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Autore: Callie_Stephanides    08/10/2011    8 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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Callie Stephanides © 2011 (26 giugno 2011)
Disclaimer: i personaggi e l'intreccio sono copyright dell’autrice (Callie Stephanides - Fictional Dream).

F i n i s   d i e r u m

La lunga ballata che ora vi canto,
narra di un tempo ormai remoto,
di nobili eroi che furono il vanto
d’ogni contrada dell’Orbe noto.
 
Feroce battaglia,
infiamma l’Eumene
il dì che dalla Faglia
gran nemico viene:
 
di tenebra il cuore,
d’adamanto il braccio,
direi del suo valore,
ma pel terrore, taccio.
 
Cavalca la Morte
comanda al foco:
espugnare le porte?
Affare da poco.
 
Ogni favella langue
se spinti al suo cospetto
negli occhi bolle il sangue,
e sol buio nel petto.
 
Sguaina la lama,
sì feroce e bello,
poi forte la chiama:
“Avanti, donna uccello.”
 
E lei tanto amata,
sangue e neve pura,
guida l’armata
dall’alto delle mura.
 
Di antiche chimere
e perdute leggende,
di voraci fiere
e cupe tregende
 
la mia lingua canta
né s’affida al gregge
della guerra santa
che ha vinto la legge.
Anonimo di Cale

Fumava ancora, Trier, quando quegli accenti sfiorarono il mio orecchio. Poche note, un pizzicato monocorde, salivano a un cielo di nebbia. Al cielo della mia rabbia.
Alte pire consumavano i morti e la memoria d’altre perdite, di una fine che era stata, però, anche l’inizio della nostra storia.
Ci sono vite vergate nell’inchiostro dei saggi, come quella di mio padre Leonar. Altre, invece, il cui calamo chiede sangue – la mia. La sua.
Ne ero consapevole, ora. Lo accettavo.
Ai piedi del dongione, bocche spalancate e occhi pieni di meraviglia bevevano la cronaca della guerra che avevamo combattuto e vinto. Ascoltavano di me, Leya di Trier, e del nemico che avevo accolto tra le braccia per assicurare un futuro di carne a una razza morta. Celebravano, una strofa dopo l’altra, l’eroina, la guerriera, la Magistra.
Il cappuccio del mantello calato sul viso, mi rintanai nel portico di un’armeria, fantasma tra i tanti che animavano il borgo: auditrice incredula di una storia che non era più mia.
Dunque era questo il mio destino? Parole nel vento, trascinate da una tradizione che avrebbe travolto ogni memoria di noi per trasformarci in leggenda?
No, non l’avrei permesso. Non ora che il passato mi nuotava dentro, ansioso di aprire gli occhi sul futuro che sarebbe diventato.
Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago.

   
 
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