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Autore: Ms_MartyReid    30/09/2011    18 recensioni
"La nostra qualità più autentica è la capacità di creare, di superare, di sopportare, di trasformare, di amare e di essere più grandi della nostra sofferenza" [Ben Okri]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quei giorni furono bianchi.
Ogni luce, ogni lenzuolo, ogni cuscino, ogni camice, ogni parete, ogni soffitto, ogni porta. Tutto bianco. E’ da allora che il bianco mi spaventa. Mi fa rabbrividire, perché mi torna in mente di nuovo tutto l’Orrore.
E oggi, dopo precisamente sette anni dal giorno più terrificante della mia vita, apro la porta del nuovo appartamento comprato da appena tre giorni e mi rendo conto che la grande stanza in cui entro è completamente, decisamente, terribilmente bianca, come i teli che ricoprono i pochi mobili.
Bianco-assenza.
Bianco-terrore.
Bianco-bara.
Bianco-Ether.
E crollo a terra in ginocchio.
 
 
Finalmente, era l’ultimo giorno di scuola. Tutti i miei compagni di classe avevano proposto di riunirci in un bar vicino per bere qualcosa e brindare agli esami dopo l’ultima campanella. Ma io avevo dimenticato un quaderno sul banco, così gli avevo detto di avviarsi, che li avrei raggiunti subito. Ether mi aveva fatto compagnia.
Quando ero tornato da lei, sulle scale, con il mio quaderno blu fra le mani, era scoppiata a ridere.
«Sempre il solito! Ti porti dietro questo quaderno anche l’ultimo giorno di scuola?» aveva detto, scuotendo una cascata di capelli biondi.
«E se fosse arrivata proprio oggi?».
«Matt, non credo che i professori siano il tipo di persone che ti danno l’ispirazione per scrivere quel bellissimo libro che ti proponi di completare da più di due anni!» mi aveva preso in giro.
«E tu che ne sai?».
L’avevo presa per mano, come al solito, e avevamo sceso le scale.
«Matt, sei il mio migliore amico. Promettimi ancora una volta che ci vedremo e sentiremo spesso anche dopo gli esami!» mi aveva detto, bloccandosi sul ciglio della strada e rivolgendomi uno sguardo di smeraldo. Ero scoppiato a ridere.
«Ether, te l’ho giurato più di cinquecento volte!».
Mi aveva sorriso e io ero tornato serio.
«Comunque, devo dirti una cosa che penso da un pò». Attraversammo la strada.
«Cosa?» aveva chiesto, curiosa.
Ma non seppe mai cosa avrei voluto dirle.
Non lo avevo visto arrivare, e neanche lei. Eravamo a pochi centimetri dal marciapiede, sarebbero bastati due passi per raggiungerlo. Sarebbero bastati solo altri cinque secondi.
Mi accorsi dell’enorme muso bianco del tir troppo tardi. Poi, la sensazione di cadere in un grande, profondo abisso bianco.
 
Mi risvegliai dal coma solo dopo otto giorni, mi dissero. Un miracolato, secondo molti. Mi sorrisero fra le lacrime quando aprii gli occhi in una stanza bianco-vuoto.
Mia madre mi baciò la fronte, le guance, i capelli, mio padre mi tenne stretto in un abbraccio per minuti interi.
«Come ti senti?» mi chiese poi mia madre.
«D’incanto. Dov’è Ether?» risposi, ma non sentii la mia voce. Mia madre mi guardò inorridita.
«Mamma?! Papà?!» mormorai. Ancora una volta non riuscii ad ascoltare la mia voce. Poi mi bloccai, terrorizzato.
Lessi la verità nei loro occhi umidi, nella mano di mia madre tesa verso il mio viso, nei singhiozzi sommessi di mio padre, che non avevo mai visto piangere in tutti i miei diciotto anni.
Ether non c’era più, e le mie parole erano finite con lei.
Avrei voluto saltare su, strapparmi dalle braccia e dalle gambe tutti quegli aghi e scappare il più lontano possibile. In un film avrebbero fatto così.
Ma io non ero fatto di pellicole e copioni, solo di carne e sentimenti umani. Mi accartocciai su me stesso, come un foglio di carta in preda al fuoco, e bagnai di lacrime il mio pigiama bianco-orrore.
Era stata colpa mia se non c’eravamo uniti agli altri, colpa mia se avevamo fatto tardi. Eppure, era stata lei a pagarne il prezzo. Io potevo respirare ma lei era in una cassa di marmo bianco-perdita.
Avrei voluto gridare ai miei genitori di uscire, di lasciarmi da solo per qualche minuto, ma non avevo la forza, né la voce, per farlo.
 
Mi dimisero dopo tre mesi. Le ossa delle gambe e delle braccia erano tornate ai propri posti, come anche le costole. Avevo parecchie cicatrici in più, Ether e la mia voce in meno.
I tre mesi li avevo passati scrivendo, quando le braccia me lo permettevano. Avevo perso il quaderno blu con tutti i miei appunti, ma non mi importava. Avevo un nuovo tema.
Nel mio libro parlai di Ether e a lei l’avrei dedicato se non fosse rimasto incompleto. Mi mancava il finale. Poco prima che ci investissero stavo per dirle qualcosa, ma non ricordavo cosa, nonostante mi sforzassi disperatamente di farlo.
Tutti i miei amici vennero a trovarmi e mi sorridevano cauti quando rispondevo alle loro domande scrivendo pigramente le risposte su uno dei tanti bloc-notes che mi avevano comprato. A volte, mi facevano anche ridere con qualche battuta divertente.
Ma poi mi tornava in mente Ether, con la sua voglia di ridere e di vivere, e lo stomaco mi si chiudeva in mille nodi.
 
 
Asciugo le lacrime e decido di alzarmi. Ci metto un po’, ma ci riesco. Serro gli occhi e mi avvicino ai muri bianco-baratro. Li sfioro tremando e respiro irregolarmente. Sotto le dita, riesco a percepire il freddo intenso di quelle pareti bianco-morte.
“Comunque, devo dirti una cosa che penso da un pò” mi dico nel cervello. “Una cosa che penso da un pò”.
Spalanco gli occhi, fulminato. Mi blocco e capisco che quel libro posso finalmente finirlo e dedicarglielo.
Perché mi è tornato in mente cosa avrei voluto, e dovuto, dirle.
La cosa più semplice del mondo.
“Ti amo”.
Sarebbero bastati solo altri cinque secondi.
  
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