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Autore: xlairef    20/10/2011    2 recensioni
Cosa succede alla notte nell’Isola che non C’è? Quali sono i sogni segreti dei suoi abitanti?
Seconda classificata al contest Rivivi la tua favola indetto da Nihila
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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L’Isola che Non C’è era immersa nel sonno: la notte non aveva ancora lasciato spazio all’aurora, e da ogni dove, dall’accampamento indiano alla baia dei pirati, provenivano respiri profondi o un russare pesante.
Perfino Trilli, di solito dedita a scorribande notturne su e giù per l’Isola, dormiva della grossa, con i piedini sopra al cuscino, immersa nel mondo dei sogni, in cui lei era la sola e unica protagonista; tutt’attorno, i Bimbi Sperduti ronfavano nelle amache appese agli incavi del grande albero cavo, le testoline piene di pensieri di audaci imprese e leggendari festini.
Gianni e Michele, esausti dopo una giornata di combattimenti contro gli Indiani, erano crollati sul pavimento ore prima e sembravano voler trascorrere il resto della notte e anche parte del giorno successivo distesi l’uno contro l’altro, troppo esausti per potersi svegliare.
Un piede che fuoriusciva da un’amaca più grande delle altre indicava che anche il gran capo, Peter Pan, era caduto tra le braccia di Morfeo: sotto di lui, sul terreno, erano caduti il flauto di Pan e il berretto verde, poiché il sonno di Peter era una replica delle sue giornate, in altre parole chiassoso e avventuroso.
Wendy dormiva nel suo lettino, poco distante dalla camerata comune, uno dei privilegi della sua condizione di “Mamma” adottiva del gruppo. I respiri lenti e profondi e il lieve sorriso sulla sua bocca facevano intuire che i suoi sogni erano particolarmente piacevoli, quella notte.
 
Nella stiva della Jolly Roger i grugniti e il russare dei marinai (uniti ad un olezzo non certo di rose…) non impedivano a Spugna di dormire il sonno dei giusti: anche la giornata precedente era stata particolarmente faticosa, poiché l’arrivo dei nuovi bambini di Peter aveva letteralmente rischiato di far morire il Capitano per un attacco di bile.
Toccava sempre a Spugna l’arduo compito di calmare i suoi bollenti spiriti (compito che nessuno della ciurma gli invidiava), con latte caldo e miele, altrimenti già da molto tempo la nave non avrebbe avuto un capitano.  Nei sogni di Spugna tuttavia non vi era posto per rancori e vendette: anche quella notte erano incentrati sul modo migliore per non far perdere le staffe al Capitano, e sul momento in cui, finalmente, quest’ultimo gli avrebbe rivolto parole di lode per il suo operato.
Denteduro singhiozzò e si rigirò angosciato nell’amaca: nel sogno non riusciva a trovare la strada verso casa, e temeva di non poter riveder più Mammina.
Nel suo letto a baldacchino, avvolto in lenzuola di pizzo spagnolo (ricordo di un vecchio arrembaggio ai Caraibi), Capitan Uncino parlava nel sonno.
“Maledetto Peter Pan…Sgrumph…. La prossima volta…” E scalciò le lenzuola in segno di sfida. “Non osare…Il filo della mia spada…Dov’è la mia spada?” Agitò il braccio monco, privo di uncino. “Non pensare di cavartela così! No!” Sobbalzò d’un tratto. “Il coccodrillo no! Spugna! Il pennone! Spiegate le vele!”
 
Sul promontorio indiano anche le vedette avevano chiuso gli occhi.
Di lì a poco le tende di pelle si sarebbero aperte per far uscire le mogli coscienziose, pronte a cominciare una nuova e laboriosa giornata, e i mariti le avrebbero seguite, per poi occuparsi della caccia giornaliera.
La tenda del Capo si ergeva bianca e alta sopra a tutte le altre: all’interno il Grande Capo russava come un mantice, e ad ogni respiro una delle piume del suo copricapo, che si ostinava a non voler mai togliere, veniva aspirata dentro la bocca aperta, per poi venire espirata un attimo dopo.
Giglio Tigrato dormiva sdraiata su candide pelli di daino decorate con perline d’osso. Rannicchiata contro il bordo della tenda, ogni tanto il suo viso assumeva una tinta più scura del solito: i suoi pensieri nel sonno non erano adatti alla figlia di un capo. Invece di sognare di asce da guerra e di calumet della pace, i suoi sogni riguardavano sempre e comunque una sola persona, lui. Era una fortuna che i pellirosse non potessero arrossire molto, altrimenti, quella notte come tante altre, se suo padre si fosse svegliato all’improvviso, avrebbe visto la faccia della figlia andare a fuoco come in un incendio di fine estate.
 
La Laguna delle Sirene era un posto gradevole dove passare la notte: al calar delle tenebre il cicaleccio senza fine delle vanitose sirenette si fermava; l’acqua, non più agitata dai fruscii delle code scintillanti, scorreva in pigre e calme onde, permettendo ai pesci di fermarsi a riposare.
In fondo ai flutti le Sirene dormivano nelle loro conchiglie giganti, sognando perle,  gare di nuoto e un eventuale spettatore che a volte fermava il suo volo per assistere alle sfide.
Vicino alla riva, la colonia dei coccodrilli sonnecchiava tranquilla, le madri vicino ai loro piccoli squamosi, i padri assopiti pesantemente, ognuno vicino all’altro.
Tutti tranne uno: un grosso esemplare maschio adulto di Coccodrillus Ferocius riposava poco più in là, da solo: le bollicine intermittenti sul pelo dell’acqua segnavano il tempo del suo russare, ma non era quello il solo rumore che aveva spinto gli altri a isolarlo: nel silenzio, avvicinandosi pian piano, si poteva udire un fastidioso ticchettio provenire dallo stomaco dell’animale.
Il Coccodrillo non sognava spesso: quelle rare volte che ciò accadeva i suoi sogni erano monotematici: cibo, cibo, e ancora cibo.
In particolare un certo tipo di cibo: il rettile aveva ancora sulla lingua il sapore delizioso di quella carne tenera (certo, inframmezzata da troppi ossicini, ma non si può avere tutto), saporita, celestiale…In quei casi non vedeva l’ora di svegliarsi per andare a caccia del pezzo più grosso di quella carne, nella Baia dei Pirati.
Quella notte però il suo sogno era diverso: nel sonno una piccola luce splendente gli saltellava davanti al muso, ridendo con il suono di mille campanellini d’argento. La luce aveva un viso sbarazzino e un sorriso incantevole sul viso. Ad un tratto le note di un valzer irruppero sulla scena, e la fatina iniziò a danzare nell’aria. Il Coccodrillo la guardò con tristezza: con il suo corpo grosso e sgraziato non avrebbe mai potuto farle da cavaliere in quella danza così graziosa…
Tutt’ad un tratto si sentì sollevare: le sue squame erano cosparse di una polvere dorata e scintillante proveniente dalle mani minuscole della fatina, che adesso sorrideva proprio a lui. Il Coccodrillo si avvicinò fluttuando, e in quel momento non si sentì più né grosso né sgraziato…
Proprio allora dal profondo delle sue viscere scattò la sveglia.
I coccodrilli si svegliarono, i padri per dedicarsi alle occupazioni dei padri, le madri per badare alle faccende delle madri, i coccodrillini, mugugnando, per recarsi alla scuola dei coccodrilli, mentre attorno a loro l’alba faceva capolino dall’altro lato dell’Isola…
 
“Agenore! Agenore!” La voce dal timbro caldo e dolce lo riportò al mondo reale. “Tesoro, svegliati, siamo quasi arrivati…”
“Eh? Oh! Oh sì, certo!” Agenore si raddrizzò nella carrozza, tornando in sé dopo il breve pisolino. Per un istante, mentre apriva gli occhi, gli parve ancora di avere davanti agli occhi la luce splendente con cui aveva ballato poco prima…Ma no, era il volto di sua moglie, che lo guardava con aria interrogativa.
“Oh, Mary, ho fatto un sogno davvero bizzarro…”
“Un incubo caro?”
“No, no…” Agenore stirò la bocca in un mezzo sorriso, guardando la moglie. In effetti, a guardarla bene, una certa somiglianza c’era… “Anzi, piuttosto piacevole, a dire il vero…” La carrozza a nolo si fermò, e i due coniugi scesero nel centro trafficato di Londra, davanti ad un imponente edificio in cui entravano frotte di ospiti agghindati a festa.
“Sono felice per te, tesoro: spero che anche i nostri ragazzi abbiano sogni simili, questa notte.”
Agenore le diede il braccio, cerimoniosamente, e insieme si avviarono oltre il portone, verso le scale.
  

  
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