuovo al contingente, il tizio con cui si era preso e che era diventato tre persone riuscì ad assestargli un sinistro ben piazzato sulla tempia. Calcolò che forse il fatto non era che detto tizio fosse diventato uno e trino, ma che avesse degli amici che gli stavano dando una mano. Anche lui ne aveva. Uno.
Il crack che sentì riverberare giù per tutta la spina dorsale lo strappò brutalmente dalle reminescenze matematiche sul numero delle sue amicizie. Le reminescenze gli impedirono di reagire quando anche il secondo crack gli rimbalzò del cervello, dovuto all’impatto contro un muro.
“Ci arriviamo insieme al tuo cazzo di torneo, biondo. Non farti menate. Intesi?”
Lui, Kurita e Musashi.
E, a un tratto, niente più Musashi.
Lo sapeva, perché Musashi li aveva mollati. Suo padre aveva bisogno di lui più di loro, oggettivamente parlando. Ma soggettivamente Yoichi si era sentito crollare la terra sotto i piedi. Poteva sembrare un demone quanto voleva, ma restava umano per sua somma sfortuna. Si era sentito tradito. Dopo che sua madre era sparita, aveva dovuto vedere la schiena di un’altra persona a cui teneva sparire dietro l’angolo.
Soggettivamente, ci era stato da cani. Con l’eccezione di Cerbero, che se la dormiva bellamente in quel cazzo di hotel. Il fatto è che Musashi era il solo che riuscisse a tenerlo coi piedi per terra, e il solo che riuscisse a sostenerlo quando stava per crollare. Niente di cui stupirsi, quindi, se appena se ne era andato la vena autodistruttiva di quel ragazzino ossigenato l’aveva spinto ad andare in pezzi.
C’era Kurita, certo.
Ma non si può certo dire che un ragazzo buono come lui riuscisse davvero a mettere un freno alla premessa all’autodistruzione che si era ficcata nel cervello del quarterback da anni, e che solo Musashi a suon di ramanzine o, quando era il caso, di cazzotti, riusciva a fermare.
Kurita ci provava, ma finiva sempre per vedere Hiruma come un appoggio e molto raramente come qualcuno che invece, di un appoggio, ne avrebbe avuto immensamente bisogno.
Non che Yoichi lo desse a vedere.
Mai.
Bluffare era un’arte, e lui ne era maestro.
“C’è qualcosa che non va, Hiruma?”
“Nah, grassone. Sto che è una meraviglia”
Era regolarmente Musashi che lo beccava pesto, o a tirare pugni a un muro. Per qualsiasi problema potesse avere. Fossero i suoi genitori. Suo padre maledetto o semplicemente il bisogno di scaricare tutta la tensione accumulata su un paio di spalle troppo magre per fingere di stare sempre bene. O per fingere che non ti interessi davvero quando tutti gli esseri umani in circolazione scappano appena ti vedono.
Come reagisci, allora?
Dagli almeno un motivo per fuggire terrorizzati, vuoi mettere la soddisfazione. Ghigna pure quanto vuoi, tieniti i problemi per te. Siine geloso, sono solo tuoi.
“Non hai abbastanza muscoli per placcare, Hiruma”
Se ne rendeva contro in modo piuttosto regolare, che non ne aveva.
Scivolò a terra lungo il muro, cercando di avvicinare le ginocchia al petto per proteggere le costole, troppo intontito per riuscire ad alzare le braccia a proteggere la testa.
“Hiruma, cretino. Quando fai a botte proteggiti la testa. È fondamentale, rischi di farti ammazzare davvero se continui così.”
Cercò disperatamente di seguire il consiglio di Musashi che gli rimbalzava nelle orecchie, ma riuscì a malapena ad alzare un braccio quanto bastava per prendere un calcio diritto sul polso. Si morse la lingua, sperando non fosse rotto.
È il destro, mi serve per lanciare.
Ma a chi?
Musashi li aveva mollati. Poteva fingere quanto voleva, ma ormai considerava il loro trio una specie di famiglia, per quanto assurda e contorta potesse essere. E non si era sentito così solo da quando sua madre era scomparsa.
Ne aveva perso un altro per strada, mh? Allora aveva fatto bene a rincoglionirsi con tutto quell’alcool a casa. Roba da poco, era andato al supermercato e si era spacciato per maggiorenne. Si era attaccato a una bottiglia di gin da due soldi e poi era uscito.
E adesso era accasciato per strada, sperando che non gli avessero rotto il braccio che gli serviva per passare a nessuno. Cercando di tenere gli occhi aperti.
 
“Oi, sei vivo?”
La prima cosa che le passò per la testa è che quel ragazzino aveva i capelli tinti in un modo agghiacciante. Mezzi biondi e mezzi rossi, un vero e proprio attacco all’estetica.
La seconda cosa che le venne in mente, era che la tinta non brillava alla luce dei lampioni, che non era umidiccia e appiccicosa e che non ti restava sulle mani.
La terza cosa che le venne in mente è che quel ragazzino aveva la testa coperta di sangue, e che doveva aver sbattuto nel muro con un certo impegno. Immaginando che non avesse preso la rincorsa tirando una testata nei mattoni di proposito, concluse che qualcuno doveva essere stato, ma quel qualcuno non si vedeva.
La quarta cosa che le saltò in testa fu la paura folle che quel ragazzino fosse morto. Era così immobile che le dava l’impressione di non respirare, e c’era tanto di quel sangue da far contento qualunque medico addetto alla donazione.
La quinta cosa che le venne in mente, e che fece, fu caricare il ragazzino svenuto in macchina, trascinandoselo dietro per quei pochi metri che la separavano dalla portiera, e partire verso l’ospedale.
 
Qualcuno mi spieghi perché.
Il perché in questione era questo: perché mi sono fatta convincere a non portarlo all’ospedale e a portarmelo a casa? Col rischio di non riuscire a rimetterlo in sesto decentemente.
Cristo, non era un’infermiera. Anche volendo, era troppo giovane per esserlo, e non le interessava nemmeno studiare medicina.
Era iscritta a Scienze politiche, e se avesse saputo che un erasmus avrebbe significato trovarsi in quella situazione se ne sarebbe rimasta a casa sua. Otto mesi in Giappone per imparare meglio la lingua, e dopo appena un mese si era trovato un ragazzino mezzo morto sul letto. La cosa positiva era che aveva smesso di sanguinare, quella negativa era il suo polso. Non le piaceva per niente. Era gonfio, ed era diventato praticamente nero. Su un ragazzo così pallido quel livido sembrava una macchia di vernice. Avrebbe dovuto chiedergli di muovere le dita quando si fosse svegliato di nuovo, ma al momento sembrava non volerne sapere. Corse a prendere il kit di pronto soccorso che teneva in bagno, cercando di fare quello che poteva e sperando che quello che poteva fosse abbastanza.
 
“Ragazzino, ce l’hai un nome?”
Le sembrava abbastanza sveglio da essere in grado di rispondere, dopo essere riuscita a convincerlo a infilarsi qualcosa nello stomaco. Era magro, ma aveva un fisico decisamente tirato. Un fascio di muscoli e nervi, ecco cos’era.
“E questo che razza di accento sarebbe?”
“Un accento italiano, biondo. Ce l’hai un nome?”
Annuì, fissando fuori dalla finestra il sole pomeridiano. Aveva saltato la scuola. Si era svegliato troppo tardi.  La ragazza che se l’era portato in casa gli aveva detto che il fatto che si fosse svegliato dopo una botta simile aveva qualcosa di eccezionale in sé.
“Di cosa ce l’hai la testa, d’amianto?”
Ghignò, inghiottendo la cucchiaiata di latte e cereali senza zucchero che quella tipa gli aveva messo davanti. La tizia si era attaccata a una lattina di Guinness, nel frattempo. Alle sei di pomeriggio.
A ognuno i vizi che preferisce.
“E quale sarebbe?”
“Hiruma”
La sentì sbuffare, la vide incrociare le braccia sul petto.
“Non prendermi in giro. Ti ho chiesto come ti chiami, non come fa di cognome tuo padre”
La sola menzione del genitore gli dipinse una smorfia di rabbia in faccia.
“Yoichi”
“Ottimo. Come preferisci che ti chiami?”
“Chiamami un po’ come ti pare”
“Ti spiace se ti chiamo Yoichi? Non mi è sembrato che parlarti di tuo padre ti abbia fatto piacere”
Hiruma la fissò ad occhi sgranati per mezzo secondo, per poi sfoderare di nuovo il suo ghigno aguzzo.
“Touchè. Sei una specie di psicologa, testa rossa?”
La vide scuotere la suddetta testa, sparando capelli rossi e ispidi in tutte le direzioni.
“Sto cercando di diventare una giornalista decente”
“In Giappone?”
“Erasmus”
“U-uh”
Lo vide appoggiare il mento sul pugno chiuso e chiudere gli occhi, il polso pesto abbandonato sulle gambe.
“Sei universitaria”
“Bravissimo capitan ovvio. Vai a sdraiarti, hai preso una brutta botta ieri”
Hiruma fece del suo meglio per ignorarla.
“Quanti anni hai?”
“Ventitre. Vai a stenderti”
“Io ne ho quindici”
“Ok, vai a stenderti”
“Sei vecchia, testa rossa”
“Lo so, e tu sei un poppante ossigenato. Vai a sdraiarti angioletto, ti porto il ghiaccio per la testa e per il polso”
Angioletto?
“Biondo e con gli occhi azzurri? Preferisci che ti chiami Candy Candy? Vai sul letto, prima che lo faccia sul serio”
Evidentemente aveva pensato a voce alta.
 
“C’è una cosa che non so”
Si meravigliò di essere riuscito a sputare le parole fra i denti, stretti in una smorfia di dolore da quando testa rossa gli teneva il ghiaccio sul polso. La testa andava meglio, pulsava meno da quando teneva il ghiaccio pure sulle fronte.
“Sapessi quante non ne so io”
“Parecchie, immagino. Ti prego di tenere a bada il sarcasmo, sono convalescente”
“Sei credibile come una banconota da tre euro”
“Tre cosa?”
Lo vide spostare un po’ la pezza ghiacciata, un sopracciglio alzato.
“Euro, ragazzino. La moneta europea”
“Ah. Bene. Giusto.”
Buttò di nuovo giù la testa, facendosi inglobare volentieri dal cuscino.
“Cos’è che non sai?”
“Non so come ti chiami, testa rossa”
“Perché non te l’ho detto, angelo
Lo sentì grugnire qualcosa di terribilmente simile a un soprannome di merda. Ghignò.
“Mi chiamo Irma. Guarda caso, somiglia al tuo”
“Non mi pare che Irma suoni come Yoichi.”
“Come Yoichi no, ma come Hiruma si. Stringi i denti, biondo”
Dovette effettivamente farlo, quando Irma detta testa rossa gli strinse la benda sul polso. Niente di rotto per fortuna, ma parecchio di contuso.
“Mi spieghi che ci facevi abbracciato a un muro ieri notte?”
Yoichi ghignò da sotto la benda fredda.
“Anche i muri hanno bisogno di affetto, non trovi?”
Capì che non le avrebbe detto niente. Sorrise.
“E anche di vernice. L’hai praticamente dipinto di rosso. Hai dove andare?”
Rimase zitto per un po’.
“Ho una camera d’albergo e un cane”
“Non ci penso nemmeno a portarti in albergo, da solo, in queste condizioni. Domani vado a prendere il tuo cane, tu resti qui”
“E se non volessi?”
La sentì ridere sotto i baffi, controllandogli la temperatura con un termometro e sospirando sollevata dopo aver scoperto che rientrava nella media. La notte scorsa era stata fredda, ma per fortuna Yoichi non sembrava averne risentito. Doveva solo riprendersi dalle botte.
“Ti chiamerei Candy Candy tutte le volte che ti vedo per strada, angelo
“Questo si chiama ricatto”
“Chiamalo come ti pare, Yoichi”
 
 
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E uno!

 
 
  
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