Anime & Manga > Puella Magi Madoka Magica
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Autore: Walpurgisnacht    02/10/2011    2 recensioni
Piccolo excursus sulla vita di Kyoko dopo il quinto capitolo de L'Orrore? con la partecipazione straordinaria di Akira il Concierge.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kyoko Sakura
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Puellaception!'
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Oggi è il terzo giorno. Tre giorni che mi trovo in questa disastrata situazione.
Kyōko Sakura, prima nota mentale di mercoledi: la prossima volta che vuoi uccidere qualcuno assicurati di farlo e di non lasciare nulla di intentato. Perché poi finisci col farti mozzare di nuovo le mani. Oh sì, questo mi è successo domenica.
Ero andata, tutta bella beata e decisa, a far fuori Mami Tomoe, la mia vecchia mentore che sembrava fosse morta durante il combattimento con una strega e che invece, per una botta di culo assurda, era sopravvissuta. Io sono arrivata qui, a Mitakihara, per prendere il suo territorio e la relativa scorta di Semi del Dolore, quegli affari neri che cadono dalle streghe sconfitte e che ci sono fondamentali per purificare le nostre Gemme, pena... cose brutte.
D'altronde ha sempre funzionato così, nel nostro mondo: una Puella Magi muore tragicamente in battaglia e la sua zona viene requisita a forza da una sua collega.
Niente di nuovo, pensavo.
Poi sabato, mentre me ne stavo tranquilla in albergo aspettando qualche movimento di natura magica, il cui livello era rimasto inusualmente basso, mi vedo arrivare Kyubey.
Kyubey è il patriarca della sua strana razza, esseri quadrupedi con due coppie di orecchie che vanno in giro per il mondo a scegliere ragazze pre-adolescenti come me con cui contrattare per trasformarle in Puellae Magi, in cambio di un desiderio.
Beh, 'sto coso arriva in camera mia violando la mia privacy e spiattellandomi sul grugno una serie di notizie succulente ma disturbanti.
Innanzitutto Mami era viva. Eppure, lui stesso me l'ha confermato, la strega le aveva staccato la testa con un solo morso e poi aveva divorato la quasi totalità del suo cadavere.
E quindi? Quindi ecco la seconda novità: noialtre non siamo nient'altro che contenitori di anime. Al momento della chiusura del contratto la nostra stessa essenza viene rinchiusa nella Gemma dell'Anima e il corpo diventa un vascello altrimenti vuoto. Se il sasso colorato non subisce danni possiamo riprenderci anche dalla più terrificante delle mutilazioni, come Mami ha appunto dimostrato resuscitando dopo lo scontro che l'aveva vista defungere in maniera tanto brutale.
'Sticazzi, mi sono detta. Ormai avevo fatto la fatica di spostarmi, era stato scortese da parte sua non essere schioppata. Pertanto mi sono leccata i baffi alla prospettiva di essere io stessa ad ammazzarla. Una ragazza ha delle priorità, dopotutto.
Il giorno dopo, una bella domenica di sole, mi sono appostata sotto casa sua e alla prima occasione... zack, ho colpito. In realtà no, l'ho clamorosamente mancata. Ma non ero lì per un'esecuzione. Per quanto sia una stronza senza cuore non l'avrei mai uccisa a sangue freddo. Quello era stato solo il mio biglietto da visita.
Eppure lei non era d'accordo: ad ogni mia esortazione a farla trasformare opponeva un intestardito rifiuto, blaterando di come non volesse più combattere.
Ridicolo. Sperava di fottermi, altro che “no, ho chiuso”. Hai chiuso quando lo decido io, bella.
Quando ha detto “non sono qui per rendere più facile il lavoro alla tua coscienza”... ecco, mettiamola così, ho leggermente svalvolato. Devo ammettere che è stato anche piacevole, almeno in parte, sentire gli occhi iniettarsi di sangue e perdere qualunque freno inibitore. Mi ha privato di quella scomodità chiamata “pensare” e sì, è molto più facile lasciare che sia il tuo istinto omicida a guidarti.
Nessuna conseguenza. Nessun rimorso. Nessun rimpianto.
Solo il dolore altrui a riempire le tue narici come se fosse nettare riservato agli dei e a farti trascendere in uno stato di totale incoscienza.
Taglia qui, taglia lì, asporta questo e asporta quello. In un minuto Mami era stesa per terra, senza braccia e senza gambe. Sanguinava persino dalle cavità oculari e dalle orecchie.
Mancava giusto il tocco finale. Il fiocchetto che avrebbe chiuso perfettamente il regalo che mi stavo facendo.
Ho alzato la mia arma, dopo aver appoggiato per terra con inappropriata delicatezza la sua Gemma, e mi accingevo ad usarla per porre fine alla sua ormai miserevole sembianza di vita.
Quand'ecco che, senza il minimo preavviso, ho sentito bruciarmi i polsi come se ci avessero versato sopra prima della benzina e poi un fiammifero acceso.
Tenendo fede al senso del teatrale che ho sempre amato avevo chiuso gli occhi per dare importanza al gesto. Quando li ho riaperti c'è stato un doppio shock, visivo e auditivo: mentre mi giungeva il tonfo delle mie mani e della lancia che cadevano a qualche metro da me ho visto le mie povere braccia mozzate appunto all'altezza dei polsi e una spada che mi rifletteva addosso la luce solare, splendente di rosso.
Il mio rosso. Il mio sangue. Le mie mani.
Mi è uscito un urlo bestiale e ho fatto tre passi indietro, inorridita. Voltandomi verso la fonte di questo spiacevole contrattempo l'ho vista: una nuova Puella Magi, immagino contrattata da pochi secondi perché l'avevo intravista prima e se ne stava in un angolo a tremare come una foglia. Capelli azzurri e uno sguardo da schiaffi, era fissa su di me e mi squadrava con odio. Il mio cervello ha registrato anche una leggera paura nei suoi movimenti, ma in quell'istante non me ne sono curata.
Cazzo, che male fottuto.
“Non ti lascerò uccidere Mami in questo modo indegno, straniera” proclamò con la baldanza di un cavaliere in armatura che stava combattendo il drago per salvare la bella principessa. Cioè, guarda da chi vado a farmi malmenare. Da una che ha un atteggiamento simile e una macchia rossa sulla guancia.
Che figura di merda. La predica da una novellina.
Sono sgusciata via, ferita dentro e fuori. Il mio orgoglio stava mangiando ravanelli crudi, in quel momento.
Azzurrina, stai pur tranquilla che appena vado a posto ti faccio ingoiare le ginocchia senza neanche staccartele.
“Oh, 'fanculo. Rimuginare mi fa solo venire le rughe” prorompo nella stanza vuota. Con un poderoso colpo di gomiti mi alzo in piedi dalla posizione supina in cui mi trovavo sino a pochi secondi fa. Il letto è disfatto e dopo un po' mi rimane scomodo restarci sdraiata.
Butto un'occhiata sulla stanza: è il delirio. Lattine mezze rovesciate per terra, buste di patatine aperte e sparse un po' ovunque, pocky che fanno a gara per quello che è riuscito a infilarsi nel posto più impossibile. Forse vince il fortunato che è finito, in un modo che non sono assolutamente in grado di spiegare e/o di ricordare, dentro l'abat-jour.
Va fatto ordine. Lo farei da sola, se solo potessi.
Ma non posso. Pertanto...
Altra gomitata, stavolta sul pulsante con cui si chiama il personale. Due, tre, quattro volte in rapida, rabbiosa successione.
Voglio essere sicura che chi di dovere capisca che sono io a farmi viva.
Per fortuna va così: passa un minuto cronometrato e da dietro l'angolo della stanza ecco spuntare la faccina del mio concierge preferito. Quello che ho terrorizzato il giorno che sono tornata qui per la prima volta, quando in preda a un piccolo scatto d'ira ho abbattuto la porta a calci attirandomi l'attenzione di chiunque sul piano. Soprattutto sua. Poi ho tirato fuori le braccia dalle tasche e la sua baldanza è evaporata, lasciandolo lì a balbettare “Ba-ba-ba-ba-ba”. Poveretto.
È un così bel ragazzo. Mi è spiaciuto farlo cagare in mano in quel modo, ma aveva insistito per sapere a cos'era dovuto il mio sclero. Io non c'entro, ha fatto tutto lui.
“Akira, caro. Mi fa piacere che sia venuto proprio tu” gli dico voluttuosamente. Poi alzo un moncherino e lo muovo verso di me, come a fargli segno di avvicinarsi.
Lui fa un paio di passi avanti, un poco tremebondo. Si gratta la testa non sapendo cosa dire. La cosa non mi meraviglia, sono tre giorni che fa così.
“Su su, piccolo. Non fare così. Sai che non mordo. Senti, avrei bisogno che mi mettessi a posto la stanza. Come vedi è un porcile”. Suono come una gatta che miagola tenera e lasciva mentre si struscia contro le caviglie aspettando il momento più opportuno per graffiarti con le unghie avvelenate.
Non dà cenni di vita. Se ne sta lì, ingobbito, a guardarsi attorno. Respira un po' a fatica, si stropiccia le dita e cerca di evitare il mio sguardo severo.
“Akira” ricomincio, sempre affabile “ti ho già detto cinque o seicento volte che non devi temere nulla da me. So di aver fatto una pessima prima impressione ma, se ti ricordi cosa ti ho raccontato in quel momento, credo tu possa capire il perché del mio nervosismo. Non ce l'ho per nulla con te, anzi ti devo ringraziare per avermi coperto con la direzione e aver impedito che mi sbattessero fuori di qui a calci. E, se la cosa ti può consolare, oggi penso proprio che me ne andrò e ti lascerò finalmente in pace. Quindi sopportami ancora per un poco”.
Mi secca ammettere che l'ultima novità lo tranquilizza in modo lapalissiano. Le sue spalle si rilassano in maniera evidente e quasi gli sparisce lo sguardo da pulcino smarrito. Ma quel che è giusto è giusto, ho creato fin troppi grattacapi a questo poveretto.
“Gentilmente, puoi sistemare questo casino ciclopico? Farei da me ma...” e, come ogni volta negli ultimi tre giorni quando ho voglia di sfotterlo, alzo le braccia di fronte a me per mostrargli la mia leggera impossibilità nello sbrigare da sola queste cosucce di routine.
“Kyōko...” azzarda timido, prendendomi leggermente di sorpresa. È la prima volta che è lui ad attaccar bottone.
“Dimmi pure”.
“Perché te ne vai? Per quanto sia pazzo da dire mi stavo... affezionando a questa bizzarra situazione... e a...”.
Che dolce. Se avessi delle mani lo abbraccerei.
“Temo di non poterti rivelare il motivo. Se quel che hai visto finora ti sembra insensato, e premetto che posso capirti bene, non vuoi sapere cosa succederà poi. Proprio non vuoi. Te lo assicuro”. Cerco di suonare più marziale che riesco, non ho particolare interesse a fare in modo che si faccia i cazzi miei. E comunque intendo seriamente ogni singola parola appena pronunciata. Non posso e non voglio immischiarlo in cose potenzialmente pericolose.
Con che coraggio, d'altronde, potrei raccontargli che molto probabilmente oggi è il giorno in cui il processo di rigenerazione avrà i suoi primi effetti concreti? Che, cioè, mi stanno ricrescendo le parti mancanti? Dio. Manco fossi una lucertola che ha perso la coda. In questi momenti mi viene lo schifo a pensare in cosa mi hanno trasformata.
“Sì, ma...”.
“Ma niente” ribatto perentoria “Credimi quando ti dico che davvero non è cosa che tu voglia, possa o debba sapere. È orribile e incredibile, nel senso che non ci si può proprio credere. Evitatelo, è un consiglio spassionato”.
Spero di riuscire a tagliare le gambe alla sua stupida curiosità.
Direi di no. “Cosa ti può succedere di peggio? Hai perso entrambe le mani domenica scorsa. Non concepisco una cosa più orribile di questa”. Dunque, dov'è che ha tirato fuori tutta questa sfacciataggine? Pensavo di averlo costretto a essere sempre chiuso e introverso in mia presenza. Forse ha annusato qualcosa di diverso nell'aria, questo pomeriggio. O forse è il tipo che non sa proprio trattenersi e deve intromettersi in fatti che non lo riguardano.
Vediamo se un'azione più fisica lo fa desistere.
Mi alzo con qualche difficoltà e anzi quasi inciampo, ma riesco a recuperare facilmente. Lui ridacchia, insensibile. Con tre passi gli sono davanti.
Sono più bassa di lui di dieci centimetri, possibilmente quindici. La differenza d'età non è poi così grave: ha almeno cinque o sei anni più di me. Forse anche sette. La barba incolta che gli copre mento e parte delle guance lo rende ancora più maturo.
Sì, mi dispiace sul serio.
“Sentimi bene, ragazzo” comincio, marcando con forza quel ragazzo come se fossi io la più vecchia fra i due “Se la tua memoria fa cilecca la aiuto io: ho avuto queste mutilazioni trattando con gente che non vorresti incontrare neanche nei tuoi peggiori incubi. Spacciatori di droga, mercanti di essere umani, assassini e ceffi di quella risma. Ne ho uccisi sei, ma erano molti di più e sono stata fortunata a uscirne viva. Se ti dico che sta per succedere qualcosa di peggio è nel tuo interesse credermi, che tu te ne voglia convincere o no. Venire a conoscenza di più di quel che ti ho detto, che già ti mette in una posizione discretamente complicata, vorrebbe solo dire una tua dipartita prematura. E credimi, non lo voglio. Non lo vuoi neanche tu. Accontentati di quel che sai e tienitelo stretto senza farne mai parola con anima viva. Fra un paio d'ore sparirò dalla tua vita e potrai dimenticarti tutto questo, lasciartelo alle spalle e fare carriera in ambito alberghiero. Quando poi, fra trent'anni, sarai direttore di uno dei più grandi hotel del mondo ricorderai con un pizzico di nostalgia di quella squinternata quattordicenne monca che ha rischiato di rovinarti. Fidati di me, per favore”. Senza neanche rendermene conto metto le braccia come se le mani che non ho si fossero unite in una preghiera.
Non posso negarlo. Questo ragazzo mi piace. Come persona.
“Kyōko...”.
“Sì?”.
“Puzzi come una morta. Non ti sei neanche mai cambiata da quel giorno”.
Lo spintono via, stizzita. Lui ride a crepapelle.
“Visto che sei tonto deciderò io per te: sistema qui, io vado a disdire la prenotazione. Addio, Akira. È stato un piacere nonostante tutto”.
Lo sorpasso mentre lui cerca di riguadagnare un minimo di compostezza, fallendo senza appello.
Mormora qualcosa di inintelligibile ma non cerco nemmeno di decifrare, sarebbe impossibile. E neanche mi interessa.
Esco dalla stanza. La porta elettronica che mi hanno installato lunedì è stata una benedizione, non servono insulse chiavi che non posso maneggiare.
Lasciando una scia di fetore che non manca di disgustare gli sfortunati incrociati per strada giungo, dopo un breve viaggio per le scale, di fronte alla reception.
Per fortuna Akira ha avuto l'intelligenza di avvisare i suoi capi, tralasciando la storia farlocca che gli ho raccontato, e li ha messi al corrente della mia situazione deficitaria. Quindi nessuno si meraviglia vedendomi avanzare baldanzosa con le braccia penzolanti sui fianchi.
Toh, c'è la stessa impiegata che c'era il giorno in cui sono rientrata alla base bastonata e sanguinolenta.
“Buondì, signorina”.
“Oh. Salve a lei. In cosa posso aiutarla?”.
“Vorrei andarmene. Ho degli impegni fuori città”.
“Capisco. Posso fare qualcosa per convincerla altrimenti?”.
“No. E poi sono sicura che non fa bene all'immagine del vostro albergo ospitare una ragazza orfana, senza mani e con un'igiene personale a dir poco opinabile”.
“Certo. Se non le spiace controllerei se è a posto coi pagamenti”.
“Faccia pure”.
Non temo casini. Ho pagato trentacinquemila yen giornalieri per un mese quando ho preso la stanza, più quella salassata per la porta. Ottantasettemila e quattrocento yen per un pezzo di legno. Stravaffanculo.
“Sì, è tutto in regola. Bene, detto questo le auguro buona fortuna”.
“La ringrazio”.
Mi viene da vomitare. Non ho mai condotto una conversazione così fasulla e superficiale con una persona che, scommetto, avrebbe voluto porre il maggior numero possibile di metri fra me e se stessa.
Voglio uscire prima di subito da 'sto posto di merda.

Vago per Mitakihara senza meta. Tengo le braccia in tasca, sarebbe... scomodo se qualcuno vedesse ciò che non deve vedere.
Sento quel che sta succedendo. È doloroso. A questo ritmo dovrei poter tornare a impugnare lance e armi varie entro sera.
In certi momenti mi tocca stringere i denti e sopprimere un gemito. Non ricordavo fosse così brutto.
Passa qualche ora.
Nel mio peregrinare finisco vicino a un fiumiciattolo, poco più di un ruscello di acqua sporca. Forse scarichi di qualche industria, visto che sono finita in una zona periferica e non ci sono abitazioni nel raggio di chilometri.
Ormai ci siamo. Mi mancano solo un paio di dita. Le bende si sono srotolate da sole e le ho perse da qualche parte, disinteressandomene.
Mi siedo, mogia, assumendo la classicissima posizione “gambe contro il petto, braccia attorno ai polpacci e testa appoggiata sulle ginocchia”.
Vita del cazzo che ho.
Perché, a quattordici anni, sono sola al mondo, ridotta a essere una non-morta e senza mani? Che merda. Veramente una merda cubica.
Fino a qualche ora fa avevo un obiettivo: volevo farla pagare all'azzurrina. Ficcarle la lancia giù per la gola finché non le fosse uscita da in mezzo le gambe e assaporare il momento fino in fondo.
Ora... ora non m'interessa niente.
Il solo fatto che mi sia trovata a girare sperduta per una città che non conosco, senza nessuna faccia amica a cui potermi rivolgere... kami. Non mi invidio. Proprio per un cazzo.
“Kyōko”.
Sobbalzo. C'è qualcuno?
Giro lenta la testa verso chi ha parlato.
È quel matto di Akira. La faccia sconvolta e il fiato corto, la cravatta allentata e la giacca stropicciata.
Cazzo! Non deve vedermi!
Cerco di nascondere le mani.
“Non serve... ho visto...” ansima.
Ha... visto...
“Cosa succede, Kyōko? Perché... perché...”.
Frittata spiattellata per terra. E ora chi la sente la mamma dopo che ha spignattato tutto il giorno?
Senza muovere un solo muscolo, oltre a quelli della bocca, gli dico che non dovrebbe essere qui, adesso. Aveva un lavoro, l'ultima volta che ho controllato.
“Non ti preoccupare del mio lavoro. È tutto il giorno che ti cerco. Ero... preoccupato”.
“Preoccupato? Per me? Sicuro di star bene? E, soprattutto, sei ancora preoccupato? O solo inorridito, esattamente come avevo predetto?”.
“Tutte e due, cara la mia furbastra. Tutte e due”.
Prego?
“Kyōko, spiegami cos'è quello che ho visto...”.
“Non posso”.
“Non puoi? NON PUOI? Mi stai dicendo che non puoi spiegarmi perché stamattina eri priva delle mani e adesso ce le hai? Cosa sei, una stella marina per caso?”.
No, non ci voglio credere.
Sto piangendo.
Perché? Non ha senso. Non dovrei. Non capisco. Non so. Perché?
Non riesco a imbastire una sola scusa credibile. Non che ne esistano, in realtà. Stamattina non avevo le mani e ora le ho. Non c'è una balla che potrebbe bersi. Non c'è.
“Akira...” comincio. Mi verrà in mente qualcosa.
“Dimmi, Kyōko. Sono tutto orecchie”.
“Avvicinati”.
Ubbidisce da bravo cagnolino. Si siede vicino a me e, neanche fossimo in una stupida sit-com americana per adolescenti cretini, prende un sasso e lo lancia in quella sottospecie di corso d'acqua.
Provo ad asciugarmi le lacrime. Inutilmente.
“Devi parlarmi?” chiede sarcastico.
“Ah ah ah ah. Non sei divertente”.
“Non volevo esserlo”. Si volta verso di me, lo sguardo arrabbiato e ferito.
“Kyōko, cosa... come... perché?”.
“Te l'avevo detto che era una gran brutta storia”.
“Ha importanza ora?”.
“No, non credo”.
“Per favore, ora sento il bisogno di sapere”.
“No, sul serio. Non voglio coinvolgerti”.
“Devi coinvolgermi, ora. Non lasciarmi all'oscuro dopo quello che ho visto. Per favore”.
“E va bene. Visto che insisti...”.
Mi alzo, faccio tre passi indietro e mi trasformo.
Che bello poter impugnare nuovamente la mia cara Edea. Mi trasmette calore. E lo so che è assurdo sentire calore provenire da una fredda arma magica, ma è così.
Akira non muove neanche le palpebre. È paralizzato nel fissarmi con uno sguardo da demente. Non gliene posso fare una colpa, in effetti.
“Ma... ma... ma...”.
“Contento ora? Questa è la mia tenuta da combattimento”.
A 'sto punto non ha senso tacere. Gli racconto tutto: le Puellae Magi, le streghe, le Gemme, il fatto che siamo poco più che zombi. Con l'ultimo argomento il pianto peggiora inesorabilmente e crollo a terra, singhiozzando.
Lui si precipita su di me e mi abbraccia.
Da quando qualcuno non mi abbracciava? E con un simile... affetto? Boh. Sono emozioni che avevo dimenticato e, quindi, neanche mi ricordo come si chiamano.
“Kyōko... io... non... so... non posso... non...”.
Non riesco a dir nulla.
Non... non... non...
Cristo.
Ricambio l'abbraccio. Come sono felice di avere di nuovo le mani.
   
 
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