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Autore: Callie_Stephanides    09/10/2011    8 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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7.
La lupa bianca

Quando Vinus entrò nella mia vita, eravamo due adulti; la pergamena delle nostre esistenze era stata raschiata e riscritta tante volte che ci sentivamo antichi come il più usurato dei palinsesti.
A dividerci era il fronte che ci opponeva, ma a unirci era tutto il resto: un orgoglio smisurato, l’arroganza dei deboli.
Se è vero che ti provi nelle avversità e ti scopri negli estremi, amare Vinus fu incontrare la Leya autentica e nascosta, la compagna e l’amante: la donna, non più la Magistra.
Tra le sue braccia trovai una verginità diversa dal rancore che mi aveva isterilito, come il desiderio di scrivere sulla sua pelle una storia che parlasse solo di noi due.
Tra i cordoli slabbrati di antiche cicatrici e silenziose sconfitte, tuttavia, trovai anche l’impronta della donna che avrei sostituito.
 
“Non sei stata la prima, ma è l’ultima quella che vale.”
 
Sono ancora le parole di Vinus, l’espressione della sua saggezza dolente e profonda, poiché ora so che non conta chi il Destino pone sulla tua strada, ma chi quel Destino sa mutare.
Quando i piatti delle nostre bilance, dopo un ultimo sussulto, trovarono un perfetto equilibrio, infatti, il nodo dell’odio si fece più stretto e mutò nome. Perché tanto potesse capitare, però, Vinus non doveva morire quel giorno, sotto le stelle che illuminavano la piana di Mizar.
A salvarlo, la donna cui l’avrei sottratto.

*

La storia di Haga d’Avenio è una pagina così triste che raccontarla mi pare quasi un atto di rapina; poiché, tuttavia, non siamo che la somma di storie rubate, briciole di lei vivono ancora nella voce di chi racconta di quei giorni, dandole sostanza.
 
Avenio era un villaggio dei territori settentrionali, al confine con le Midlands. Dopo l’espansione del principato di Venusya, pochi avevano accettato di restarvi, poiché i dracomanni erano uno spettro incombente.
La terra, abbandonata, si era isterilita poco a poco, offrendo appena di che vivere alle famiglie superstiti.
Al contrario di Trier o di Thula, che erano città molto ricche, un eleutheride sarebbe rimasto offeso dalla povertà di quei luoghi.
Le abitazioni avevano solo di rado fondamenta in pietra e travi lignee, perché le poche piastre a disposizione del capofamiglia erano di norma investite nell’acquisto di sementi – o bestiame malaticcio e macilento, che non campava un anno. Poiché per sopravvivere bastava dormire all’asciutto, si costruivano capanne di argilla cotta e paglia, composte di una sola stanza aperta all’esterno.
Era un’esistenza misera, di cui io, figlia privilegiata di un Ygeo, non sapevo né volevo conoscere nulla; senz’altro, mentre mi addormentavo al sicuro nel tepore della mia bella casa, non pensavo che una mia coetanea stentasse persino a immaginare l’esistenza di un simile lusso.
 
Haga vide la luce nel mio stesso anno, da una famiglia di modesti contadini. Come se il fatto d’essere nata femmina – la terza, per giunta – non avesse rappresentato di per sé una disgrazia, Haga era albina: aveva pelle trasparente e stopposi capelli bianchi; gli occhi, di un grigio bluastro, parevano morti.
La madre scoppiò a piangere come la vide.
Il padre propose di sacrificarla a Dendre, per domandarne il perdono, perché la nascita di un simile mostro era un segno eloquente dell’ira della dea.
Il sonno della Ragione sostituiva la Superstizione alla legge morale, ma l’illuminato Collegio di Trier non era onnipotente come avrebbe voluto. C’erano luoghi in cui bestie e uomini erano tutt’uno: l’importante era che la grandezza del nome di Trier restasse incontaminata.
Haga, tuttavia, non morì quell’anno, né nei tredici che seguirono: il coraggio che mancò ai suoi genitori davanti a un coltello, fu quello con cui si sforzò di sopravvivere. Nessuno, però, avrebbe mai detto che quella vita fosse bella o valesse il disturbo di un giorno ancora: gli adulti la evitavano e i coetanei la prendevano a sassate. Se osava ribellarsi, la chiamavano ‘stria’ e la maledivano.
Crescere, d’altra parte, non le fu d’aiuto: scheletrica e sbiadita, di bello aveva solo quegli occhi profondi come pozzi.
Haga era un’eleutheride, ma, al pari della nostra Luthien, imparò presto che un’etichetta è un’anfora vuota, se non hai di che riempirla. Non era una di noi, perché noi – i prediletti di Dendre – l’avevamo rifiutata.
Come disse Vinus, umiliato e in ceppi davanti al volto di pietra della donna uccello, ci affidavamo all’impalpabile nebbia delle illusioni per non misurarci con l’abisso della realtà.
Il mondo era una faglia crudele, che si nutriva di speranza e digeriva sogni: Haga lo scoprì che era appena una bambina e smise di considerare il futuro di Eleutheria qualcosa di cui dovesse occuparsi.
 
Conduceva un’esistenza ai margini, da cane inselvatichito. Viveva tra boschi e pietraie, più fiera che donna: i capelli bianchi erano pieni di foglie e ramoscelli; le unghie, corte e spezzate, incrostate di nero. Vinus entrò nell’oscurità silenziosa della sua vita come un tiepido raggio di sole: il fatto che a circonfonderlo di un’aura divina fosse il rogo d’Avenio, d’altra parte, non avrebbe mai potuto toccarla al punto da modificarne le intime convinzioni.
Il giorno in cui un giovanissimo dracomanno mise a ferro e fuoco il suo villaggio, Haga vagava come un candido spettro nella foresta ai limiti del centro abitato. Aveva preso l’abitudine di dormirvi dall’estate e i primi freddi non erano valsi a scoraggiarla, poiché i selvatici abitanti della boscaglia parevano tollerarla più di quanto non facessero i suoi simili; viveva una quotidianità fatta di appetiti modesti e sensi vigili: quando la Morte scese dal Nord, dunque, fu la prima a rendersene conto.
E sorrise.
 
Vinus doveva combatterci, poiché quello era il suo ruolo nella Storia e, soprattutto, perché gli ordini di Koiros non erano negoziabili. Haga, invece, scelse di farlo, nutrita dal rancore della diversità e dell’emarginazione.
 
“Perché dovrei preoccuparmi per loro? Che crepino tutti.”
 
Haga non era bella, non era misericordiosa e non era buona: se cercate un riscatto per lei, il segno di una morale pietosa o di un’emenda, non ne troverete, perché la triste verità della Vita è che la Giustizia non esiste. La sua è una libra capricciosa, che grazia qualcuno e condanna qualcun altro: Haga è stata solo una delle sue infinite vittime.
 
La fine del mondo sapeva di paglia e carne bruciata; contro un orizzonte dai toni ora torbidi e rugginosi, Vinus era un demone bianco: agli occhi di una bambina che era stata condannata da quello stesso colore, la creatura più affascinante dell’Eumene.
Circospetta, quasi una lupa che saggi i confini del pascolo, Haga andò incontro al macellaio di Koiros con la gioia esaltata della sposa, poiché il braccio di Vinus era la lama della sua infelicità, lo strumento di una vendetta sognata mille volte.
 
Non abbiamo colori, noi due: rubiamoli tutti.
 
Sorrideva, Haga, e scivolava tra corpi riversi e fuoco e polvere, finché il principe di Lephtys non si accorse di lei.
“Grazie,” disse senza tremare, e gli si inginocchiò davanti. “Puoi uccidermi, se vuoi, o farmi tua. Io voglio servirti.”
Le dita strette all’elsa della spada, Vinus la guardò: macilenta come un’allegoria della Fame eppure libera, come libero non era lui.
“E tu chi saresti?”
“Chiunque tu voglia,” replicò Haga, “mio signore.”
 
Fu quello, forse, a salvarle la vita, perché Vinus non era innocente, né pietoso. Vinus non vedeva una bambina disperata, ma un ostacolo al suo piano di devastazione sistematica. Quel ‘mio signore’, però, soffiato da labbra infantili, gli ricordò chi era e quel che rappresentava: un principe senza corona restava comunque sangue di re.
 
“Il vero potere risiede nella generosità, prima ancora che nel terrore.” Erano le parole di Zauror. “Uccidi solo quando ti è indispensabile, ma grazia quanto più puoi, perché l’umiliazione ferisce come nemmeno la spada e crea vincoli indissolubili.”
 
Non aveva bisogno di lei, ma le tese la mano: Haga sarebbe stata sua, come non gli apparteneva più nulla.

*

Le trecce sciolte in un mantello dal candore irreale, labbra vermiglie e quegli occhi torbidi, sospesi tra innocenza e crudeltà, la strega d’Avenio divenne una delle puttane al seguito dell’armata dei liocorni neri.
Non tremare mai, offri con generosità e godi con devozione: assimilati i tre comandamenti del postribolo, scoprì che l’amore rubato di una notte le piaceva quasi più delle lezioni di scherma che le impartiva Vinus.
Tra le cosce e tra le dita, stringeva il potere che aveva sempre desiderato: quello della vita.
 
“È il giorno della lupa bianca,” ironizzavano i dracomanni, quando Vinus, di ritorno da un pattugliamento o da un’incursione, si concedeva il lusso di un bagno e svaniva nella tenda delle puttane. Quale fosse il cliente della notte, Haga lo congedava, per darsi al sicario feroce che le aveva strappato il cuore senza doverle aprire il petto.
Vinus era un amante freddo, violento ed esigente; mordeva e lacerava a letto come usava sul campo di battaglia. Oltre il sudario dei capelli d’argento, gli occhi da predatore brillavano spietati.
 
“Non puoi baciarlo, né dargli le spalle; obbedisci ai suoi ordini, anticipane le voglie e, soprattutto, non innamorarti di lui. È più drago che uomo, più bestia che cavaliere.”
 
Le parole della decana del postribolo le scivolavano addosso come pioggia d’estate; evaporavano prima di lasciare un segno, perché quel che gridava il suo cuore era mille volte più forte.
 
Vinus di Venusya è il mio dio: vivrò, ucciderò, morirò per lui.
 
A differenza della donna uccello, che prometteva quasi solo per il gusto di tradire, la strega d’Avenio fu fedele a ogni proposito: visse per il Drago Nero, massacrò in sua vece e morì per un demonio che non le aveva mai concesso un bacio.

*

Quando Vinus cadde nella polvere, nessuno osò soccorrerlo.
Koiros aveva dato le spalle all’armata, ma i pochi dracomanni superstiti sapevano che tanto non sarebbe bastato a eluderne l’attenzione rapace. Vinus aveva sbagliato, dunque doveva pagare. Il prezzo della disobbedienza era nero come le notti dell’Icengard: non c’erano toni che lasciassero pensare alla pietà o al perdono, perché lo spettro del terrore li aveva aboliti.
La lupa, però, di colori non ne possedeva dalla nascita: per Haga d’Avenio, anche il cuore era bianco.
S’inginocchiò accanto al corpo esanime del principe di Lephtys, sostenendone il capo. Il sangue di Vinus le lordò le mani, la tunica, le ginocchia, ma la puttana non se ne curò.
“Dall’agonia del mio signore sbocciano rose,” sussurrò e sfidò con lo sguardo la schiera immobile dei dracomanni. Non disse nulla, eppure l’eco della sua condanna deflagrò.
 
Non siete draghi ma conigli. Un drago non ha paura di morire.
 
“Portiamolo nella sua tenda,” disse Eos, il più anziano della scorta.
Haga sorrise, scoprendo i denti appuntiti. “Il Drago Nero non muore mai.”

*

A Trier, frattanto, Nephyl sceglieva di dividere con me le sue memorie di soldato.
Tra le mie mani, un boccale di vino speziato. Davanti ai miei occhi, finalmente, i signori del Primo Evo.
 
“Ho prestato servizio nelle Midlands, come molti della mia generazione,” cominciò il Generale. “Al contrario di quel che è accaduto a troppi, sono quasi anziano.”
Spiegai le labbra in un sorriso istintivo. “La guerra invecchia tutti.”
 
C’è chi perde i capelli, chi il coraggio, chi i colori. E ci sono quelli cui si secca il cuore.
 
“Forse è vero,” concesse Nephyl, “ma non c’è morte peggiore dell’attesa della morte stessa.”
Sì, sapevo anche quello.
“Il fronte correva da Divio a Cale: una trincea di pietra e colline sterili. Per chi, come me, era nato sul Golfo di Loch, un inferno.”
“Era in quell’area che si trovava il Principato di Venusya?”
“No. Le Midlands erano sotto il controllo dei dracomanni, ma il cuore del principato si trovava a occidente, a ridosso della Grande Faglia. Pochi eleutheridi si erano spinti abbastanza a nord da vedere Lephtys. Delle voci che circolavano, nessuna incoraggiava all’esplorazione.”
“Avete incontrato i dracomanni, dunque.”
Gli occhi di Nephyl si persero nel boccale, quasi a trovare nei torbidi cerchi del vino le parole che cercava. “Non era difficile, in quei giorni, poiché erano ovunque. Ci provocavano, ma non fino al punto da dover imbracciare le armi. Se fosse accaduto, d’altra parte, è molto probabile che avrebbero vinto.”
“Eleutheria è più antica dei draghi.”
Il Generale sorrise: la smorfia obliqua e compiaciuta di chi riconosce un pari.
“Avete ragione: voi siete nata per comandare gli eserciti.”
Abbassai lo sguardo.
Nephyl riprese.
“Ho conosciuto il padre di Rael: lo chiamavano ‘il Mietitore’; dicevano che poteva decollare un avversario a mani nude.”
“Era la verità?”
“Temo di sì. I dracomanni non si preoccupavano della fama quanto chi doveva combatterli. Era un colosso… Proprio come vostro fratello.”
Avrei voluto sorridere, ma l’ultima immagine che avevo di Rael era di quelle che paralizzavano le labbra.
“Rispetto a Zauror, tuttavia, poca cosa.”
“Zauror era…”
“Il padre di Vinus.”
Serrai la mascella e deglutii con difficoltà.
“Quando nacque il principe, i dracomanni fecero festa per un mese intero. Ero di stanza a Kimali e li vedevo, oltre la cinta delle mura, accendere fuochi e intonare canti di guerra.”
“Era l’erede, no?”
Nephyl strinse la presa attorno al boccale. “Non solo: era bianco come Amon, il Primo Drago.”
Lo fissai senza comprendere.
“Conoscete la Canzone del Norn, Magistra?”
Scossi il capo.
“Non mi sorprende: è una ballata delle Midlands, che dicono risalga ai giorni dei draghi. Nessuno sa chi l’ha composta, ma la cantavano gli ophelidi.”
“E cosa dice?”
“È passato troppo tempo dall’ultima volta in cui l’ho ascoltata, ma ricordo le strofe conclusive.”
Fremevo d’impazienza. Non cercavo miti, ma quel che muove la conoscenza non è sempre razionale.
Non lo era nemmeno la vendetta cieca cui mi ero abbandonata sino a quel momento.
 
Oltre i borghi
delle umane genti,
oltre i gorghi
e le sorgenti
 
nel fulcro duro
di un alto loco
dorme il re oscuro
del sacro foco.
 
Non ha colore
chi teme e attende,
perché al suo cuore
altro drago tende.
 
Sorrisi – una smorfia scettica. “La leggenda del cuore del drago… La conosco, ma non credo che valga la pena di farvi affidamento.”
Nephyl non mi contraddisse. “È quel che mi sono detto. I dracomanni, del resto, sono stati i primi a essere divorati dalla Storia.”
Svuotai il boccale in un sorso. “Noi no. Noi resisteremo.”
Il Generale bevve l’ultimo goccio alla mia salute, prima di rialzarsi. “Allora prepariamoci all’assedio, perché torneranno.”
Non vedevo l’ora.
Ero terrorizzata, sì, eppure era là, sulla cima delle torri, che la vita riacquistava colore, perché quell’infinito istante sospeso tra Futuro e Morte era il momento per cui ero nata.

*

Un paio di giorni più tardi, mentre Vinus, assistito da Haga, agonizzava ancora nella sua tenda, mio fratello Rael aprì gli occhi e chiese di Leonar.
Melian, che per prima accolse quella curiosa richiesta, non gli fece domande: il suo cuore sapeva già tutto.
È alle sorgenti della Storia che intravedi il futuro, perché è lì – e lì solo – che guarda la memoria.

   
 
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