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Autore: Halley Silver Comet    29/10/2011    5 recensioni
Si addentrò all’interno della stanza avanzando lentamente, come se sentisse che, se si fosse mosso con maggiore rapidità, quella ragazza sarebbe scomparsa. L’interesse che lo muoveva verso di lei, d’altra parte, era del tutto nuovo e sconosciuto, così diverso da quello che solitamente lo animava quando incontrava una bella fanciulla: questa volta, infatti, avrebbe voluto unicamente sapere qualcosa di più sul suo conto, a cominciare dal nome.
La giovane, però, dal canto suo, non si era ancora resa conto di nulla, tanto era concentrata a trafficare con matite, squadre e gomme cambiando continuamente utensile, tracciando, misurando, cancellando o semplicemente valutando se la punta di grafite fosse ben appuntita, mentre Gianni, ormai solo a qualche passo di distanza, si era accorto di aver smesso di respirare e di avere la salivazione praticamente ridotta a zero, anche se la cosa più sorprendente per lui fu avvertire che la nausea si stava attenuando.
Giunto accanto al tavolino, buttò uno sguardo sul foglio che teneva in mano la ragazza e rimase sorpreso da ciò che vi trovò raffigurato, perché era l’ultima cosa alla quale avrebbe pensato.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gianni, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Stella del Sud - Atto IV





Parte Seconda - Atto Quarto



e par che de la sua labbia si mova
uno spirto soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.


Dante Alighieri, Vita Nova, Cap. XXVI, vv.12-14


Q
uel settembre si rivelò il più caldo degli ultimi anni e tutti ad Alessandria non facevano altro che lamentarsi dell’afa opprimente che assediava la città da giorni e giorni, sostenendo di non ricordare di aver mai vissuto niente di simile. Fra di loro c’era anche Aida, la quale si era appena trascinata nella hall dopo aver discusso con lo scortese pescatore che aveva portato la fornitura di crostacei per il pranzo, come accadeva ogni volta che aveva a che fare con lui, visto che l’uomo si ostinava a trattarla come se non capisse nulla. Forse, non era un caso che Rami le chiedeva sempre di interagire con quel tale al posto suo.
Stremata, approfittando dell’assenza di clienti nei paraggi, la ragazza decise di prendersi una piccola pausa e si lasciò cadere su uno dei divani dell’ingresso, sbuffando: tra il caldo, il ritmo serrato di lavoro e la mole di studio per l’ultimo, imminente esame non riusciva a ritagliarsi nemmeno un minuto per sé; per giunta, negli ultimi tempi, anche Giancarlo aveva avuto molto da fare e si erano sentiti solo per pochi minuti al giorno. 
Anche se l’aveva visto recentemente di persona, quando aveva deciso di passare con lei la prima settimana di agosto, in occasione del suo ventiquattresimo compleanno, Aida cominciava a sentire che quel modo di incontrarsi così saltuario non le bastava più. Infatti, dopo essere uscita ogni sera con lui per sette giorni consecutivi - Rami aveva dato loro il permesso, purché portassero con loro Samir -, la ragazza aveva capito ancor di più quanto fosse frustrante non poter stare con lui ogni volta che ne aveva voglia. In particolare un pomeriggio, quando aveva fatto assaggiare al giovane i baklava1 e questi le aveva promesso che avrebbe ricambiato la gentilezza portandola in una delle migliori gelaterie di Roma, anche se suo fratello non si era deciso ancora a darle il permesso di partire, sostenendo che in quel periodo non poteva abbandonare il lavoro.
Cercando di scacciare quei pensieri, la giovane sospirò, fissando il soffitto della hall con occhi tristi: aveva la netta impressione che Rami stesse temporeggiando con banali scuse, per non rivelare che, in realtà, non aveva la benché minima intenzione di lasciarla partire, anche se le sfuggiva il motivo. Forse non era stato troppo contento dell’invito di Giancarlo a trascorrere qualche giorno a casa sua, ma lei non capiva il perché, visto che, dopo aver conosciuto i genitori di lui, suo fratello si era parecchio tranquillizzato.
Tuttavia, con o senza quel permesso, la fanciulla sarebbe dovuta andare comunque, non solo perché le mancava il giovane, ma, soprattutto, perché doveva ancora rispondere alla sua proposta, visto che, da quando lui le aveva chiesto di sposarlo, nessuno dei due aveva più toccato l’argomento.
In realtà, Aida sapeva bene di provare molto di più che semplice simpatia nei confronti di Giancarlo. Altrimenti, come poteva spiegare i battiti del suo cuore, che acceleravano solo a sentire la sua voce, la tristezza crescente ogni volta che si separavano o il desiderio di perdersi nel suo abbraccio caldo e sicuro?
Eppure, in quella vicenda c’erano più dubbi di quelli che avrebbero dovuto esserci: avrebbe mai potuto vivere in serenità con l’uomo che, ormai, sapeva di amare? O il suo destino sarebbe stato quello di essere infelice per tutta la vita? Tanti, troppi vincoli ostacolavano la sua relazione con Giancarlo e,
nel riportarli alla mente, la giovane si sentì come affogare nel pantano dei suoi timori.
Per ironia della sorte, ad impedire che quella palude di negatività la inghiottisse mentre era seduta sul divano, intervenne proprio la voce di suo fratello che, dall’ufficio, le ordinò di portargli un tè rosso, poiché lui era impegnato e non poteva spostarsi.

«L’orso bruno ti comanda a bacchetta, eh?» esordì Jamila non appena la vide, mentre canticchiava rimettendo a posto alcune stoviglie.
«Già, settembre è sempre il periodo peggiore: lui è sotto stress e lo fa scontare a noi!» si lamentò la fanciulla, afferrando un filtro per infusi in metallo e un barattolo di latta.
«Be’, per fortuna, almeno tu hai qualcun altro che ti tratta come se fossi una principessa!» insinuò l’altra, continuando a sistemare tazze e bicchieri.
A quel commento, Aida finì di scaldare l’acqua con il getto di vapore e sospirò, triste: «Peccato, però, che io non lo sia affatto».
Sorpresa da quella considerazione, l’amica la fissò per qualche istante, per poi avvicinarsi e domandarle, preoccupata: «Dada, che c’è?» 
«Niente...» mormorò la fanciulla finendo di preparare la bevanda, cercando in tutti i modi di arginare l’oppressione dettata dalla consapevolezza che la differenza di classe sociale tra lei e Giancarlo fosse solo la punta dell’iceberg di tutte le sue angosce.
«Non mi dire che hai litigato con il tuo bel biondino!» esclamò Jamila, sconcertata, come se avesse intuito che il giovane era nella mente dell’altra.
Nel sentirlo menzionare, Aida sobbalzò e la guardò, sbattendo le palpebre. Poi, come uscita da una sorta di trance, si affrettò a rispondere: «Oh, no, no! È solo che... dovrei rispondere alla sua proposta e non so ancora che cosa dirgli».
L’altra, allora, dopo aver lanciato un’occhiata intorno a sé, approfittò del fatto che fossero sole per avvicinarsi ancor di più alla ragazza.
«Se ti piace, non credo che ci sia tanto da dire» fece seria, a voce bassissima. «Accetta e basta!»
«Non è così facile!» replicò quella, stizzita. «Non è sufficiente che mi piaccia, ci sono tante altre cose da mettere in conto!»
«Dada, secondo me, tu ti fai troppi problemi...»
A quel punto, Aida afferrò maldestramente un barattolo e buttò con rabbia due cucchiaini del suo contenuto nel bicchiere di Rami, per poi voltarsi verso l’amica e lanciarle uno sguardo minaccioso. Come poteva sapere quanto stava male per quella situazione?
«E tu, Jamila, non te ne fai affatto!» replicò, furiosa, prima di afferrare il bicchiere e darle le spalle, allontanandosi in tutta fretta.

«Ecco il tuo tè, Rami!» sibilò Aida, sbattendogli il bicchiere ad un soffio dalla sua mano e versando più della metà del contenuto sul ripiano estraibile della scrivania,vicino alla la tastiera e al mouse.
«Si può sapere che ti prende?!» le chiese il fratello, fissandola sbigottito, ritraendo troppo tardi il braccio.
La fanciulla, però, ignorò la domanda, limitandosi a fissarsi le unghie con fare distaccato; alla fine, dopo qualche secondo, davanti ad un simile atteggiamento, il giovane si accigliò e scrollò le spalle. Poi, accostò il suo infuso di roobois2 alle labbra per bere quel poco che era rimasto.
«Puah! Ma... è disgustoso!» esclamò subito dopo, tirando fuori la lingua.
Aida alzò di scatto la testa verso di lui, corrugando la fronte e aprendo appena la bocca.
«Cosa… cosa c’è?» gli chiese, confusa.
L’altro si alzò subito dalla sedia e le si piantò davanti, trafiggendola con un’occhiata minacciosa: «Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?!
Vuoi avvelenarmi, per caso? » la rimproverò, adirato.
Sempre più stupita, la fanciulla spostò lo sguardo sul bicchiere ancora fumante e, timidamante, iniziò: «Non capisco, Rami, io ci ho messo la solita quantità di zucchero…»
«Zucchero?!» la interruppe, però, l’altro, tra lo sconcertato ed il furibondo. «Aida, questo tè è salato come l’acqua del Mar Morto!»
Improvvisamente, nella mente di lei fu tutto più chiaro: come un lampo, le riaffiorò alla mente la scena di poco prima: aveva preso il barattolo blu anziché quello rosso.
«Oh, no, temo di aver confuso lo zucchero con il sale!» pigolò, abbassando lo sguardo.
Tuttavia, dopo la sua confessione, l’espressione di Rami si indurì ancora di più.
«Brava, i miei complimenti!» sbraitò. «Non puoi permetterti queste distrazioni! Hai idea di quali sarebbero state le conseguenze, se fosse successo con un ospite?»
«Rami, scusami, io…»
Ma il giovane non volle sentire ragioni: tornò alla scrivania, afferrò il bicchiere e, dopo aver raggiunto la finestra, gettò l’infuso all’esterno con un gesto rabbioso.
«Scusami un corno! Aida, vedi di scendere dalle nuvole una volta per tutte, altrimenti provvederò io stesso!» concluse, facendo tremare anche il pavimento.
Non sapendo cosa aggiungere, sentendosi mortificata ed incompresa, la sorella abbassò il capo e, un attimo dopo, scappò via, diretta nella sua stanza.
Proprio in quel momento, con il fiatone, sopraggiunse Jamila.
«Non… non dirmi che… l’hai... già bevuto» annaspò.
«Se intendi quella porcheria che mi ha rifilato quella sciocca, purtroppo sì!» replicò il concierge, ancora visibilmente schifato, rimettendosi seduto.
«E… dov’è Aida?» continuò l’altra, guardandosi intorno come se sperasse di scorgere l’amica in qualche angolo o dietro il vaso delle orchidee bianche.
«Se ne è andata dopo che l’ho rimproverata» sbottò il ragazzo. «Deve smettere di vivere nel suo mondo immaginario, o…»
«Che cosa hai fatto?!» strillò la ragazza, impedendogli di continuare. «Ti rendi conto di quanto sei insensibile? Tua sorella si trova in una fase della sua vita molto delicata!»
«Sì, lo so che settembre è un periodaccio» ribatté, invece, lui, fingendo di capire ciò che gli faceva comodo.
Tuttavia, lo sguardo iracondo di Jamila gli fece presto capire che non aveva apprezzato il suo tentativo di lasciar cadere l’episodio nel dimenticatoio, perché, dopo essersi messa davanti al fidanzato, quella sbatté entrambe le mani sulla scrivania, facendolo sobbalzare.
«Tua sorella deve studiare, deve sostenere ancora un esame e tu la sovraccarichi di lavoro!» lo redarguì, intimidatoria. «Deve badare a Samir e deve provvedere a tutte le richieste!»
«Ma…» tentò di protestare il ragazzo, prima di essere prontamente zittito da un nuovo attacco.
«Niente “ma”! Sai bene che deve prendere una decisione importante da cui dipenderà la sua felicità! Perciò, ora io e te faremo una bella chiacchierata su quello che le dirai in allegato alle tue scuse, chiaro? E... a proposito, non osare dire neanche mezza parola contro Giancarlo, che ha dimostrato di tenere davvero a lei, impiccandosi per vederla a malapena e rispettando le tue medioevali condizioni! Rami, ricordati che non sei non sei suo padre: se non consentirai a quella povera ragazza di farsi una vita, giuro che te la farò pagare!»
Il giovane subì passivamente tutta quella serie di insulti con gli occhi spalancati per la sorpresa, incapace di ribattere. Di solito, infatti, era lui a dispensare lavate di testa e si accorse che esserene per la prima volta il destinatario non era certo molto piacevole.
«Ehm, credo che ne potremmo parlare…» iniziò, incerto, con lo sguardo fisso sul volto di Jamila, ridotto ad una maschera di rabbia.
Dal canto suo, quella non perse tempo nel replicare: «Se ci tieni alla tua incolumità, ti consiglio di rettificare quel condizionale, sai?» 

Aida era seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata contro il muro e le gambe raccolte contro il petto, lasciandosi sfuggire ogni tanto un sospiro sconsolato, mentre deplorava l’eccessiva reazione di Rami per le sue distrazioni. Purtroppo, però, doveva ammettere che in quel periodo non era molto presente: aveva tanti pensieri che le turbinavano nella mente e cominciava a sentirsi piuttosto stanca, incapace di fronteggiare tutti i problemi e, soprattutto, di fare le scelte giuste.
Tuttavia, non passò molto da quando era scappata che qualcuno bussò alla porta e, dopo aver ricevuto il permesso di entrare, Jamila si affacciò nella stanza: «Come va, bella?»
«Un po’ meglio, grazie» rispose Aida, stiracchiando un sorriso. Poi, con un cenno della mano, invitò l’amica a sedersi a terra accanto a lei.
«Mi dispiace per prima, Jamila. Non volevo essere così scortese» esordì, dopo aver preso un bel respiro di incoraggiamento. «Non pensavo davvero ciò che ho detto» aggiunse, sentendosi tremendamente in colpa per come l’aveva trattata. Certo, a volte, non avevano la stessa opinione, ma quella ragazza era sempre stata buona con lei ed era davvero l’unica su cui potesse contare in ogni momento.
«Tranquilla, non preoccuparti: hai detto la verità, perciò non mi sono offesa» replicò l’altra, mettendole una mano su un braccio con un sorriso sulle labbra. «Tu sei sempre stata più riflessiva di me. E poi, al contrario di tuo fratello, ho capito che non ce la fai più».
Nell’udire quelle parole, la fanciulla ricambiò debolmente il sorriso, così Jamila, incoraggiata, si sistemò meglio, mettendosi a gambe incrociate davanti a lei e fissandola con aria indagatrice.
«Perciò ora non potrai rifiutarti di rispondere alla mia domanda: cosa hai deciso di fare con il tuo affascinante innamorato?»
«Davvero ancora non lo so» rispose la fanciulla, stringendosi di più le gambe contro il petto e appoggiando il mento su un ginocchio.
In risposta, l’altra sbuffò, impaziente: «È quasi un anno che vi scambiate sguardi languidi... per caso vi divertite così tanto a giocare agli amanti contrastati, portando aventi questa ridicola tresca
Allarmata ed indignata da quel termine, Aida ebbe un sussulto e si mise immediatamente sulla difensiva.
«Tra me e Giancarlo non c’è nessuna tresca!» esclamò, contrariata.
L’amica, allora, la guardò a lungo e, senza alcun imbarazzo, la incalzò: «Ah, no? Allora, perché non vi mettete ufficialmente insieme?»
«Ma... non è così semplice!» sbottò la fanciulla, molto vicina all’esasperazione, poiché non avrebbe potuto zittire Jamila come faceva con i propri tormenti interiori. Alla fine, dopo aver scosso ripetutamente la testa cercando di trovare dentro di sé la calma necessaria per affrontare, una volta per tutte, quel discorso a voce alta, distese le gambe e chiuse gli occhi, contando fino a cinque.
«Se accettassi la sua proposta, dovrei andare via dal mio paese e abbandonare tutti voi, che siete la mia famiglia» cominciò a spiegare, sentendosi più leggera ad ogni parola che le usciva dalle labbra. «C’é ancora la tesi da discutere a gennaio, papà tornerà a casa per Natale e poi io dovrei rinunciare per sempre a lavorare al Museo Nazionale de Il Cairo...»
«Be’, come prima cosa, non ti ha mica detto che ti sposerà domani: se ti ama davvero, capirà che hai bisogno di tempo» obiettò, allora, l’altra, come se sentisse il bisogno di aiutarla a riordinare le idee, dandole dei punti fermi sui quali ragionare. «Inoltre, andresti a vivere in Italia, non in Patagonia! Davvero credi che in una città come Roma non riuscirai a trovare un museo decente per cui lavorare?»
«Non lo so, Jamila. Magari, nel frattempo, potrebbe stancarsi e trovarsi un’altra ragazza più matura, più adatta al suo rango o, magari, semplicemente più bella e attraente» commentò Aida, amareggiata, stringendosi le braccia addosso per confortarsi. «Tu non puoi nemmeno immaginare quante colleghe gli vadano dietro, in facoltà!»
«Non si può certo dire che siano del tutto sceme, no? Cercano semplicemente l’uomo bello, fascinoso e ricco» replicò l’amica, facendo una smorfia di disapprovazione. «Comunque, è stato lui a parlarti delle sue ammiratrici?»
«Non proprio, ma, poiché mi racconta tutto, ho capito da sola che ne ha fin troppe» aggiunse la fanciulla, incupita, scrutando la sua interlocutrice, che si era lasciata sfuggire un sorrisetto furbo.
«Sbaglio, o ti stai lasciando corrodere dalla gelosia?» esclamò quella, prendendola bonariamente in giro. «Comunque sia, non credo che tu debba preoccuparti, se è il biondino stesso a confidarti queste cose, perché significa che non ti sta nascondendo niente» fece una piccola pausa, poi proseguì: «Ricordati sempre che Giancarlo ha sfidato quel bisbetico di tuo fratello per avere l’opportunità di parlarti e continua a sopportare i suoi commenti velenosi solo per vederti».
Aida, allora, volse lo sguardo verso la finestra, attraverso la quale riusciva a vedere solo uno scorcio di cielo azzurro brillante e privo di nuvole: una campitura di colore che pareva simboleggiare quella serenità che desiderava, ma che non le apparteneva.
«Io non avevo messo in conto di innamorarmi adesso» sospirò, concentrandosi su quella tinta uniforme e, in quanto tale, rassicurante. «Prima di conoscere Giancarlo, non avevo mai provato nulla di simile: ero innamorata della vita e dell’amore stesso e vivevo bene così. Vorrei solo che Samir fosse più grande, perché ha ancora tanto bisogno di me...»
«Tesoro, queste cose succedono e basta» intervenne Jamila, ferma. «Chi l’avrebbe mai immaginato, dopotutto, che per quell’orso di tuo fratello, per giunta più giovane di me, avrei abbandonato tutto e tutti? Eppure è successo. Inoltre, non credo che Samir sia un problema, visto che quel ragazzo sa quanto sei importante per il tuo fratellino, tanto da averci detto chiaramente che non vede l’ora di prendersi cura di lui assieme a te».
Richiamata alla realtà da quell’ultima affermazione, Aida smise di contemplare il cielo e tornò a guardare l’amica, corrugando la fronte. 
«L’ha detto a Rami e a me l’altra volta, mentre tu e Samir vi stavate preparando per uscire con lui» spiegò l’altra, continuando il suo discorso. «Tuo fratello gli stava raccontando che, per un po’, dovremo occuparci di vostro padre, visto che dopo otto anni di prigione non sarà facile tornare alla vita di prima e così, Giancarlo ha subito mostrato l’intenzione di prendersi cura sia di te che di Samir».
La fanciulla cercò sul volto dell’altra anche il più piccolo segno che potesse tradirla, ma non ne trovò nemmeno l’ombra.
«Che cosa stai cercando di dirmi?» chiese, allora, incredula. «Rami non può aver deciso di lasciare che noi...»
«Aida, ti sto dicendo che è ora di pensare ad una tua eventuale famiglia e che Rami ha capito di dover fare lo stesso» affermò Jamila, decisa. «Inoltre, come hai detto tu stessa, sa che Samir è piccolo e ha bisogno più di te che di lui. Hai sempre ubbidito a tuo fratello maggiore e credo che adesso anche tu meriti un po’ di felicità, quindi vedi di dare al più presto una bella risposta al tuo bel biondino!» concluse.
Dopo poco si alzò e, dopo essersi spolverata la divisa, tese alla fanciulla una mano per aiutarla a fare altrettanto.
«Appena ti sarai calmata un po’, scendi, va bene? Rami deve dirti una cosa» si congedò Jamila, con un sorriso.
Allora, Aida rimase a guardarla finché non fu uscita dalla stanza, per poi dirigersi verso la cassettiera, posizionata sopra ad un piccolo tavolinetto in fondo alla stanza, aprire il cassetto intermedio ed estrarne una scatolina rosso cupo, che, al suo interno, conteneva
un paio di pendenti stellati. Erano il regalo che Giancarlo le aveva mandato a luglio, in occasione del suo ventiduesimo compleanno e che lei non aveva mai avuto il coraggio di indossare, considerandoli un dono troppo prezioso, perché quegli orecchini, di fatto, erano un simbolo che riassumeva perfettamente il suo senso di inadeguatezza verso la situazione.
Sospirando, dopo qualche minuto li rimise a posto e si affrettò a scendere al piano di sotto.

Non appena arrivò all’ultimo gradino, Aida vide Samir, appena tornato da scuola, correrle incontro per abbracciarla. Anche Jamila e Rami si avvicinarono in silenzio a lei e non passò molto tempo che la ragazza spronò il fidanzato a parlare, lanciandogli un’occhiataccia.
«Allora? Vogliamo fare notte?»
In risposta, il ragazzo emise un breve grugnito,
prima di cominciare a parlare.
«Aida... come mi ha fatto notare Jamila, non è giusto che tu continui a lavorare seguendo questi ritmi, quindi, da questo momento e fino al tuo esame, potrai dedicarti esclusivamente allo studio».
«Davvero?» esclamò lei, meravigliata.
Rami annuì e aggiunse: «Devi fare ciò che ti compete, cioè studiare».
«E..?» lo incalzò Jamila.
«E» proseguì l’altro, sbuffando, «hai il permesso di andare dal tuo spasimante, come sua ospite. Per quanto non se lo meriti, gli devi una risposta».
Aida rimase così esterrefatta che cominciò a balbettare: «P-Posso davvero?»
«L’importante è che tu sia qui per l’inizio del semestre. Devi ancora accordarti su alcuni aspetti con il relatore per la tesi».
«Ma Rami!» protestò Jamila a viva voce. «Questo non era nei patti! I tempi sono quello che sono...»
«Prendere o lasciare» sentenziò, però, il concierge, irremovibile.
«Va bene» rispose, invece, Aida. «Ho solo una domanda da farvi: chi si prenderà cura di Samir durante la mia assenza?»
«Ci penserà Milia, Dada!» rispose subito il bambino. «Starò bene, lei mi porta al parco quando me lo promette» aggiunse, annuendo vigorosamente.
«Visto, Dada? Ce la caveremo alla grande!» la rassicurò l’amica, ammiccandole. 
A quel punto, Aida li guardò tutti, soffermandosi in particolare sul fratello maggiore e sorridendogli con gratitudine: «Grazie Rami, di tutto. E grazie anche a voi, Jamila e Samir».
«Sì, sì, prego, prego, ma ora vedi di metterti a studiare e di passare degnamente questo esame, altrimenti da Tornatore ci andrai l’anno prossimo!» sentenziò il ragazzo, pratico e sbrigativo, riaccomodandosi alla sua postazione. In realtà, sapeva bene che la sorella si stava riferendo alla sua decisione di lasciar liberi sia lei che Samir, ma non era tipo da smancerie e preferiva che tutto rimanesse com’era, poiché, nel caso Aida avesse accettato la proposta di quell’italiano - di quell’occidentale! - per gli addii ci sarebbe stato tempo.
«Piantala, Rami! Vedrai che Dada farà quello che deve con criterio e partirà sicuramente. Per compensare come la tratti male tu, orso bruno, il suo tigrotto biondo dovrà coccolarla per tutta la durata della sua vacanza!» insinuò Jamila con una sfumatura quanto mai licenziosa, lanciando ad Aida un’occhiatina molto eloquente e quella avvertì subito un discreto calore che si spandeva sulle sue guance. Tuttavia, era troppo contenta per preoccuparsene.
«Ovviamente, porterai i miei rispettosi saluti al signor Marcello e alla gentilissima signora Beatrice» proseguì poi Rami, ignorando la fidanzata e calcando con un po’ troppo trasporto e devozione sul nome della donna.
Insospettita, Jamila si voltò immediatamente verso di lui.
«Ma sentitelo, la gentilissima signora Beatrice... Mi stai nascondendo qualcosa, per caso?» sibilò, minacciosa.
«Ah, non lo sapevi, Milia, che Rami ha una cotta per la mamma di Giancarlo?» domandò ingenuamente Samir e la ragazza, indignata, insorse istantaneamente.
«Ah allora è così che stanno le cose!» 
«Samir, che cosa ti salta in mente?» farfugliò il giovane, palesemente in difficoltà. «Ma no, Jamila, non è come pensi tu!»
«Rami, l’hai detto tu che Beatrice era bella come la Primavera di... di... come si chiama quel pittore, Dada? Non ricordo!» chiese il bambino, accigliandosi.
«Botticelli» rispose, allegra, Aida, che ormai sentiva la sua partenza davvero vicina e concreta. 
Jamila, invece, ridusse gli occhi a due fessure, soffiando: «Con te facciamo i conti dopo, gigolò ruffiano e adulatore!»
Rami trovò la scena rischiosamente familiare ed ebbe la netta impressione di essersi cacciato in grossi guai.
***

L’odore di resina delle
maestose conifere che la circondavano la sommerse immediatamente, intenso e penetrante, mentre si guardava intorno, notando che, in sua assenza, nulla di quell’immenso parco era cambiato.
Aida percorse la fitta stuoia di aghi di pino caduti in terra e si rimise sul selciato, apprezzando ancor di più, grazie all’aria spumeggiante dell’autunno romano, tutto quello che aveva già adorato nella fredda rigidità dell’inverno.
«Buon pomeriggio e ben tornata, Aida» la salutò qualcuno alle sue spalle e lei, avendo riconosciuto la voce, si voltò all’istante.
«Buon pomeriggio, signor Marcello. Come sta?» gli chiese, incurvando le labbra con dolcezza.
«Discretamente, grazie» rispose l’uomo, ormai vicinissimo: era esattamente come lo ricordava, circondato da un alone di austera e raffinata bellezza. «Comunque, dammi del tu. I formalismi sono per quelli che non badano alla sostanza».
«Ancora non ci riesco» tentò di giustificarsi la fanciulla, con semplicità. «Mi dispiace, ma non penso di poterla chiamare per nome, non mi viene proprio».
Vagamente sorpreso, quello la guardò, increspando appena le labbra e manifestando senza volerlo lo stesso atteggiamento che aveva il figlio quando veniva colpito da qualcosa.
«Non riesco ancora a credere che quello scostumato si sia deciso a rivolgere le sue attenzioni ad una ragazza così compita. Spero che almeno tu riesca ad insegnargli la buona educazione, dato che io non ci sono riuscito».
Aida, in risposta, abbozzò un timido sorriso, ma non disse altro. In quel momento, sopraggiunse Beatrice, avvolta in un morbido abito azzurro dalle rifiniture talmente particolari che la ragazza pensò fosse di produzione sartoriale. Oppure, chissà, realizzato addirittura dalla sua stessa indossatrice.
«Ben arrivata, cara. Hai fatto buon viaggio?» le chiese, con quella dolcezza che l’aveva colpita sin da subito.
«Oh, sì, signora, grazie».
«E come stanno Rami e il piccino?»
Mentre la fanciulla rispondeva alla domanda, la donna le rivolse un’occhiata materna, poiché le ricordava molto se stessa quando era arrivata in quella casa. All’inizio, non era stato semplice adattarsi, poiché la Matrona, che l’aveva sempre considerata una bambina inesperta e del tutto incapace a condurre una casa, era stata poco incline a lasciarle le redini della villa. Invece, il fatto che Beatrice avesse perso la madre molto presto e si fosse dovuta rimboccare le maniche fin da subito si era rivelato molto utile, giacché, superati gli impacci inizali, era riuscita a cavarsela egregiamente, ripromettendosi che, se mai un giorno, avesse avuto una nuora, si sarebbe comportata diversamente con lei. Anche perché il ruolo della suocera cattiva non l’allettava.
Inoltre, Aida aveva donato la serenità al figlio che Beatrice tanto amava e che era stato la sua gioia più grande, assieme a Marcello, ai tempi degli attriti con la madre di lui, perciò non avrebbe mai potuto mettersi contro colei che aveva reso felice il suo Pulcino.
«Beatrice, accompagneresti Aida a vedere la sua stanza, per favore?» proruppe il marito, improvvisamente, allontanandola dalle sue riflessioni.
«Certo, Marcello. Vieni con me, cara, le tu’ valigie sono state già portate di sopra» rispose subito lei, riprendendo le fila del discoro. «Giancarlo sarà qui a momenti, ma l’abbiamo ancora tempo».
Approfittando del fatto che la donna l’avesse menzionato, la ragazza, allora, si arrischiò a fare la domanda che aveva in mente fin da quando era arrivata.
«E dov’è, in questo momento?» chiese con curiosità.
«In ufficio» rispose prontamente Marcello. «Doveva chiudere una pratica. Sai, ha deciso di cominciare a lavorare, nei periodi in cui è più libero. Diciamo, che ora ha un’ottica più... adulta, anche in questo senso e, nonostante i due anni di studio arretrato, vuole darsi da fare».
«Ah, però, che bravo...» commentò Aida, sinceramente colpita, visto che il giovane aveva omesso di raccontarle quel particolare, forse per non darle la falsa impressione che si stesse vantando.
«Avrà ancora molto da sgobbare, però, perché deve imparare anche che non tutto gli è dovuto e che solo con l’impegno costante si ottengono i risultati» continuò l’uomo. «A proposito, Aida, dimmi la verità: come si comporta con te?»
«Oh, Marcello, perché devi esser sempre così prevenuto nei confronti del nostro Pulcino?» intervenne, invece, la moglie, stizzita.
«Fammi sentire cosa ha da dire questa ragazza!» insistette l’altro. «Aida, rispondimi senza timore o vergogna: ha mai provato a metterti le mani addosso?»
«No, mai» replicò la ragazza con decisione. «Anzi, con me è sempre molto gentile».
«Sentito?» fece, allora, Beatrice, trionfante.
Marcello, però, non parve molto convinto; infatti, subito dopo, proseguì: «Se dovesse prendersi certe libertà, ti autorizzo a tirargli un bel cinquino! Ovviamente, poi, vienimelo a riferire, ché lo sistemo io, cominciando proprio dai suoi adorati capelli».
A quel punto, la donna sospirò, riservando al consorte un’occhiata di disapprovazione e puntando un pugno chiuso contro il fianco.
«Son giovani, lasciali vivere!» fece, esasperata. Poi, zittendo con un cenno il marito che si preparava a ribattere, sorrise all’indirizzo di Aida. «Cara, vogliamo andare?»
«Certo, signora» le rispose la fanciulla e, così, dopo aver salutato l’uomo, la seguì all’interno di Villa Aurelia.

Tuttavia, non passò molto tempo che anche Giancarlo fu di ritorno, arrivando di gran carriera e piantandosi davanti al padre, con le mani sulle ginocchia, nel tentativo di riprendere fiato: sembrava aver corso molto, visto che perfino i suoi ciuffi biondi, perennemente ribelli, parevano ancor più sconvolti, tanto erano rabbuffati.
«Hai fatto tutta la strada a piedi, per caso?» lo dileggiò Marcello, seppur bonariamente derisorio.
«No...» fece il ragazzo, raddrizzandosi. «Ho avuto la malaugurata idea di seguire il tuo consiglio e prendere la metro... La odio, la odio, la odio!»
«Be’ se vuoi evitare il traffico dell’ora di punta, la metro rimane l’unica soluzione, a meno che tu non voglia usare la bicicletta e farti un bagno di smog» replicò il padre, prendendolo in giro.
Offeso dal suo fare canzonatorio, il giovane sbuffò: «Non fai ridere, sai? Se facessi meno il preistorico, invece, e mi lasciassi prendere il regalo che zio Guido ha fatto a me...»
«Moderati!» lo rimproverò Marcello. «Ne abbiamo già parlato: lo userai quando dimostrerai di avere giudizio. Piuttosto, avete chiuso la pratica Lichtman?»
«Sì, sì, stai tranquillo».
L’altro, però, lo scrutò dubbioso e ciò non sfuggì a Giancarlo che, quando se ne accorse, si mise subito sulla difensiva, risentito.
«Cosa c’è, non ti fidi, forse? Chiama Gerardo e fatti confermare che è andato tutto bene!» replicò a denti stretti.
Colpito da tanta determinazione, il padre osservò l’espressione seria del figlio e, allora, decise di ammorbidirsi un po’.
«Va bene, vedremo. Ora sbrigati, Aida è già arrivata e, considerando che rimarrà qui per pochi giorni, sei già in ritardo sulla tabella di marcia».
A quella notizia, Giancarlo si riebbe da tutto il malumore e assunse un’aria più contenta; poi, senza aggiungere altro, si fiondò come un fulmine su per la scalinata di travertino, diretto in camera sua.
Nel vederlo sparire così, Marcello scosse la testa e, avviandosi dalla parte opposta, esclamò: «Magari scattasse così anche per altro!»

Era almeno la sesta volta che, davanti allo specchio, si sistemava la frangetta o, peggio, cambiava abbigliamento.
E dire che, per anni, era stato convinto che bastasse un suo mezzo sorriso per far cadere ai suoi piedi tutte le ragazze che desiderava e che fosse sempre perfetto; quella sera, invece, si sentiva solo un emerito cretino.
Spazientito, Giancarlo sbuffò e si buttò a peso morto sulla soffice poltrona dietro di lui, incurante dei capelli che stillavano acqua sia sulla camicia azzurra ancora sbottonata, che sui jeans. Ormai non si sottraeva più ai confronti con il suo riflesso e lo scrutò con aria di sfida, tenendo le braccia conserte e strettamente annodate, attendendo che arrivasse a sbeffeggiarlo. E, infatti, così accadde.
“Uh-uh... sogno o son desto? Il biondo Casanova in difficoltà nell’affrontare un appuntamento con una ragazza!”
«Chiudi il becco! Non è un appuntamento, è solo tornata a trovarmi ed io la porterò in giro a vedere la città, come le avevo promesso. Fine del discorso!»
“Come siamo scontrosi...” notò il suo doppio, con un lieve sogghigno“Di’ la verità: speri che lei lo consideri come un qualcosa di più e sei nervoso, perché sai che la posta in gioco è alta. O sbaglio?”
«Sì, è proprio così, soddisfatto?» sbottò il ragazzo.
“Oh, dai, rilassati, altrimenti non combinerai niente di buono, sai?”
In risposta, Giancarlo inarcò un sopracciglio, ma cedette subito all’istinto di liberarsi di tutta quell’oppressione ed espirò a fondo, sciogliendo anche le braccia dal nodo in cui le aveva serrate.
“Visto che va meglio? Comunque, se vuoi un consiglio, cerca di essere il più naturale possibile: la sincerità paga sempre”.
«Con lei sono sempre sincero, ma ora non so che cosa fare, perché Aida non è come le altre ragazze e noi... non siamo mai usciti completamente da soli».
“Hai bisogno di aiuto per portarla in giro, per caso? Se ti comporterai bene, non vedo perché non dovrebbe funzionare. Prima, però, ti suggerisco di abbottonarti la camicia e di abbandonare quell’aria da condannato al patibolo, visto che è assolutamente fuori luogo. Stai per uscire con una ragazza semplice e dolce, non con Miss Mondo, pertanto sii te stesso e sarà già un buon inizio!”
«Questa è la prima volta che tengo davvero ad una ragazza» ammise, allora, il giovane, sospirando. «Amo da impazzire ogni parte di lei e non voglio che finisca tutto ancor prima di iniziare. Ho il terrore di sbagliare e di allontanarla da me».
“Be’, comportandoti come un gentiluomo non troppo ingessato ed essendo sicuro di te, senza cadere nell’arroganza, aumenterai le possibilità di ricevere una risposta positiva. Devi farla sentire desiderata... possibilmente senza sembrare un pervertito,
come tuo solito!”
«Ora mi stai offendendo, lo sai bene che non mi permetterei mai di farle qualcosa che non vuole. Io desidero solo che con me lei possa essere felice».
“Volevo sentirtelo ripetere ancora una volta. Ah, un’ultima cosa, bambolo”.
«Cioè?»
“Recupera la giacca corta blu dal tuo armadio e non strafare con il profumo: ho il sospetto che il tuo le piaccia parecchio, ma non eccedere, poiché devi dare l’idea di raffinata sobrietà, non di uno che se la tira!”
Il ragazzo, allora, fece come gli era stato consigliato, rimanendo piacevolmente sorpreso dal risultato finale.
“Bene, cocco. Ora puoi andare e, mi raccomando, stai in campana e tieni a mente che... chi troppo vuole nulla stringe”.
A tali parole, Giancarlo aggrottò la fronte e convenne che, dopo quell’esperienza, di proverbi, aforismi e massime ne avrebbe avuto abbastanza per tutta la vita.

Non appena entrò nel salone, il ragazzo vide immediatamente Aida parlare con sua madre e si accorse che, a giudicare dal modo familiare con cui le erano stati raccolti i capelli, attorcigliati su loro stessi e poi ripiegati sulla nuca, doveva esserci dietro la mano di Beatrice. Indossava un leggero vestito avorio, i suoi soliti fermagli e un bracciale dorato che Giancarlo non le aveva mai visto, forse perché non gli era mai stata offerta l’occasione di vederle le braccia e le spalle scoperte, visto che Rami aveva passato al vaglio anche la lunghezza degli abiti della sorella, quando le aveva permesso di uscire con lui. Non che ne avesse il motivo, in effetti, considerata la riservatezza di Aida.
Il ragazzo, allora, si soffermò a osservarla,
appoggiato contro lo stipite della porta, godendosi ogni suo gesto e saziandosi solo a sentire la sua voce, certo che non avrebbe notato la differenza se fosse stata coperta di stracci oppure ammantata di seta e broccato. Era stato troppo tempo lontano da lei, così decise di rimanere ancora un po’ in silenzio ad ammirarsela in pace, finché la madre non si accorse di lui e lo richiamò.
«Eccoti, finalmente, Pulcino
Nel sentirsi chiamare con il solito appellativo, alla sua età e davanti alla ragazza che gli piaceva, il giovane sospirò ed avanzò verso le due donne.
«Mamma, ti prego, basta con questi nomignoli!» fece, leggermente imbarazzato.
«Non capisco che cosa ci sia di male» replicò, però, lei, con fare innocente. «L’è solo una dimostrazione di affetto di una madre verso il proprio figlio». 
In risposta, il biondo scosse la testa: «No, mamma. È imbarazzante».
«Ma Pulcino, anche l’Aida ha detto che trova carino questo tuo vezzeggiativo» insistette, allora, Beatrice.
«Ah, sì?» fece lui, sorpreso, voltandosi verso la ragazza, notando immediatamente, che i suoi occhi scuri lo stavano scrutando con un misto di divertimento e sfida, come se stesse contando i secondi che ci avrebbe impiegato per salutarla. Graziosa, fiera e semplicemente bella come un raggio dell’aurora dopo la notte più buia.
«Ciao, Aida» le sussurrò, con seducente, finta noncuranza. «Noto con piacere che sei arrivata sana e salva».
«Ciao, Giancarlo.
Sì, a quanto pare so badare a me stessa» gli rispose lei, con tranquilla disinvoltura. «A proposito, Samir ti manda i suoi saluti» aggiunse, subito dopo.
«Che bravo bambino, spero di poter ricambiare presto di persona».
Erano l’uno davanti all’altra, ma nessuno dei due sembrava voler cedere per primo, mentre Beatrice li scrutava con un sorriso sottile sulle labbra, certa di poter avvertire il ronzio dell’elettricità intorno a lei. Poi, lanciò una rapida occhiata all’orologio a pendolo appeso al muro laterale.
«Oh, cari, devo proprio andare. Stasera si va dai Doria e Marcello vuole andare presto, per poter andar via il prima possibile».
Richiamato da quel commento, il ragazzo staccò a fatica gli occhi da Aida e si rivolse alla madre.
«Papà non è mai contento in queste occasioni, lo sai, le considera perdite di tempo» commentò.
«Oh, che tu vuo’ farci, il babbo è un po’... ribelle, ma non manca mai ai suoi doveri, seppur di malavoglia» rispose la donna, stringendo le spalle. «Be’, cari, divertitevi! E tu, Pulcino, abbi cura di questa deliziosa ragazza».
«Non mancherò, mamma. Stai tranquilla».
Beatrice, allora, annuì e, dopo aver salutato i due giovani con un bacio, uscì dal salone, lasciando Giancarlo e Aida soli in quel grande ambiente, il silenzio interrotto soltanto dall’oscillazione del pendolo dell’orologio che troneggiava sulla parete principale. 
«Peccato che si sia fatto tardi» incominciò il ragazzo, lentamente, rompendo quell’atmosfera densa. «Non si potrà fare molto, questa sera, ma... hai preferenze? C’è un posto in particolare che vorresti vedere per primo?»
La fanciulla ci pensò un po’ su, per poi scuotere la testa.
«Veramente no...» esordì, ma dovette interrompersi subito, perché lui le prese delicatamente il viso tra due dita, voltandolo piano da una parte.
«Che c’è?» chiese, perplessa.
«Hai messo gli orecchini. Finalmente hai smesso di pensare che siano troppo preziosi per te?»
«Ecco, in realtà, no, ma ho pensato che fosse davvero un peccato lasciarli sul fondo del mio cassetto, visto che sono davvero belli» affermò, candidamente.
«È già un passo avanti. Te li ho regalati affinché li mettessi, non per tenerli nascosti in una scatola» le fece notare il ragazzo. «E, poi, ti stanno bene».
A quel punto fece una piccola pausa, in dubbio se aggiungere anche il resto. Tuttavia, dopo qualche istante di esitazione, decise di farlo, arrossendo appena mentre parlava: «Inoltre, stasera sei molto... carina». 
Paradossalmente, quel complimento imbarazzò più Giancarlo, che l’aveva fatto rispetto ad Aida, che l’aveva ricevuto, la quale sorrise e replicò: «Grazie, anche per i fiori che mi hai fatto portare in camera. Mi fa piacere ti sia ricordato che adoro gli ibiscus bianchi. Invece, credo che a te piacciano i girasoli, dato che mi hai regalato anche quelli».
Il ragazzo la guardò incurvando le labbra e sollevando leggermente le sopracciglia.
«Diciamo, più che altro, che penso valgano più di quanto possa sembrare» le sussurrò. «Annetta te li ha portati senza fare commenti?»
«Quella signora dall’aria così severa? Mi ha fatto la radiografia e alla fine ha detto una parola... qualcosa come scric...» fece la ragazza, soprappensiero.
«Scricciolo?» l’aiutò lui.
«Sì, esatto. Adesso vediamo se riesco a ripetere tutta la frase» gli fece, sorridendo. «Mi ha detto “Sei davvero uno scricciolo, ma hai un visetto pulito”».
Giancarlo vide Aida soddisfatta per esser riuscita nella sua piccola impresa e, ammiccando, le disse: «Brava. Sai, credo proprio che tu le sia piaciuta. Era un da po’ che voleva vederti, perché l’altra volta ti ha scorto solo da lontano. Comunque» proseguì, cambiando argomento, «non abbiamo ancora deciso dove andare. Tu hai fame?»
«Non molta» ammise la fanciulla.
«Neanch’io ho particolarmente appetito e... aspetta, mi è venuta un’idea: forse è arrivato il momento di farti assaggiare il vero gelato italiano!»
«Ah, be’, se non altro mi stai permettendo di rinviare la tragedia che accadrà quando dovrò imparare ad arrotolare gli spaghetti!» replicò Aida, scoppiando in una risata argentina. Vedendola ridere, il ragazzo si rese conto che aveva messo un leggero strato di rossetto e, istintivamente, pensò che se si era sistemata così per uscire con lui, almeno un poco doveva piacerle. Si soffermò, quindi, ad osservarle le labbra, trovandole davvero belle, né sottili, né eccessivamente carnose, e chiedendosi che sapore avessero.
Con le viscere in rivolta, il giovane dovette, allora, fare appello a tutto il suo autocontrollo per non mandare a rotoli il lavoro e gli sforzi di tutti quei mesi, perché, nonostante si trattasse solo di un bacio, quella mossa, al momento sbagliato, sarebbe potuta essere controproducente. In quel frangente, intercettò il suo riflesso che lo guardava truce da uno specchio cinquecentesco con la cornice dorata.
Quindi, niente di niente?
“Niente!”
Neanche un bacetto?
“Ho detto di no!”

Un bacino?
“Idiota, qual è la differenza?”
«Ehm, Giancarlo?» lo richiamò, però, Aida, incerta.
«Eh? Ah, sì. Avevamo deciso di andare a prendere il gelato, no? Vieni, per di qua» la invitò lui, ridestandosi dal suo confitto interiore e ricomponendosi in fretta. Poi, la prese per mano per condurla fuori e lei, nonostante fosse si accigliata per quella risposta, decise di seguirlo comunque.
***

Il Pantheon, con la sua pianta circolare, sormontata dalla cupola emisferica interrotta dall’oculum, e il suo pronao dalle colonne corinzie, era plasticamente adagiato, nella tenue penombra che precede la sera, in mezzo a quello che una volta era stato il Campo Marzio.
Seduta a un tavolino di uno dei tanti locali affacciati sulla piazza, Aida lo guardava, ammirata, sbattendo ogni tanto le palpebre; Giancarlo, invece, fissava interessato lei, seduto con una gamba sovrapposta all’altra e sostenendosi una guancia con l’indice ed il pollice, del tutto incurante delle tre ragazze sedute accanto a loro che se lo stavano divorando con gli occhi.
Perfino Andrew McGregor si era recentemente dovuto ricredere sul cambiamento del suo ex compagno di squadra in occasione del matrimonio di Ralf e Christine, quando le damigelle d’onore erano state corteggiate da tutti, eccetto che dal biondo. Inoltre, la giovane sposa, con la sua solita ingenuità, aveva anche chiesto a Giancarlo perché non avesse portato con lui la sua fidanzata e, allora, il ragazzo le aveva borbottato, arrossendo di colpo, che Aida non era ancora la sua ragazza. Tuttavia, era stato il commento di una coinvolta Mary Anne, con tanto di strizzata d’occhio al biondo, a far cadere ogni dubbio dello scozzese e far inferocire ancora di più Claudia: “Ci sta lavorando. Anzi, dovrebbe farcela prima che il padre di lei venga scarcerato!”

«Allora, ti piace il templum deorum? Magari più tardi, se vuoi, possiamo anche fermarci a vederlo dall’interno» le propose il giovane dopo un po’, inclinando ancor di più la testa.
La fanciulla, allora, si girò verso di lui, interrompendo la sua analisi, e gli domandò: «Preferisci chiamarlo con il nome latino anziché greco?»
«In realtà, sì, e non solo perché non non mai studiato il greco antico. Sai, per la legge della statistica devono esserci almeno una o due materie nelle quali sei ferrato... In storia dell’arte me la sono sempre cavata per via della passione della mamma, mentre il latino lo studiavo perché era una delle poche cose che mi teneva legato a mio nonno. Sai, ne era un appassionato» spiegò, con un velo di malinconica nostalgia. «Non trovi che sia strano? Cercare di mantener vivo un rapporto, attraverso una lingua morta».
«Non molto, direi» osservò Aida, per poi chiedergli, con rispettosa curiosità: «Senti molto la sua mancanza?»
«Ad essere onesto, a volte anche troppo» mormorò lui, cambiando posizione e incrociando le braccia sul tavolo. «Sono convinto che tu gli saresti piaciuta subito. Probilmente, ti avrebbe salutata declamando i versi Celeste Aida, forma divina/mistico serto di luce e fior3 e, certamente, non avrebbe sbagliato».
A quel punto, Aida si sentì avvampare e distolse lo sguardo, concentrandosi su alcuni piccioni che beccavano indisturbati i residui di una cialda sbriciolata tra i sampietrini.
«Dai, non esagerare... anche se non mi dici queste cose, io... Insomma, va bene lo stesso» replicò, piuttosto in difficoltà.
«Dico sul serio. Cantava la sua opera preferita ogni mattina, mentre si faceva la barba
davanti allo specchio» prese a raccontare Giancarlo, sorridendo al piacevole ricordo. «Sarebbe molto contento di conoscere la fanciulla che ha aiutato suo nipote».
A quel punto, l’altra si voltò nuovamente verso di lui e rimase a guardarlo di sottecchi per un po’, prima di prendere coraggio e gli domanda
rgli: «Giancarlo, perché ti sei ostinato a far passare la tua vivacità per superficialità? Per attirare l’attenzione di tuo papà?»
A quella richiesta inaspettata, il giovane inarcò dapprima le sopracciglia, quindi sospirò, scuotendo la testa.
«Be’, ecco, non solo per quello, ma anche perché era facile non avere preoccupazioni, era... comodo. Da superficiale puoi permetterti tante sviste che non sono consentite al responsabile, per quanto vivace possa essere. Per fortuna, però, ho finalmente incontrato una graziosa ragazza che mi ha portato a rivedere il mio punto di vista».
Quella, allora, gli sorrise, apprezzando la sua sincerità. In quel momento, tornò con i loro gelati la 
formosa cameriera che prima gli aveva fatto l’occhio da triglia, ma che lui aveva prontamente ignorato.
«Credo di non aver mai preso in vita mia gusti alla frutta. Sei sicura della scelta? Puoi ordinarne un altro, se, nel frattempo, hai cambiato idea».
«Intanto, assaggerò questi. E poi, scusa, cos’hai contro i gusti che ho preso?» si informò la ragazza.
«Niente, ma non riesco a concepirli come vero gelato. Le creme sono un’altra cosa» ribatté il giovane, dopo averci pensato su qualche secondo. «Facciamo così: assaggia e poi mi dirai le tue impressioni, che ne dici? E non farti problemi se vuoi cambiare».
Annuendo, Aida prese un poco di gelato alla fragola e lo assaggiò, per passare poi al limone, trovandoli entrambi una delle cose più buone che avesse mai mangiato: era davvero piacevole lasciarle sciogliere in bocca e poi assaporarle a fondo.
«Come sono?» le chiese l’altro, alla fine della sua sessione di degustazione.
«Molto buoni. In effetti, quello che vendono ad Alessandria non può certo competere con questo» commentò lei.
Serrando appena le labbra con atteggiamento meditabondo, Giancarlo prese un po’ di gelato alla nocciola dalla sua coppa, si assicurò che non colasse e, inaspettatamente, lo presentò ad Aida.
«Ora prova quest’altro».
Sorpresa ed imbarazzata, la ragazza fissò prima il cucchiaino e poi lui, quindi abbassò lo sguardo, poiché l’essere in un luogo pubblico e sentire su di sé gli sguardi dei curiosi la metteva in soggezione. Dal canto suo, il biondo tirò indietro il braccio, intristito.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato? Non era mia intenzione metterti a disagio».
«No, tu non c’entri» mormorò lei, in risposta, non riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi. «Sono io che sono troppo... impacciata».
Il giovane, allora, la scrutò attentamente, valutando quale fosse il modo migliore per tranquillizzarla.
«A me non dispiace» affermò, risoluto. «E, anche se qualcuno ci sta guardando, entro questa sera avrà già scordato tutto» aggiunse, intuendo che, per lei, la fonte maggiore di disagio doveva essere la gran quantità di persone presenti in quel momento in Piazza della Rotonda.
A quella considerazione, Aida rialzò lentamente le sue iridi scure, cercando il contatto con quelle blu di lui.
«In fondo, non stiamo facendo niente di così eclatante» spiegò il biondo. «Che ne dici, vogliamo riprovare?»
La ragazza, però, non rispose subito, poiché prima si guardò intorno con circospezione e, solo quando vide i turisti concentrati sulle loro faccende, espresse un lento cenno d’assenso.
Poco dopo, permise a Giancarlo di farle assaggiare sia la nocciola che la stracciatella, anche se non senza un certo imbarazzo. Tuttavia, a lui andava bene così, poiché sapeva bene che Aida non sarebbe mai stata una ragazza disinibita e non gli interessava affatto cambiarla. Voleva semplicemente che stesse bene con lui.
«Allora? Che cosa ne pensi?» le domandò, non appena quella ebbe mandato giù anche l’ultimo assaggio.
«Sono molto buoni anche questi. Sono buoni tutti, in realtà» gli disse lei, timidamente, stringendo le labbra per carpirne ancora il sapore.
Compiaciuto dal risultato, il giovane sorrise e si apprestò a servirsi a sua volta dalla propria coppa, quando vide entrare nel suo campo visivo un cucchiaino con sopra del gelato alla fragola. Meravigliato, pur sentendosi arrossire, alzò lo sguardo su di lei.
«Da quanto ho capito, sei peggio di Samir e mangi solo quello che ti ispira. Ma, se non assaggi nulla di nuovo, non potrai mai sapere se potranno piacerti altre cose» gli sussurrò, dolce.
Seguirono alcuni istanti di esitazione, nel corso dei quali i neuroni del ragazzo fecero cortocircuito, giacché era del tutto impreparato ad un’evenienza del genere. 
«Inoltre, mi sembra giusto ricambiare il favore» continuò la fanciulla, piegando appena le labbra in un sorriso vagamente soddisfatto, come se reputasse quella proposta una piccola vittoria personale.
In risposta, il giovane, con lo stomaco attorcigliato, deglutì a vuoto e ci impiegò qualche istante prima di annuire e assecondarla, tornando con la mente a quando era il suo adorato nonno che, con pazienza e dolcezza, lo imboccava per farlo mangiare. 
«Dunque?» gli chiese Aida, dopo che lui ebbe mandato giù il dolce, osservandolo incuriosita, con ancora il cucchiaino a mezz’aria.
«Non male, credevo peggio» esalò Giancarlo, che in cuor suo supplicava di non essere svegliato, casomai si fosse trattato di un bel sogno.
«Visto? Non bisogna mai partire prevenuti!» esclamò lei, piegando la testa da un lato.
Ne seguì una lunga pausa di silenzio, durante la quale i due ragazzi si limitarono a starsene semplicemente l’uno di fronte all’altra, per poi riprendere a consumare i rispettivi gelati. Fu Aida, alla fine, a parlare per prima.
«Giancarlo, posso chiederti un favore?»
«Quale?» le domandò lui, mentre si infilava in bocca il rimasuglio di nocciola.
«Ti va di spiegarmi qualcosa di latino, oltre ad aiutarmi a perfezionare l’italiano?»
Davanti ad una richiesta del genere, il biondo ingoiò il boccone, evitando per un pelo di strozzarsi.
«Ma se lo parli già divinamente!» esclamò, stranito. «E poi il latino è difficile, tra i nostri studenti non lo sopporta quasi nessuno...»
«Non mi reputi all’altezza?» fece allora l’altra, ferita nell’orgoglio. «Tu stai imparando l’arabo e la scrittura bustrofedica!» aggiunse, con disarmante semplicità.
«No, figurati, non è per quello... però...» farfugliò il giovane, mentre lei lo osservava come se lo stesse mettendo alla prova, tradendo anche un certo divertimento nel vederlo così in difficoltà. Giancarlo se ne accorse e, infine, decise di cedere.
«Va bene, vediamo che cosa si può fare» sospirò, fissandola perplesso. «E, comunque, stavo dubitando delle mie capacità di insegnante, non delle tue come allieva».
«Provare non costa nulla» affermò placidamente Aida, rivolgendo ancora un’occhiata al Pantheon.
***

«Non fare quella faccia! Non è poi così male, non trovi?»
«Se proprio vuoi saperlo, io mi sto ancora chiedendo come sia finito quaggiù. Tu e mio padre, insieme, siete peggio di un’associazione a delinquere!»
Aida rise, poiché l’espressione sofferente e, allo stesso tempo, rassegnata di Giancarlo era davvero buffa. Ad Alessandria non c’era un sistema di trasporti sotterraneo e quello de Il Cairo non l’aveva mai usato, quindi era davvero curiosa di vederne uno. Tuttavia, se quella mattina era stato grande l’entusiasmo di Marcello nell’accogliere la sua richiesta, certo non si sarebbe potuto affermare lo stesso per il figlio, che era inorridito seduta stante.
«Cosa ci sarà mai di interessante da vedere qui!» sbottò il giovane. «So bene che lui vuole tenermi lontano dall’auto che mi spetta di diritto, ma tu avresti potuto anche darmi manforte, invece di assecondare le sue tremende punizioni!»
«Oh, che tragico che sei! Non è una punizione farti usare i mezzi pubblici, anzi, è il miglior modo di vivere una città» osservò, però, saggiamente lei. «Credimi, tu non sai nemmeno che cosa significhi essere puniti dai propri genitori senza aver fatto niente. Con l’abbandono, per esempio» aggiunse subito dopo, pensierosa.
Quel commento fece tacere immediatamente il giovane, che si vergognò della propria scenata infantile: non avrebbe certo potuto paragonare la sua situazione a quella di Aida e non era certo lamentandosi che le avrebbe dimostrato di essere un uomo.
«Inoltre, sono solo due fermate, non è la fine del mondo!» proseguì la fanciulla, di nuovo contenta.
«Tre» la corresse il giovane, con scarso entusiasmo, ma molto più contegno di poco prima. «Da Termini a Spagna sono tre fermate».
Aida, allora, scosse la testa, facendo ondeggiare la sua treccia nera, e prese a guardarsi intorno, scandagliando con cura i bassifondi della linea A.
«Accidenti, quanti turisti!» esclamò, sporgendosi qua e là per vedere meglio.
«A Roma ci sono turisti in ogni momento dell’anno» spiegò Giancarlo. «Non è raro trovarne nei luoghi più frequentati. In realtà, però, molte di queste persone sono residenti».
«Ce ne sono davvero di tutte le etnie» mormorò lei, sporgendosi un’altra volta.
«Aida, stai attenta, la gente arriva tutta insieme e all’improvviso, rischi di perdere l’equilibrio se fai così!» la rimproverò subito lui, preoccupato.
«Ma no, tranquil...»
In quell’istante, una mandria di persone si materializzò sulla banchina, correndo per non perdere la metro che stava arrivando e una signora particolarmente in carne, nella fretta di posizionarsi in prima linea, travolse letteralmente Aida. D’istinto, la ragazza chiuse gli occhi e si preparò al violento urto con lo sporco pavimento della banchina, sperando che non fosse troppo doloroso. Tuttavia, quando l’impatto non avvenne, aprì gli occhi lentamente e si ritrovò sostenuta per la vita da Giancarlo.
«Che cosa ti avevo detto? Ecco perché odio questo schifo di posto!» la riprese il ragazzo, terribilmente seccato, mentre lei si rimetteva in piedi, stringendosi le spalle.
«Be’, non è successo nulla, per fortuna hai evitato che mi facessi male» gli disse, sorridendogli timidamente, nella speranza fosse sufficiente per rabbonirlo. «
Shukran» lo ringraziò poi.
Quello la guardò, inarcando appena un sopracciglio e deglutendo a vuoto.
«Afwan» le rispose, rendendosi conto d’essere rimasto improvvisamente a corto di saliva.
«Mi dispiace di essere così sbadata» si scusò lei subito dopo, seriamente preoccupata, poggiandogli delicatamente una mano sul braccio e, a quel tocco, la schiena di lui fu percorsa da brivido. 
«N-Non... importa» balbettò, per poi schiarirsi la voce e ricomporsi. «Otto mesi di tennis saranno pure valsi a qualcosa».
«Tennis? Vuoi dire che non vai più in palestra?» fece Aida, incuriosita.
In risposta, il ragazzo le riservò un sorriso sottile e scosse la testa, soddisfatto.
«Niente più palestra o personal trainer, visto che, ormai, è quello sportivo di Emiliano a mettermi sotto torchio: calcio, corsa a Villa Borghese alle sei di mattina» sottolineò «tennis... Ecco, forse non gli è mai interessato il beyblade, ma per il resto pratica di tutto».
«Emiliano è quel tuo caro amico d’infanzia...» cominciò la ragazza, cercando di ricordare chi fosse.
«... con il quale avevo litigato anni fa, sì. Però, ora gli ho chiesto scusa per come mi sono comportato e lui ha capito» spiegò l’altro. «Gli ho anche parlato di te e vuole assolutamente conoscerti. La prossima volta te lo presento, che ne dici?»
«Gli hai parlato di me?» repeté lei, colpita. Giancarlo, infatti, le aveva raccontato di quanto fosse legato ad Emiliano, che era come un fratello per lui, del fatto che la loro lite era stata argomento tabù per troppo tempo e di come, una delle prime cose che aveva fatto, quando aveva deciso di cambiare vita, fosse stata proprio affrontare il ragazzo per cercare di fare pace.
«Certo che gli ho parlato di te» confermò, perplesso, come se non capisse il motivo di tanto stupore. «È il mio migliore amico! E poi, mica faccio come lui, che mi ha scambiato per un terapeuta che deve aiutarlo ad ammettere che gli piace quella ragazza irlandese» aggiunse.
«Be’, è carino che vi sosteniate a vicenda, non credi?» replicò Aida, trovando molto bello che Giancarlo avesse un’amicizia tanto profonda.
«Certamente. Comunque, lo perdono anche perché mi ha aiutato a perfezionare il servizio, così appena ci sarà l’occasione giusta» disse poi il biondo, mimando l’azione di colpire una pallina con una racchetta, «straccerò quel pallone gonfiato di McGregor che allora finirà di professarsi il re di Wimbledon!»
Nell’udire quell’ultima considerazione, la fanciulla alzò lievemente un sopracciglio, divertita.
«Tu e i tuoi amici siete davvero divertenti» commentò.
«Lo sappiamo, fidati» le rispose lui, strizzandole l’occhio. «Guarda è arrivata l’altra metro... ed è vuota!»

Dopo un interminabile corridoio scuro, uno scorcio di Piazza di Spagna le si aprì davanti in tutta la sua luminosità e Aida si fermò, colpita in pieno dal sole mattutino che la invitava ad esplorare quel luogo nuovo. Il perimetro poligonale era chiuso da una cinta di palazzi d’epoca che ospitavano negozi e boutique, intervallati da sbocchi che si aprivano sulle note stradicciole mondane. Nel bel mezzo dello spiazzo, circondata dai primi venditori di caldarroste e dai vetturini pronti a portare a spasso i turisti, la Barcaccia zampillava gaia, mentre, ai suoi lati, residenti e villeggianti animavano la Scalinata di Trinità dei Monti.
«Non riesco a crederci... è tutto come deve essere! Ogni cosa è al suo posto!» esclamò, contenta.
«Ti piace?» le domandò il ragazzo, compiaciuto dal suo entusiasmo, rendendosi conto per la prima volta di quali fossero le vere bellezze della sua città, fino a quel momento a lui estranee. Quella giovane era il suo ponte con la realtà, con la vita vera. Per Giancarlo, infatti, Piazza di Spagna era sempre stata associata unicamente allo shopping con le sue frivole ragazze, invece, quella mattina d’ottobre, aveva appena scoperto quanto potesse essere più interessante la contemplazione delle opere d’arte, in compagnia di chi potesse davvero spiegarne il significato.
All’improvviso, però, la fanciulla si fermò, seria ed il sorriso sul volto dei lui morì all’istante.
«Aida, cosa c’è che non va?» le chiese, preoccupato.
«Devo sembrarti davvero una scolaretta in gita scolastica o, peggio, una che ha imparato a memoria la lezione e vuole mostrare tutto il suo sapere» mormorò lei, abbassando lo sguardo.
«Non è vero. Anzi, mi fa piacere sapere che apprezzi i nostri beni artistici e che li hai studiati con impegno» le rispose subito Giancarlo, rassicurante.
Allora, la ragazza si riappropriò della sua aria allegra e riprese ad ammirare ogni singolo mattone della piazza.
«Comunque, questa è solo una tappa» le rivelò tutto d’un tratto il biondo, quando, finalmente, si incamminarono.
In risposta, Aida sospirò divertita: «Ancora sorprese?»
«Ovviamente. Vedi, in realtà...»
Tuttavia, il ragazzo non arrivò mai a completare la frase, perché una ragazza bionda alquanto disattenta e in precario equilibrio sui suoi vertiginosi tacchi, si scontrò con Aida, rovinandole disastrosamente addosso. 
«Oh, no! Aida, stai bene?» chiese subito il giovane, allarmato, precipitandosi da lei.
«A dirla tutta, stavo meglio prima» rispose quella, un po’ dolorante.
«Riesci ad alzarti? Aspetta, dammi la mano, ti aiuto io» fece poi, premuroso, mentre l’agevolava nel rimettersi in piedi.
Contemporaneamente, un’altra ragazza mora era corsa ad aiutare la sua amica e, quando anche l’altra si fu rialzata, una delle due starnazzò: «Gianni!»
Freddato da quella voce
ben nota, il giovane si distrasse immediatamente dalla fanciulla e si fermò, come se un ricordo molto lontano e, soprattutto, molto spiacevole stesse riemergendo dalla sua memoria. Poi, si voltò lentamente, sgomento.
«No, voi no. Tutte, ma voi no!» esalò, orripilato. Aida lo fissò stranita, non capendo il motivo di quella reazione e avrebbe voluto chiedergli spiegazioni, ma non ne ebbe modo, poiché, in quel momento, giunse una terza persona, un ragazzo alto con i capelli castani, leggermente mossi e molto curati, il fisico prestante e un’espressione accesa, come se fosse dio della guerra in persona.
«Allora sei vivo! Ti avevamo dato per disperso!» esordì il nuovo venuto, sarcastico.
Nel guardarlo meglio, Aida notò, rabbrividendo, che i suoi occhi, tra il verde e l’azzurro, brillavano di luce maligna e sinistra.
«Ho avuto parecchie cose da fare» replicò Giancarlo, asciutto, rivolgendosi direttamente al giovane.
«Cose da fare? Tu?» domandò l’altro, falsamente stupito. «Per esempio, Gianni...?»
«Cose mie che non ti riguardano, Massimo».
“Massimo! È Massimo Colonna!” pensò subito la fanciulla, ricordando i racconti del biondo. “Quindi, le due ragazze devono essere... Rosetta e Bianca!”
Aida, allora, si dedicò ad osservarle più attentamente e, davanti ai loro abiti succinti
che lasciavano davvero poco all’immaginazione, si ritrovò ad alzare un sopracciglio: anche se pensava che le donne dovessero sentirsi libere di indossare ciò che volevano, in quel caso vide solo un’evidente mancanza di buongusto, ma, forse, ad irritarla ancora di più erano i sorrisi lascivi e le occhiate languide che stavano rivolgendo al suo Giancarlo. 
«Sono mesi che non ti fai sentire! Cosa c’è, non ti piacciamo più?» cinguettò Bianca, sbattendo voluttuosamente le ciglia.
In risposta, il ragazzo fece tre passi indietro, sentendo la nausea che saliva violentemente. Rivedendo quelle due dopo essersi disintossicato dalla loro compagnia, si rese conto di essere stato davvero un imbecille a restare succube delle loro trame per tanto tempo.
«Potresti farti perdonare facendoci qualche bel regalo» miagolò, invece, Rosetta, speranzosa, che, avendo riacquistato l’equilibrio, veleggiò verso di lui. «Massimo ha organizzato per stasera una festa sul suo panfilo attraccato ad Anzio. Potresti venire con noi, stavamo proprio andando a comprare un vestito per l’occasione».
Tutte quelle confidenze e l’eccessiva vicinanza di lei al suo Giancarlo erano davvero troppe per i gusti di Aida, che fremette di rabbia: il suo passato era stato sepolto da tempo e quella gatta morta non avrebbe potuto vantare più alcun diritto su di lui, anche se, a giudicare dalle movenze con cui la ragazza stava cercando di appoggiargli la mano sul petto, doveva pensare il contrario.
Al limite della sopportazione, la giovane stava quasi per gridarle di non toccarlo, quando lui l’anticipò, scansandosi bruscamente e troncando di metto quel tentativo di approccio.
«Io con voi non vengo proprio da nessuna parte» le rispose, algido e distaccato. «E aggiungo che non me ne frega niente di ciò che fate».
La sua molestatrice rimase piuttosto interdetta da quella reazione e altrettanto fecero la sua amica e Massimo, il quale gli lanciò uno sguardo indagatore, mentre una sottile ruga gli increspava la fronte abbronzata.
«Di’ un po’, Tornatore» cominciò, contraendo le labbra in una smorfia beffarda, «si dice in giro che ti sei messo a sbavare dietro ad una piccola stracciona, è vero?»
Giancarlo, che già non ne poteva più da parecchio, fu sul punto di rispondergli come meritava, quando un’altrettanto satura ed indignata Aida lo precedette.
«Io non sono una piccola stracciona!» sbottò, incollerita.
Richiamati da quell’intromissione, i tre girarono contemporaneamente la testa verso la fanciulla e fecero lo sforzo di accorgersi di lei.
«Non mi dire, te la fai con la cameriera! Per una volta, te ne è capitata tra le mani una giovane e non hai certo perso tempo. Eppure avresti potuto scegliere meglio, siete andati in bancarotta, forse?» chiese Massimo, sogghignando incredulo. «Non avete più i soldi necessari per permettervi personale nostrano, così dovete elemosinare servitù tra i selvaggi?»
Quell’affronto, però, non fece altro che esacerbare la già aspra contesa tra il belligerante Marte e il luminoso Apollo, il quale non poteva sopportare che la sua musa venisse offesa in maniera tanto ignobile.
Infatti, al giovane non era sfuggita la reazione di Aida a quelle parole: aveva spalancato gli occhi ed era ammutolita, sconcertata da tanta cattiveria. Giancarlo, invece, aveva assottigliato lo sguardo, avvertendo il forte desiderio di ridurre l’altro in fin di vita, per poi lasciarlo a marcire, agonizzante, immerso nel bagno dei propri fluidi. 
«Oh, sì che è vero: le sbavo dietro senza ritegno» disse lui, allora,
circondando con un braccio la vita di lei e stringendola a sé con fare protettivo. «E, comunque, non è la mia cameriera... Aida sarà la mia futura moglie, se lo vorrà». 
A quell’aperta dichiarazione, Rosetta e Bianca sgranarono tanto d’occhi, esterrefatte, rivolgendo alla fanciulla sguardi scettici e malevoli, mentre Massimo si mostrò repellente alla sola idea.
«Io non la toccherei nemmeno con un dito, non vorrei sporcarmi» affermò, contraendo le labbra come se fosse sul punto di rimettere. «Tornatore, sei proprio caduto in basso, sai? Esattamente come tua cugina, che ha preferito uno svenevole damerino francese ad un vero uomo come me!»
«Sapendo come l’hai trattata, dovresti solo tacere. E, comunque, Olivier vale molto più di te».
«Mi stai facendo la predica, per caso? Be’, sei patetico» disse con cattiveria, indicando Aida con il capo. «Cosa credi, io e te non siamo molto diversi, infatti, sappiamo benissimo entrambi cosa farai con la tua piccola e sudicia africana: la rimanderai indietro non appena te la sarai scopata a sazietà, togliendoti lo sfizio dell’esotico. Sempre che una tale ragazzina inibita sia in grado di darti un po’ di soddisfazione, ovviamente» sottolineò alla fine, suscitando una risata maligna da parte delle sue accompagnatrici.
A quel punto, Aida trattenne il fiato, paralizzata, mentre Giancarlo sentì il sangue schizzargli al cervello e i globuli rossi pronti ad evaporare. Nonostante l’istinto primario fosse quello di ridurre in coriandoli Massimo Colonna, dovette convenire che non aveva né tempo, né voglia di fare un andare a trovare l’anziano vice-questore Molinari, a cui aveva promesso che avrebbe rigato dritto. Inoltre, Aida non meritava ulteriori umiliazioni e traumi, ma, in ogni caso, non sarebbe certo restato a guardare mentre veniva insultata.
«Non osare rivolgerti a lei in questo modo, lurido bastardo razzista!» ringhiò, infatti, mordendo ogni parola. «Lavati la bocca prima di nominarla. Tu ce l’hai con me, perciò Aida lasciala fuori!»
Non gradendo quell’attacco, l’altro gli rivolse uno sguardo ferino e, digrignando i denti, replicò: «Oh, che paura, il biondino alza la cresta. Cerchi rogne, Tornatore, per caso?»
«No, ho finito di essere il tuo compagno di giochi, vai a cercarti qualcun altro, magari al prossimo rave party. Ah, dimenticavo, non puoi: tuo padre non è più pronto a venirti a tirare fuori dai guai» fece Giancarlo, beffardo.
«Tornatore, non scherzare con il fuoco» gli sibilò il rivale.
«Colonna, di’ al tale che ti scrive le battute di metterci più fantasia, perché stai diventando monotono» rincarò, invece, il ragazzo. «Dopo lo scandalo di luglio, non sei più nessuno, le tue minacce non sono più credibili. E, per quanto possiamo essere uguali, sei tu quello che è rimasto a sbattersi le mignotte. Perciò, buona serata e ricordate... le foto del post-sbornia in prima pagina non vi rendono giustizia».
Le due ragazze, senza un adeguato supporto di materia grigia, non ebbero parole per ribattere e Massimo, anche lui zittito dall’arguzia, non fu abbastanza rapido nel rimediare un altro insulto da rivolgere a Giancarlo o Aida, ché già il giovane aveva trascinato la fanciulla lontano da quello sconcio.
Tuttavia, i due avevano appena girato l’angolo del corridoio che portava alla metro, quando lei si impuntò e non volle proseguire.
«Aida, che cosa c’è?» domandò, allora, il biondo fissandola preoccupato. Quella, però, non rispose, limitandosi a tenere lo sguardo in basso.
«Mi dispiace, non avrei mai voluto che ti offendessero in quel modo vergognoso. La colpa è solo mia e di quello che sono stato, avrei dovuto immaginare che sarebbero stati in zona... ti chiedo scusa».
La fanciulla, però, continuò a tacere, immobile, e Giancarlo sospirò, affranto e mortificato per quanto era accaduto.
«Grazie per quello che hai detto poco fa» sussurrò all’improvviso Aida, restando a testa bassa.
Distolto dai suoi pensieri, che gravitavano principalmente su come presentare il conto a quel maledetto, il giovane rimase fermo per qualche istante, per poi prenderla per le spalle e costringerla a guardarlo negli occhi.
«Avrei voluto solo fare di più, ma non è certo rompendogli tutte le ossa che Colonna cambierà la sua mente deviata» sospirò, accarezzandole una guancia. «Aida... non permettere che quella gentaccia ti faccia sentire inferiore, perché non è vero. Tu sei al di sopra di tutte quelle meschinità» aggiunse.
Lei, allora, lo scrutò con aria mesta e sofferente. Esitò qualche secondo e poi disse: «Giancarlo, posso chiederti una cosa?»
«Tutto quello che vuoi».
«Magari questa volta ti sembrerò davvero una bambina piccola, ma... non mi importa. Potresti... abbracciarmi?»
Il tono dolce e malinconico con cui Aida glielo aveva chiesto, gli fece talmente stringere il cuore che, senza indugiare oltre, il ragazzo le rispose, sorridendole con tenerezza: «Ma certo, vieni qui». 
La cinse delicatamente e lei ricambiò la stretta, serrando le mani intorno alla stoffa della sua polo e chiudendo gli occhi. Il petto del giovane, caldo ed intriso del suo profumo agli agrumi così gradevolmente asprigno, e le sue carezze furono per lei il miglior balsamo al suo dolore.
Mentre era concentrata su tutto quello nel tentativo di dimenticare la brutta avventura, però, le parve di udire qualcosa che non si sarebbe mai aspettata. 
«Nessuno deve permettersi di renderti triste, amore mio».
Sorpresa, la fanciulla si staccò all’istante, guardando Giancarlo a bocca aperta, chiedendosi se aveva solo immaginato - e desiderato - che lui avesse pronunciato quelle parole o, se lo aveva fatto davvero.
«Come, scusa? Che cosa hai detto?»
«Io? Niente» rispose l’altro, scrollando le spalle. «Non ho aperto bocca».
Perplessa, Aida inclinò la testa da un lato; stava per ribattere che era quasi certa che non fosse proprio così, quando lui la precedette: «Mi dispiace solo che non siamo arrivati a vedere il Collegio di Propaganda Fide, perché stavamo andando proprio lì».
«Davvero?» domandò lei, piacevolmente sorpresa, lasciando cadere l’argomento.
«Già, vorrà dire che sarà per un’altra volta» sospirò lui. Poi, la guardò e, sorridendo, la prese per mano. «Dai, vieni con me, c’é un’altra cosa che devi assolutamente vedere!» 

Svoltato l’ultimo angolo, l’articolato complesso della Fontana di Trevi, nell’immaginario collettivo la fontana per eccellenza, apparve in tutta la sua indiscussa maestosità. La piazza omonima in cui si trovava era, puntualmente, gremita di villeggianti giunti da ogni dove solo per rendere omaggio alla famosa opera d’arte.
Giancarlo e Aida, quindi, dovettero farsi cautamente largo tra la folla, ma, alla fine, riuscirono a raggiungere e scendere le scalette, per trovarsi all’ombra di Palazzo Poli e godere della vista su quel connubio di acqua e marmi.
«Venire a Roma e non passare di qui sarebbe stato un autentico reato» commentò il giovane, mentre le mostrava la composizione barocca, al centro della quale dominava l’imponente statua di Oceano.
«Eccezionale!» esclamò lei, con gli occhi pieni di meraviglia, del tutto ripresasi dalla terribile esperienza di poco prima.
Nonostante ci fosse il discreto scrosciare dei getti d’acqua, il vociare concitato dei turisti e gli schiamazzi gioiosi dei bambini, ad entrambi i giovani sembrò di non essersi mai trovati in un luogo più tranquillo di quello.
«Un pezzo forte della Roma barocca» osservò Aida, voltandosi in direzione del biondo, che non perse tempo per darle qualche informazione storica in più.
«Sì, l’ultimo progetto risale al 1731 e a Clemente XII. Sai, il bando di concorso, per la realizzazione dell’intero complesso venne vinto dal progetto di Nicola Salvi, che è anche...»
«... colui che ha partecipato all’appalto per la Scalinata di Trinità dei Monti» completò la ragazza sottovoce, senza rendersene nemmeno conto.
Immediatamente, il biondo si voltò e la guardò, increspando le labbra e inarcando un sopracciglio.
«Uh? Ehm, scusa» si affrettò a dire lei, ritornando bruscamente alla realtà e realizzando di averlo interrotto.
Giancarlo, però, non si mostrò particolarmente offeso, anzi, colse al volo l’occasione per avvicinarsi a lei con un sorrisetto furbo stampato sulle labbra.
«Bene, bene, vedo che siamo informate».
Aida ridacchiò e decise di replicare scimmiottando una frase che lui stesso una volta aveva rivolto a Samir: «Ragazzino, tu non sai chi hai davanti! Io studio Belle Arti e Franco sapeva tutto del barocco romano!» 
«Ah, adesso prendiamo anche in giro?» fece Giancarlo, puntandosi le mani sui fianchi e guardandola ridere, beandosi di ogni piccolo particolare, anche del modo meraviglioso in cui dondolavano i suoi pendenti stellati, ogni volta che scuoteva il capo.
«Vieni qua, signorina So-Tutto-Io!» la richiamò, allora, prendendola per un braccio e tirandola a sé.
La fanciulla avrebbe giurato che si sarebbe vendicato con il solletico o qualcosa di simile, invece lui si limitò a passarle un braccio intorno alla vita, finché non si ritrovarono guancia contro guancia, e lei a quel punto ne approfittò per lasciarsi ubriacare ancora un po’ dal calore della sua pelle e dal suo profumo.
«Adesso le cose si fanno interessanti» annunciò solennemente il giovane, frugandosi in tasca ed estraendone qualcosa che, poi, depositò nel palmo della fanciulla: era un dischetto dorato cerchiato d’argento.
«Perché mi hai dato questa monetina?» gli chiese quella, riprendendosi dal piacevole stordimento in cui era caduta.
«Perché l’usanza comune vuole che, se lanci una moneta in questa fontana, il tuo ritorno a Roma è assicurato» le spiegò, enfatico.
Aida guardò accigliata prima lui e poi quel pezzetto di metallo bicolore, rigirandoselo in mano.
«Chi è questo?» chiese, indicando il profilo dell’uomo cinto di lauro impresso su una delle facce.
«Quello è Dante Alighieri, il nostro più grande poeta» le rispose Giancarlo. «Dai, lancia questi due euro e basta!»
«D-Due euro? Ma non sono un po’ troppi da lanciare in una fontana?» domandò la giovane, leggermente sconvolta.
«Se fossi sicuro che funzioni, stai tranquilla che ti ci farei buttare anche due milioni» replicò lui, sicuro.
In risposta, la ragazza sospirò, imbarazzata: «Il solito esagerato... anche se, sai, credo che sia un po’ inutile lanciare questa moneta».
«E perché mai?» chiese l’altro, preoccupato e leggermente allarmato.
Notando la sua reazione, la fanciulla dispiegò le labbra in un dolce sorriso e gli spiegò: «Perché il mio nome, nell’interpretazione che mi piace di più, significa visitatrice oppure colei che torna5».
Allora, i due si guardarono per un attimo; poi, l’espressione del ragazzo tornò serena.
«Oh, va bene. Tuttavia, per stare sicuri, lo facciamo lo stesso, d’accordo? Avanti, fammi vedere se sei in grado di lanciarla».
«Ma è una monetina, Giancarlo, non un beyblade! Non serve chissà che tecnica di lancio!» tentò di protestare Aida, scoppiando a ridere e tirando indietro il braccio.
«No, no! Non così!» la fermò, prendendola delicatamente per i fianchi e girandola, affinché desse le spalle alla fontana. Quindi spiegò: «Non sarà un beyblade, ma la tradizione vuole che il lancio venga effettuato all’indietro per avere il risultato sperato!»
Allora, Aida lasciò che lui la sfiorasse per guidarla e sistemarla nella giusta posizione, poi prese la spinta ed effettuò il lancio.
Un luccichio metallico descrisse un arco parabolico, rimase un poco in sospeso ed, infine, sparì tra le increspature dell’acqua.
***

Le luci dei lampioni, risvegliatesi al calar del crepuscolo, illuminavano le rive del Tevere; tenui bagliori si rifrangevano sulla leggerissima coltre d’umidità rappresa che avvolgeva l’Isola Tiberina e il suo ospedale, i quali parevano ergersi da soli tra le acque, quasi fossero solo una surreale apparizione.
Dopo aver fatto qualche altro giro, che aveva incluso Piazza del Popolo e Via del Corso, ed essere tornati a Villa Aurelia per cambiarsi, i ragazzi erano usciti di nuovo. Per nulla al mondo, infatti, Giancarlo avrebbe rinunciato a portare Aida a fare una passeggiata serale sul Lungotevere.
«Allora, che te ne pare? Certo, non sarà il Nilo, ma anche il nostro fiume ha il suo fascino» constatò il ragazzo, fermandosi e appoggiando i gomiti sul muricciolo dell’argine, sovrastato da una lunga fila di ippocastani. In lontananza, si udiva il suono attenuato di un violino: probabilmente, all’estremità opposta del ponte, doveva esserci un artista di strada tiratardi.
«Io lo trovo molto tranquillo e rilassante» rispose la fanciulla, fermandosi accanto a lui, per guardarsi attentamente intorno. «È un bel posto dove venire a passeggiare, soprattutto in serate miti come questa».
Il giovane, allora, la osservò a lungo in silenzio, sentendosi invadere dalla sua grazia, così profonda da togliergli il fiato. Se fosse stato per lui non avrebbe mai smesso di contemplare la sua figura minuta, coperta da un leggero vestitino portato senza malizia, o i suoi capelli, raccolti in una coda di lato, che le lasciava scoperto il collo.

«Sono contento che ti piaccia. In questi giorni stai vedendo davvero poco, so che ci sono tante altre cose che dovresti visitare e, magari, potremo pensarci quando tornerai la prossima volta» fece il biondo, lanciando l’amo.
«Quindi, secondo te, risponderò positivamente alla tua domanda e tornerò» rispose pronta Aida. «Come fai ad esserne così sicuro?»
«Perché ho fiducia nelle monetine di Trevi e perchè, come hai detto tu, il significato del tuo nome parla chiaro» ribatté lui, sornione.
«Be’, questo, signor Tornatore, le dice solo che tornerò a Roma, non che tornerò da lei e che accetterò la sua proposta» gli fece, però, notare la fanciulla in tono scherzoso, restando sulle sue. «Le dirò, la sua corte sta lasciando un po’ a desiderare. Se vuole ottenere qualcosa, dovrebbe essere più convincente».
Raccogliendo la provocazione, il ragazzo s’inumidì le labbra con la lingua, scoccandole un’occhiata eloquente: «Hai suggerimenti da proporre in merito, biscottino?»
«La sua richiesta mi stupisce, poiché mi hanno riferito delle sue doti di gran seduttore. Dovrebbe sapere come ammaliare una donna, non trova?» notò la giovane, ridendo, non curandosi del fatto che il suo cardigan era sceso ancora di più, lasciandole le spalle completamente scoperte.
Giancarlo, allora, alzò un sopracciglio, mentre, interessato, si lisciava il mento con il dorso della mano: era proprio quell’ingenua vivacità d’intelletto e di atteggiamenti che gli aveva fatto perdere la testa per lei, provocandogli quello sconvolgimento interiore e che risvegliava le sue pulsioni. Si sentiva irrimediabilmente attratto da quella ragazza così spontanea, anche se aveva sempre cercato di moderarsi negli approcci con i quali le si rivolgeva... perlomeno fino a quel momento.
Infatti, dopo qualche secondo, si avvicinò alla fanciulla con lentezza studiata, mettendosi davanti a lei. Immediatamente, Aida smise di ridere, richiamata dalla vicinanza di lui; era buio, ma, sostanzialmente, si trovavano a tiro di lampione, così riuscì a notare che il biondo la stava fissando con aria seria, offrendole uno sguardo passionalmente intenso che non le aveva mai rivolto prima. In quel momento, lui la bloccò, poggiando le mani sul corrimano in marmo, ai suoi lati prima di avvicinarsi, mentre lei deglutiva, incapace di muoversi.
«In realtà, devo scoprire ancora alcune delle mie carte, perché non c’è gusto a mostrarle tutte al primo giro» le sussurrò in un orecchio, con voce suadente e vibrante. «E, se mi vuoi più focoso, non hai che da chiedere, fiorellino».
Quindi, sorridendole maliziosamente, si staccò e si andò a sedere nel punto più basso del parapetto, a pochi passi di distanza da lei. Aida rabbrividì, riflettendo sul fatto che non si era mai confrontata con il Giancarlo latin lover passionale, dato che il giovane non le aveva mai concesso l’opportunità di incontrarlo. Aveva avuto esperienza del latin lover gentile, ovviamente, ma era una cosa diversa, pertanto ora voleva conoscere quel suo aspetto di cui aveva solo sentito parlare, così, alla fine, fu la curiosità a prevalere sull’imbarazzo.
Decisa, la giovane accorciò la distanza che la separava da lui e poi si fermò; stava per dire qualcosa, quando si sentì prendere per una mano e trascinare via, ma senza violenza. In men che non si dica, si sorprese seduta sulle sue ginocchia.
«Comoda?» le chiese, a quel punto, il giovane senza scomporsi, circuendola con le braccia.
«Tutto qui? Spero che questa non sia la scala reale» gli rispose la fanciulla, sorprendentemente tranquilla.
In risposta, Giancarlo socchiuse gli occhi, increspando le labbra, sorpreso da una frecciatina così pungente da parte di lei.
«Non ti facevo così esigente, gioia mia. Quella era una carta isolata, ma, adesso, vediamo di alzare un po’ la posta, visto che non è da me lasciare insoddisfatta una ragazza».
Batté, quindi, un leggero colpo in su con il ginocchio e lei, colta alla sprovvista, gli finì addosso; lui, però, la sistemò subito meglio, facendosela scivolare contro, sfilandole la borsetta dalla mano e appoggiandola accanto a loro. Poi, le accarezzò la coscia, senza spingersi oltre l’orlo dell’abito, e proseguì lungo il fianco; le sfregò con dolcezza un braccio e risalì fin sopra la spalla, prima di scendere con discreta rapidità, abbassandole la spallina del vestito e sfiorandole la pelle nuda.
Avvertì che Aida sotto il suo tocco aveva sussultato, senza ritrarsi, ma si fermò comunque per qualche istante. Non voleva essere indelicato, turpe o, ancora, libidinoso e non aveva nessuna intenzione di offenderla, solo dimostrarle anche fisicamente cosa provasse per lei. Sapeva di essere il primo uomo a toccarla in quel modo e, mentre esercitava su di lei quel contatto, giurò a se stesso che avrebbe fatto di tutto per restare anche l’ultimo.
«Ti è piaciuto il mio tris, zucchero?» le fece piano, sempre con la stessa voce vibrante, continuando ad accarezzarla.
«Non male, per essere un giocatore fuori esercizio... ma io non sono ancora convinta» ribatté, però, l’altra, flemmatica e definitivamente sciolta, fiduciosamente abbandonata a lui. 
«Stai facendo una puntata molto alta, gioia» le mormorò, piegando le labbra in un sorriso molto sensuale, «e devi accettare i rischi che questo comporta».
Poi, le sciolse i capelli lisci e setosi, facendoseli scorrere tra le dita, prima di stringerla ancora di più, avvertendo su di sé le sue curve appena accennate. Allora, incominciò ad accarezzarle la schiena, regalandole al contempo una profusione di piccoli, lenti, baci sul collo e sulla spalla denudata, baci dati a labbra appena schiuse, talvolta leccandole anche lievemente la pelle esalante quel balsamico aroma di mirra. Senza alcuna traccia di insistenza o volgarità n
ei suoi gesti.
Giancarlo era l’Eros, l’impulso vitale, l’istinto della passione, l’impeto travolgente alla perpetua ricerca del suo complemento, qual era appunto Aida, l’Agape6, l’amore puro, incondizionato e disinteressato. Dopo tanto peregrinare aveva infine trovato ciò che cercava: il suo equilibrio, la sua serenità.
«Giancarlo, siamo in strada. Potrebbe passare...» gemette flebilmente a quel punto Aida, scossa da brividi di piacere, con quel poco di lucidità che le rimaneva.
«Qualcuno? E tu lascialo passare... lascia che ci veda... che ci guardi... che invidi la mia fortuna fino a schiattare...» rispose lui con un sussurro, senza smettere di lambirle il collo. Ormai era arrivato quasi a toccare le tiepide labbra di Aida con le proprie. Cosa avrebbe dato per poterle baciare subito, peccato che non potesse farlo, non ancora... 
Improvvisamente, la ragazza aprì di scatto gli occhi, stordita ed incredula: il biondo l’aveva rimessa in piedi ed ora la guardava tra l’intrigato e il compiaciuto con la testa inclinata da un lato, stropicciandosi una guancia con una mano e tenendo l’altra nella tasca dei jeans. Istintivamente, si portò le punte delle dita sul naso, dove le aveva appena dato un colpetto con l’indice.
«L’esibizione dimostrativa finisce qui» le disse, tranquillo. «Penso che il gran seduttore tu lo abbia conosciuto abbastanza, per oggi».
Ancora piuttosto confusa, la ragazza deglutì e si riassestò capelli ed abiti, mentre prendeva coscienza di quanto accaduto e, imbarazzata, evitava di guardarlo negli occhi.
«Be’, devo dire che hai stile» ammise, in un ultimo guizzo d’intraprendenza, scrutandolo da sotto la cortina di capelli corvini.
«Lusingato dal complimento, gioia» rispose Giancarlo,
stiracchiando le labbra in un sorriso d’amara ironia.
«E perché... perché ti sei fermato?» domandò Aida, riuscendo finalmente ad alzare il capo.
«Perché ho promesso a tuo fratello e a mio padre che avrei fatto il bravo. Credo che abbiano la mano piuttosto pesante» spiegò facendo una piccola smorfia. «Soprattutto, però, mi piacerebbe che che tu accettassi di baciarmi e diventare la mia ragazza perché lo vuoi veramente e non perché soggiogata da infimi espedienti. Per una volta, vorrei essermi guadagnato qualcosa in maniera legittima».
«E se dovessi dirti di no? Io ho bisogno di sapere la verità: pensi che potremmo rimanere comunque amici?» gli chiese, osservandolo attentamente.
Messo di fronte un tale bivio, il giovane spaziò la vista sul fiume, che tranquillo continuava a scorrere lungo il suo corso. La luna si rifletteva beata sulla sua superficie, spezzettando la sua immagine in multipli bagliori; il muto e impenetrabile dialogo della natura faceva da sottofondo al silenzio nel quale si era chiuso il ragazzo.
Aida non avrebbe potuto fargli domanda più semplice e al tempo stesso più difficile di quella.
«Non prendiamoci in giro, sai benissimo che non potrei mai vederti come una semplice amica. Aida, se non te fossi accorta, io sono stra-cotto di te. Sono innamorato della tua dolcezza, del tuo carattere e del tuo essere bella con semplicità».
Giancarlo aveva notato che la ragazza era trasalita a quelle parole, ma decise comunque di proseguire: «Ciononostante, se questa dovesse essere la tua volontà, mi sforzerò di accettarla. Mi dispiacerebbe non vedere più te e il piccolo Samir. Forse voi non avete bisogno di me, ma io sì».
L’aria si era improvvisamente saturata, divenendo pesante e opprimente. I due giovani si guardavano, mesti e anche il violino aveva smesso di suonare. Alla fine, Aida emise un sospiro lungo e carico di dolore.
«Allora, credo di poterti dire già ora quale sarà la mia risposta».
Il ragazzo, però, scosse la testa e le poggiò un dito sulle labbra tiepide.
«No, dimmela domani, ti prego. C’è ancora una lunga giornata davanti a noi, l’ultima che passerai con me. Ci sarà tempo per ogni cosa... concedimi questo mio capriccio finale, te ne supplico».
Aida gli rivolse un’occhiata triste e sofferente, quindi annuì. Il ragazzo, di umore non dissimile, le offrì il proprio braccio, riconsegnandole la borsetta e consentendole di stringersi a lui, così da nascondere il viso nella manica del suo blazer.
«Andiamo, sarà il caso che ti porti a riposare. Come diciamo noi, s’è fatta ’na certa» mormorò, lentamente.
In risposta, però, ottenne solo lo sciabordio del Tevere.
***

Marcello Tornatore marciava verso gli appartamenti del figlio. Un cupo presentimento lo aveva strappato al sonno nelle prime ore del mattino ed essendo una di quelle persone che preferiscono togliersi subito ogni dubbio, non aveva perso tempo a rimuginarci oltre.
Giunto davanti alla porta, l’aprì ed entrò senza nemmeno bussare, giacché, dentro di sé, sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno. Attraversò una ad una tutte le stanze, diretto verso quella in cui Giancarlo dormiva e, nei pressi del battente chiuso, esitò un attimo, ma poi, scuotendo il capo, procedette, trovando l’ambiente immerso in una rarefatta atmosfera dai toni perlacei, le cortine aperte e nessun oggetto d’arredo fuori posto, come se Annetta ne fosse appena uscita.
Davanti a tutte quelle prove che, quella notte, la camera non era stata abitata, l’uomo rimase immobile, la sua falsa tranquillità tradita dalla vena pulsante sulla tempia sinistra e dalle nocche bianche, poiché non tollerava che gliela si facesse sotto il naso, né si disubbidisse ad un suo ordine. Ma, sopra ogni cosa, non sopportava il disonore.
Quella ragazza era sotto la sua responsabilità: era poco più di una bambina, proveniva da una cultura diversa, aveva una situazione familiare non proprio facile e non era una svergognata, pertanto quel disgraziato di suo figlio non avrebbe dovuto permettersi neanche di immaginare di toccarla. 
Uscendo da quella stanza come una furia, Marcello, perciò, aveva in mente un unico, ossessivo pensiero: quella volta, Giancarlo non l’avrebbe passata liscia.

Il riverbero del primo sole aveva sfidato l’esiguo spessore delle tende di seta velata e filtrava, indisturbato, nella camera.
Stesi sul letto, l’un allacciato all’altra, dormivano entrambi con un’espressione di pura serenità dipinta sul viso. Avevano ancora indosso gli abiti della sera precedente, sebbene dignitosamente scomposti dal sonno, e le giacche ordinatamente sistemate accanto a loro.
Aida riposava con la testa appena poggiata sul petto di lui, cingendogli morbidamente il torace con un braccio, mentre Giancarlo, che aveva una guancia sconfinante sui soffici capelli di lei, teneva ancora una ciocca arrotolata intorno all’indice: probabilmente, il torpore doveva averlo colto mentre ci stava giocherellando. Con l’altro braccio, la teneva per la vita, in maniera salda e delicata allo stesso tempo, come se temesse che qualcuno potesse portargliela via.
Sentendosi in colpa per aver dubitato, facendo prevalere la sua caratteristica diffidenza, l’uomo rimase a guardarli per qualche secondo, ritto, in piedi nella penombra della camera, non volendo profanare oltre quel momento di profonda intimità. Forse, avrebbe dovuto cominciare a nutrire più fiducia nel figlio e convincersi finalmente di una cosa: Giancarlo non era Guido.
Muovendosi lentamente, uscì richiudendosi l’anta di mogano alle spalle, mentre un solco curvilineo gli segnava le labbra.
***

Aida aprì gli occhi, chiedendosi se il tonfo di una porta che si chiudeva fosse reale o appartenente ai suoi sogni, impiegando qualche secondo per capire dove si trovava. Man mano che trascorrevano i secondi, cominciarono a riaffiorarle in mente i ricordi del giorno prima: sulla cassettiera c’erano ancora i vasi dei girasoli e degli ibiscus, belli e freschi come quando li aveva trovati.
Poi, si girò da un lato e, guardando Giancarlo, non poté fare a meno di sorridere, realizzando di essersi addormentata tra le sue braccia e, quindi, di averlo convinto, con la sua timida proposta, a restare a dormire con lei.

V-Vuoi che io dorma con... te? Intendi noi d-due insieme nel tuo... tuo...
Noi due, insieme, nel mio letto.
Ti fidi di me fino a tal punto?
.

Completamente ridestata, la fanciulla si tirò su e, attenta a non svegliarlo, si alzò per andare a prepararsi.
Quando fu di ritorno, notò che il ragazzo dormiva ancora, così ne approfittò e si risistemò accanto a lui, in modo da poter restare a guardarlo un po’, mentre gli spostava dal viso una ciocca della frangia bionda e ribelle e gli accarezzava una guancia. Jamila aveva proprio ragione: visto da vicino era ancora più carino, anche se la sua amica non sembrava comprendere le difficoltà che aveva lei nell’avvicinarsi a lui, a causa del suo grande senso del pudore.
Nel notare che la camicia bianca, discinta, le lasciava intravedere il petto glabro e vigoroso, che si alzava e abbassava seguendo i movimenti regolari della respirazione, la ragazza si ritrovò ad avvampare, imbarazzata, ripensando a quando, il giorno precedente, quando lui l’aveva stretta in più di un’occasione, stordendola con il suo calore e con il suo profumo.
Era sempre il ragazzo a prendere l’iniziativa, mentre lei faticava ancora a lasciarsi andare completamente, sentendosi imbranata ed infantile. D’altra parte, se si era fermato, sul ponte, era solo perché non aveva voluto metterla in difficoltà, dimostrando, ancora una volta, molta pazienza, nell’assecondare le sue paure e renderle tutto più facile.
Già da tempo non aveva più dubbi sull’essersene profondamente innamorata, incapace di opporsi al sentimento che cresceva, sempre più forte dentro di lei per quel ragazzo tanto particolare che rappresentava in carne ed ossa la sua idea dell’amore.
A frenarla, però, era la consapevolezza del fatto che stare insieme non sarebbe stato facile, a causa delle difficoltà e degli sforzi che avrebbero dovuto affrontare entrambi prima di dirsi felici. Ci sarebbe voluto del tempo ed era ciò che Aida temeva di più. Che cosa sarebbe successo, durante il periodo in cui sarebbero stati lontani? Giancarlo avrebbe potuto benissimo stancarsi di lei, perchè, in fondo, che a dirlo fossero Bahira e Ghada, Bianca e Rosetta, Massimo o lo stesso Rami, avevano tutti ragione: era solo una ragazzina, una bambinetta insignificante e terribilmente impacciata. Se solo il giovane avesse voluto, infatti, sarebbe bastato uno schiocco di dita per tornare ad essere attorniato da bellezze seducenti ed intraprendenti.
«Quanto ti manca la tua vita di prima?» gli domandò, allora, Aida in un sussurro, continuando ad accarezzarlo delicatamente. «Forse ti sei pentito di aver abbandonato tutto e, magari, preferiresti le attenzioni di qualcuna più diretta e attraente?»
Il giovane, però, non rispose, continuando a dormire tranquillo.
«Potrai mai accontentarti di una ragazzina con ancora tante insicurezze? Non riesco nemmeno a dirti di persona quanto ti voglio bene e so che non sarò come tua madre o a Claudia. Io non ho la loro classe...» proseguì, affranta. «Sai, io non sono una principessa e, sinceramente, non voglio nemmeno diventarlo. Mi piace essere solo Aida, ma non so se, alla lunga, lei potrebbe piacere anche a te».
Allora, la ragazza scese con un dito lungo la guancia di lui e cominciò a segnargli le labbra rosee e morbide, le stesse che, la sera precedente, le avevano baciato il collo con ardente passione ed estremo rispetto.
Da quando lo conosceva, quel giovane non aveva fatto altro che stupirla e, in quel momento, Aida pensò che, per una volta, le sarebbe piaciuto che fosse lei a sorprenderlo. Si era sempre chiesta che sensazione potesse regalare il baciare la persona amata e non voleva perdere quell’occasione, probabilmente, l’unica che le sarebbe capitata per scoprirlo. E poi, il biondo non accennava a volersi destare, quindi non si sarebbe accorto di niente.
«Qualunque sarà la mia risposta, i miei sentimenti per te non cambieranno, perché non possono cambiare. E, per una volta, i ruoli si invertiranno: sarà una ragazza comune a rubarti un bacio, caro casanova Giancarlo Tornatore» gli bisbigliò, sorridendo tra il divertito ed il malinconico. Poi, si fece coraggio e si avvicinò ancora di più, raccogliendosi da una parte i lunghi capelli. «Ana behebak» gli sussurrò, infine, sulle labbra, calde e leggermente salate, mentre una lacrima cadeva su una gota del giovane, rimanendo là rimase, in solitudine, aspettando di evaporare nell’aria.
Aida non c’era già più.
***

Invogliata dall’aria mattutina, estremamente fresca e frizzante, la fanciulla inspirò a fondo, appoggiando le mani sul freddo corrimano in travertino. Il sole appena sorto indorava le cime degli alberi e gli scorci della Capitale, mentre una sinfonia di rintocchi lontani accoglieva il giorno nascente. Per assaporare meglio quello sprazzo di tranquillità, Aida chiuse anche gli occhi, cercando di capire quante fossero le campane che producevano quell’allegro concerto. Una, due, tre, quattro...
«Buongiorno, Aida».
A quel saluto, la ragazza sobbalzò e si voltò di scatto.
«Ah, buongiorno a lei, signor Marcello» rispose, portandosi una mano al petto, sentendo il cuore che le batteva per la sorpresa.
«Sei mattiniera» constatò l’uomo, avvicinandosi. Quando fu arrivato, prese a scrutare l’orizzonte, con le braccia incrociate dietro la schiena.
«Sì» mormorò la ragazza, «sono abituata a svegliarmi presto per sbrigare le faccende e prendermi cura di Samir».
Marcello la guardò e annuì, mentre lei deglutiva, nervosa, pensando che si sentiva sempre in soggezione quando si trovava sola con lui; non tanto perché le incuteva timore, quanto più perché non riusciva a capire se gli fosse veramente simpatica o se lo facesse solo per cortesia. Per fortuna, con Beatrice era tutto più semplice.
«Ti sta piacendo Roma?» si informò poi l’altro, interrompendo il breve silenzio.
«Oh, sì, tanto. Sa, è tutto come l’avevo immaginato e, allo stesso tempo, è meglio di quanto avessi sperato. Anche in Egitto ci sono tante cose antiche da vedere, ma qui è diverso... si entra e si esce dalle varie epoche storiche semplicemente cambiando strada!»
Colpito da quella profonda considerazione, l’uomo inarcò un sopracciglio.
«Vedo che sei molto interessata. Sai, dovresti approfondire il discorso con mia moglie, le daresti molta più soddisfazione di me, che sono un vero ignorante in materia» commentò, scrollando le spalle. «Magari, avrai modo di parlarle proprio questa sera alla festa che darà mio fratello, saresti per lei un’ottima compagnia».
Aida guardò Marcello, sorpresa e stranita.
«Vuole... vuole che venga con voi?»
«Se ti va, perché no?» replicò lui, con noncuranza.
Tuttavia, la ragazza, sempre più sbigottita, scosse nervosamente la testa.
«Oh, no, non potrei mai, visto che sarei in difficoltà dal primo all’ultimo minuto! Io... io non sono abituata a questo genere di cose... E poi, come dotrei presentarmi? Giancarlo ed io siamo... solo... niente. Non siamo niente» constatò, triste.
Dal canto suo, l’uomo non lasciò trapelare alcuna emozione e, osservando un punto imprecisato del giardino, le fece notare: «Curioso come, nonostante non siete niente, dormiate abbracciati nello stesso letto».
A quelle parole, Aida trattenne il fiato, capendo che Marcello sapeva cosa era successo, anche se, a dirla tutta, non sembrava arrabbiato.
«La prego, non se la prenda con Giancarlo, sono io che gli ho chiesto di rimanere con me. Lui non voleva nemmeno!» esclamò immediatamente la giovane.
«Se lo difendi vuol dire che ci tieni a lui, quindi gli stai dando una speranza. E ciò significa che ora non siete niente, ma, in futuro, potreste diventare qualcosa. Aida, se deciderai di sposare mio figlio, dovrai avere a che fare molto spesso con eventi mondani di questo genere. Ne sei consapevole, vero?»
«Sì... ma pensavo che...» sussurrò, angosciata. «Ci sarebbe stato tempo per imparare!»
A quella risposta, inaspettatamente, l’espressione di Marcello si addolcì in maniera repentina.
«Non ti sto dicendo queste cose per metterti a disagio o per allontanarti da lui, ma solo per farti capire che la situazione non sarà affatto semplice».
«Lo so» mormorò lei, inclinando la testa in avanti. «E per questo io non credo di poter essere alla vostra altezza».
A quel punto, l’uomo spostò il capo da un lato, soddisfatto, come se quella fosse stata la risposta che aveva cercato di tirar fuori da Aida sin dall’inizio, l’ultima prova che la ragazza non fosse un’arrampicatrice sociale.
«Aida, Giancarlo ti ha raccontato la storia della nostra famiglia? Intendo quella vera, non le favolette che si inventa lui».
«Mi ha detto che discendete da un’antica stirpe di gladiatori».
«E lo sai chi erano davvero i gladiatori, nell’antica Roma?»
La fanciulla scosse il capo, questa volta più lentamente.
«Schiavi» scandì Marcello, con voce chiara. «Il nostro sangue è quello degli schiavi e dei prigionieri di guerra che si sono affrancati dai potenti con le loro forze. Noi non siamo eredi di una lunga dinastia di aristocratici terrieri, né baronetti titolati da regine e nemmeno miliardari che possono vantare noti artisti tra i propri avi. Perciò, non devi vergognarti di quello che sei, Aida, perché sarebbe uno sbaglio».
La giovane, allora, guardò Marcello e, pian piano, un timido sorriso le illuminò il volto, mentre conveniva che quell’uomo aveva un modo tutto suo di dimostrare la propria simpatia.
«Posso farti ancora una domanda molto personale?» le chiese poi l’altro, dopo qualche istante di silenzio.
«Certamente, mi dica».
«Cosa ti piace di mio figlio? Dimmelo tu, perché io ammetto di non essere riuscito a capirlo».
Aida rifletté un attimo e poi disse: «Anche Rami mi ha fatto la stessa domanda e le risponderò come ho risposto a lui: di Giancarlo mi piacciono la sua gentilezza e i suoi modi raffinati. È vero, è un po’ teatrale ed eccentrico, ma riesce sempre a sorprendermi e a farmi sorridere. Inoltre, è generoso, mi ascolta quando parlo e comprende il mio amore per l’arte. Ha un buonissimo profumo e... poi ci sarebbe un’altra cosa, che però non ho detto a mio fratello».
«E a me puoi dirla?» domandò l’uomo, piegando la testa da un lato, vagamente incuriosito, mentre la fanciulla sorrideva con un poco di dolce imbarazzo.
«Mi piace tanto il colore dei suoi occhi... Ogni volta che mi guarda non posso fare a meno di notare quanto siano belli».
Sorpreso, Marcello increspò le labbra, poiché, facendone un ritratto così preciso, Aida gli aveva appena dimostrato che suo figlio le era piaciuto davvero per quel che era.
«Be’, su questo devo darti ragione: sono gli stessi meravigliosi occhi di Beatrice» le disse, poi, con il tono più soave che lei gli avesse mai sentito e, nell’udire quell’affermazione, che interpretò come un’intima confidenza, la ragazza
rimase attonita, ma felice che Marcello l’avesse reputata degna di meritarla.
In quel momento, sopraggiunse sulla terrazza Giancarlo, sbadigliando insonnolito con una mano garbatamente davanti alla bocca, mentre con l’altra si scarmigliava lentamente e in modo sensuale i capelli.
«Ah, ecco dove eri finita!» esclamò, gaudente, non appena scorse la ragazza, lanciandole un sorriso carico di desiderio.
«Sì, è riuscita a liberarsi dalla tua morsa. Stai attento a dove metti quelle mani, piuttosto: tu prova a sgarrare ed io te le cionco!» fece, allora, il padre, con un sottile ghigno, a mo’ di buongiorno.
«Ehm... questo vuol dire che tu sai che noi... voglio dire, che io...» cominciò il biondo, deglutendo a vuoto. «Io... io ti garantisco che sono stato al mio posto!»
«Oh, no che non sei stato al tuo posto, ma se sei ancora illeso è solo perché so che hai avuto buon senso» gli rispose Marcello, lanciandogli un’occhiata eloquente.
Di fronte all’impaccio del giovane,
Aida scoppiò a ridere, quindi gli fece una carezza sulla guancia e salutò l’uomo per andare a finire di prepararsi per la colazione.
«Sembra felice» commentò quello, rimasto solo con il figlio. «Cerca di renderla sempre così serena, mi raccomando. Se lo merita».
«Molto volentieri, finché mi è concesso» replicò aspramente il ragazzo, prima di raccontare al genitore dell’infausto incontro con Massimo.
«Sempre maledettamente infami i Colonna, credono di essere ancora ai tempi di Giulio II» borbottò, disgustato. «Hai fatto a botte?»
«Non nego di aver avuto una gran voglia di fare a pezzi quel maledetto fijo de ’na mignotta, ma non sono più il facinoroso di un tempo e non volevo che Aida subisse spiacevoli ripercussioni a causa della mia condotta, quindi... mi sono trattenuto».
Marcello aggrottò la fronte, sinceramente ammirato per quella dimostrazione di tanta maturità.
«Non far sentire a tua madre che ti esprimi in questo modo, ché poi dice che sono io ad influenzarti, anche se, detto fra noi, quella famiglia meriterebbe solo l’impiccagione».
Rimase in silenzio per qualche secondo, poi aggiunse: «Ieri c’era poco lavoro da sbrigare, così ho potuto parlare molto con Gerardo e mi ha detto che l’altro giorno hai fatto un ottimo lavoro».
«Meno male che lui non è come te!» esclamò, allora, il ragazzo, ringraziando la bontà del suo padrino.
«Ieri sera c’erano anche lui e Vittoria dai Doria e ti hanno fatto un sacco di complimenti, anche se, come immaginavo, lei ha cercato di carpirmi qualche dettaglio su Aida» proseguì l’altro, scuotendo la testa.
«Be’, credo che voglia conoscerla, visto che mi considera alla pari di un nipote, anche se prima Aida dovrebbe diventare la mia ragazza» considerò, pensieroso. «Comunque, hai visto che ho concluso l’affare? E tu non volevi credermi! Io te l’avevo detto...»
Tuttavia, il giovane non riuscì a terminare la frase, perché Marcello lo interruppe.
«Ben fatto, figlio mio. Sono molto fiero di te e di come ti sei ripreso la tua vita».
Giancarlo, allora, si fermò e fissò il padre, sbattendo le palpebre, trasecolato: gli aveva appena fatto un complimento sincero, cosa che, forse, non accadeva dalla recita di Natale della quinta elementare.
«Ora, però, non restare lì fermo come un baccalà: il tempo passa ed oggi è l’ultimo giorno che Aida sarà nostra ospite!» aggiunse l’uomo, burbero, sentendo il bisogno di dargli un’ultima scossa. «Ricordati che non ti ha
ancora dato una risposta. Per varie ragioni non mi hai mai chiesto consigli sulle ragazze, ma stavolta ti dirò lo stesso ciò che penso: solo una ragazza che ti vuole davvero bene avrebbe potuto prendere le tue parti come ha fatto lei prima. Tuttavia, si sente insicura e spetta a te il compito di rassicurarla» affermò Marcello, con decisione.
«Mi impegnerò» replicò Giancarlo, serio. «Tengo troppo a lei per lasciarla andare via senza averglielo dimostrato fino in fondo».
L’altro dispiegò appena le labbra in un sorriso. Poi, però, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa, mutò espressione e disse: «Ah, stasera dobbiamo andare da tuo zio Tiberio, per la sua odiosa festa di compleanno. Credo che sarà presente anche quel tuo amico francese».
«Olivier?»
«Se è lui il fidanzato perfetto di tua cugina... comunque, potreste venire anche voi ai Castelli. Ovviamente, non alla festa, perché ci sarà tempo in futuro per insegnare a quella cara ragazza come difendersi dai tuoi zii. È ancora presto per portarla nella fossa dei leoni».
«Sarebbe un’ottima idea» fece il ragazzo, interessato. «Le farò vedere Albano e Castel Gandolfo che sono i più caratteristici. Ad Aida piaceranno sicuramente!»
«E potresti usare il regalo di quel...» Marcello sospirò e si sforzò di continuare senza inveire contro il cognato, «di tuo zio Guido».
In risposta, gli occhi del giovane acquisirono una nuova luce.
«Vuoi dire che posso prendere la mia A4?» domandò, pieno di speranza.
Marcello alzò le spalle e annuì, mentre il figlio conteneva la gioia con compostezza, lasciandosi scappare solo un gran sorriso.
«Grazie, papà!» esclamò, avviandosi verso l’interno di Villa Aurelia.

«L’eri in vena di esami, stamani?» chiese, allora, una voce, facendolo sobbalzare.
L’uomo si voltò indietro e inarcò un sopracciglio, vedendo
Beatrice avanzare verso di lui, i capelli cuprei raccolti, indossando un vestito color carta da zucchero.
«Da quanto tempo eri lì?» la interrogò il marito, indicando una delle rientranze del muro con un cenno del capo.
«Abbastanza...» rispose la donna, con un sorrisetto, «abbastanza per vedere che i ragazzi han superato la prova a pieni voti...»
«Prova? Quale prova? Non capisco di cosa tu stia parlando» ribatté il consorte, tranquillo.
«... e per l’aver conferma che oggi, come allora, i mie’ occhi sortiscono su di te lo stesso effetto» aggiunse lei, scrutandolo divertita.
Lui ricambiò l’occhiata, ma distolse subito dopo lo sguardo.
«Che programmi hai per oggi?» le chiese, invece, facendo finta di concentrarsi sul passerotto che si era posato sul bordo di una fioriera.
«Devo andare ai Musei Capitolini, potrei essere la curatrice di una nuova mostra» rispose lei, con visibile soddisfazione.
«Hai ripreso a lavorare» osservò, allora, Marcello, positivamente sorpreso, tornando a guardarla.
«Sì, e voglio tornare anche in carcere, dalle ragazze del corso di cucito» affermò Beatrice, decisa. «Sono stata assente troppo a lungo».
Intenerito, l’uomo le sorrise e le spostò una ciocca ramata dietro l’orecchio, commentando rasserenato: «Sei tornata felice come quando ci siamo conosciuti».
Di rimando, la moglie sorrise a sua volta, arrossendo leggermente.
«Però, potresti ammettere che l’Aida e il nostro Pulcino son stati bravi nel superare la prova, anche se avresti potuto insistere di più sul fatto che non dovrebbe usare troppo spesso certi termini» riprese la consorte, dimostrando di non aver archiviato il discorso.
A quel punto, Marcello assunse un’espressione di pura e vaga indifferenza, evitando accuratamente di guardarla.
«Non so davvero a quale prova tu ti stia riferendo, Beatrice. Ed ora, se vuoi scusarmi, vorrei andare a valutare di persona la situazione delle azalee. Con permesso» si congedò, allontanandosi in fretta
da lei per sparire giù per la scalinata, diretto al giardino posteriore. Rimasta sola, Beatrice si puntò le mani sui fianchi e scosse la testa divertita, pensando che, alla fin fine, tra il figlio ed il marito, il più malandrino era proprio quest’ultimo.
***

Una volta lasciatasi alle spalle Piazza Venezia ed il Vittoriano,
Aida e Giancarlo raggiunsero il Viale dei Fori Imperiali, passeggiando tenendosi per mano, una precauzione che aveva preso il ragazzo dopo che, in mattinata, un bellimbusto aveva tentato un approccio troppo ardito con la fanciulla, malgrado lei fosse palesemente in compagnia. 
In quel momento, il biondo aveva conosciuto il mostro della gelosia ed era stato attraversato dall’idea impellente di lasciare un segno indelebile sulla faccia di quel tale, arrivando alla conclusione che i playboy, visti dal di fuori, non erano poi così tanto gagliardi, quanto piuttosto dei perfetti deficienti. 
Dal canto suo, però, la ragazza non si era molto curata delle avance dello sconosciuto, anzi, aveva persino preso in giro Giancarlo quando aveva incenerito con lo sguardo il nuovo e molto più scadente casanova. Tuttavia, aveva dovuto ammettere con se stessa che quella reazione le aveva fatto piacere.
Per il pranzo, Aida aveva pregato il giovane di non portarla in nessun ristorante lussuoso, poiché quel giorno non voleva perdere troppo tempo e non riteneva di essere vestita abbastanza adeguatamente, così lui aveva optato per qualcosa di più informale.
Tuttavia, mentre scendevano lungo il viale, fermandosi di tanto in tanto per commentare o semplicemente contemplare le antiche architetture, i due ragazzi non sapevano di essere guardati a loro volta. Infatti, quasi tutti i passanti si giravano per ammirare quella giustapposizione di colori pressoché complementari, i capelli d’oro di lui e quelli d’ebano di lei, la pelle candida del ragazzo e quella nocciola della fanciulla, tanto chiari gli occhi di Giancarlo, quanto scuri erano quelli di Aida. Una mescolanza di toni opposti che nel loro complesso, però, risultavano bilanciati e armoniosi.
Infine, la passeggiata si concluse all’ombra del Colosseo, il simbolo nel mondo della Roma antica e moderna.
«Ed eccoci, dunque, davanti all’unico e inimitabile Anfiteatro Flavio» scandì lui, gonfiandosi di fiero campanilismo. «Pensa che, qualche anno fa, quando ancora ero un campione capace con il beyblade, ricevevo i miei sfidanti in un bey-stadium ricalcato su questa forma».
Basita, la ragazza si voltò verso di lui con gli occhi sgranati per l’incredulità: «Che cosa facevi?»
Compiaciuto di aver attirato la sua attenzione, Giancarlo la guardò ed un sorriso furbetto si impose arrogantemente sul suo volto.
«Ah, questa è una mia prodezza di gioventù che devi ascoltare. In particolare, c’è un episodio che merita proprio di essere raccontato...»
Entrambi, allora, si accomodarono su una panchina e, quando il giovane fu certo che lei lo stesse ascoltando, prese a narrare: «All’epoca ero ancora un adolescente. Venne dal Giappone un ragazzo, un tale Takao, che era capitato per caso in Europa mentre era diretto in Russia per i campionati mondiali di beyblade. Una serie di circostanze lo spinsero a sfidare i miei compagni di squadra, così arrivò anche qui a Roma».
«Doveva essere un tipo molto tenace, per andarsene in giro per il continente a sfidare altri blader! Ammetto di non sapere chi sia, ma se è famoso, Samir lo conoscerà sicuramente» commentò la fanciulla.
«Infatti!» confermò l’altro. «Tuo fratello è davvero un portento, sai? Dovrei portarlo a seguire qualche incontro dal vivo, un giorno, non mi farebbe male rendermi conto del livello delle nuove promesse del bey... Comunque, tornando a noi, mi sfidò, anche se la prima volta non accettai, perché avevo, ecco, altro... in programma» continuò, tossicchiando. Intuendo di cosa si trattasse, Aida assunse un’aria leggermente contrariata e alzò un sopracciglio.
«Per esempio, fare il cascamorto con le tipe di ieri?»
gli suggerì, assottigliando lo sguardo. «Mi sono sembrate molto interessate a te».
«Vabbè, mo’, non andiamo nei particolari» le rispose lui, spostando gli occhi altrove, avvampando. Tuttavia, fu proprio questa reazione a far ingentilire la ragazza, tanto che gli permise di andare avanti nel suo racconto senza aggiungere altro.
«Insomma, la seconda volta pensò bene di insultarmi per farmi accettare la sua sfida e così ci affrontammo per ben due volte, in un’arena simile al Colosseo, costruita nel bel mezzo di Piazza San Pietro».
Aida lo guardò, esterrefatta, riuscendo a malapena ad esalare: «Nel bel mezzo di... Piazza San Pietro?»
«Oh, sì. Quando l’ha saputo mio padre, settimane dopo, ha perso le staffe e mi ha messo in punizione per un mese. Temeva che saremmo incorsi in incidenti diplomatici con il Vaticano. E, ad oggi, devo ammettere che ho rischiato davvero grosso, ma, per fortuna, non è successo niente di simile».
La fanciulla continuava a fissarlo, a bocca aperta, non sapendo se ridere o piangere. Poi, si portò una mano alla fronte e scosse la testa: «Santo Cielo...»
«Sì, in effetti ero abbastanza discolo, megalomane ed esaltato» considerò lui, meditabondo. «Fui addirittura schiaffeggiato da un compagno di squadra di quel Takao, un lillipuziano alto una spanna e mezza... che, però, aveva ragione rimproverandomi di usare Anfisbena con intenti poco nobili. Comunque, ebbi la mia batosta: credevo di aver battuto il mio sfidante, ma in seguito fu lui a sconfiggermi pesantemente. Il mio bit-power mi si rivoltò contro e, in quel momento, imparai che avrei dovuto rispettarlo di più, visto che ero eccessivamente dispotico con lui, impartendogli solo ordini senza ascoltarlo».
Aida vide Giancarlo tirare un profondo sospiro, come se avesse voluto tornare indietro e agire diversamente; allora, gli prese una mano e la strinse e lui rinsaldò la presa.
«Sai, Anfisbena è stato un regalo del nonno. Si era raccomandato di trattarlo bene, ma io non l’ho fatto e ho capito tardi i miei errori» proseguì. «Quando siamo diventati troppo grandi, gli animali sacri si sono congedati da noi ed io... sono quello che l’ha presa peggio».
A quel punto, si mise la mano libera nella tasca del trench e ne estrasse il suo beyblade, guardandolo.
«Credo sia normale» avanzò timidamente la fanciulla, che aveva ascoltato tutto il racconto del giovane con partecipazione. «In fondo, era qualcosa che ti legava a tuo nonno. Non penso che Samir possieda una di queste creature, perché, da come ne parli, devono essere speciali e piuttosto rare».
«Lo sono» confermò lui, rigirandosi il bey in mano.
«È un peccato che non possa più interagire con te» notò lei, osservandolo a sua volta.
«Non può rispondermi, ma sente tutto quello che gli capita intorno e un giorno Anfisbena si risveglierà. Saprà lui quando, perciò noi possiamo solo aspettare e sperare che il suo nuovo padrone sia più lungimirante di me».
«Posso... posso tenerlo un attimo?» gli chiese, allora, quella, incerta.
Il ragazzo si girò verso di lei, scrutandola a fondo, poi guardò la sua trottola e, senza aggiungere altro, gliela fece scivolare in mano. Al contatto con la pelle, il metallo le risultò freddo.
«È più pesante di quello di Samir» notò Aida, valutandolo con attenzione. «Anche perché il suo è fatto quasi solo di plastica».
«Ti intendi anche di beyblade, oltre a sapere a memoria i trattati di architettura dalla preistoria ad oggi?» ridacchiò Giancarlo, avvicinando il viso al suo.
La fanciulla gli sorrise, scansandosi all’ultimo, quando ormai aveva già avvertito i ciuffi biondi solleticarle la guancia.
«No, ma sono io che rimetto a posto quello di mio fratello, quando lo lascia per terra insieme agli altri giocattoli, altrimenti Rami sarebbe capace di inciamparci e farsi male» replicò, guardandolo ad occhi socchiusi.
«Che fratelli fortunati ad avere una sorella brava e diligente come te! E, sentiamo, cos’altro fai per loro?» le sussurrò, tentando un nuovo approccio, più lento.
«Immagino che siano sempre domande per conoscermi meglio, vero?» chiese la ragazza, che ora, però, non pareva più intenzionata a spostarsi.
«Oh, no, no. Quello che volevo sapere di te, l’ho già saputo... direi, invece, che, stavolta, è davvero un elegante tentativo di provarci con te».

Tuttavia, furono interrotti da uno schianto improvviso, seguito dalle risate di alcuni bambini. Infatti, poco lontano da loro ce ne erano due in piedi e un terzo steso sul lastricato.
«Ah, ah! Michele, sei una schiappa!» urlò uno dei due, tenendosi la pancia con le mani.
«Vi farò vedere io! Io diventerò un grande campione come lo è stato Tornatore e come lo è adesso Caesar!» replicò una vocina decisa.
«Nano, ti paragoni a due grandi campioni?» gridò l’altro, canzonatorio. «Ma se sei finito per terra solo per lanciare il tuo beyblade, schiappa!»
«Torno subito» disse il biondo ad Aida, serio, alzandosi dalla panchina e dirigendosi verso i tre bambini. La fanciulla si alzò a sua volta e lo seguì, sempre tenendo in mano il beyblade turchese.
«A regazzi’, vi pare questo il modo di trattare un vostro amico?»
I due che erano in piedi si voltarono e, dopo aver scorto l’espressione poco amichevole sul volto di Giancarlo, si guardarono e se la diedero a gambe. Il giovane sbuffò, scuotendo la testa, quindi si abbassò e aiutò il bambino caduto a rialzarsi.
«Tutto bene?» gli chiese, aiutandolo a sistemarsi i vestiti.
Quello si stropicciò la fronte ed annuì, a testa bassa, mentre il ragazzo già si prodigava per recuperare beyblade e dispositivo di lancio per riconsegnarglieli.
«Questi devono essere tuoi» gli disse, con un sorriso.
«Grazie» sussurrò il bimbo, con una scrollata di spalle, senza alzare il capo.
«Ti chiami Michele, vero?» riprovò Giancarlo, cercando di stabilire un punto di contatto e ottenendo un timido assenso in risposta. «Ti va di farmi vedere come lanci il tuo beyblade? Magari possiamo inventarci qualcosa per migliorare la tecnica».
Rianimato, il bambino si decise finalmente a guardarlo con i suoi occhioni color sottobosco.
«Tu... conosci il beyblade?»
«Lo praticavo. Tanto tempo fa» gli rispose con nostalgia l’ex-blader. «Ascoltami... qualunque cosa ti dicano gli altri, non devi mai smettere di pensare di poter migliorare, con l’allenamento e con l’impegno».
Aida rimase ad osservere la scena, in silenzio, mentre, nella sua mano, il metallo di Anfisbena sembrò liquefarsi e diventare molto caldo, come se fosse vivo. La fanciulla, allora, intuì intimamente, senza comprendere fino in fondo il perché della sensazione provata allora e, solo anni più tardi, lo avrebbe capito davvero.
Sorridendo, si avvicinò con lentezza a Giancarlo, che stava ancora conversando con il bambino.
«Ah, grazie. Sì, mi serviva proprio» fece il giovane, prendendo la sua trottola personale, offertagli dalla ragazza. «Ti faccio vedere come si fa».
Michele, però, non lo ascoltava più, lo fissava e basta, a bocca aperta. Probabilmente, aveva capito chi era e stava cercando di ritrovare i tratti dell’adolescente campione di beyblade nei lineamenti non più acerbi del giovane uomo che aveva di fronte.
«Quel bey... ma tu... tu devi essere... Gianni Tornatore!»
«Eh, già. Mi hai scoperto!» fece lui, ammiccandogli. «Dunque, mi permetti di mostrarti un paio di dritte?»
Quando, circa mezz’ora più tardi, il bimbo li salutò felice, contento di aver appreso importanti consigli da parte di un grande campione, Aida scoccò al biondo un’occhiata incuriosita e interessata.
«Allora non è solo con Samir, con i bambini ci sai proprio fare!» considerò.
«Il livello di maturità è all’incirca quello, perciò riusciamo a comprenderci» scherzò il ragazzo.
«È molto bello quello che hai fatto, sai?» gli disse, incurvando le labbra.
Giancarlo, però, si limitò a scrollare le spalle, in lieve difficoltà, concentrandosi sul proprio orologio.
«Si è fatto tardi, dobbiamo andare. Anche se non prenderemo parte al ricevimento, dobbiamo comunque passare da casa, giacché i miei ci aspettano».

Improvvisamente, una goccia di pioggia lo colpì in pieno sul collo: un’inattesa caligine di nubi aveva coperto il cielo, facendo piovere copiosamente.
I due ragazzi, allora, si misero a correre, costeggiando gli imponenti e antichi ruderi, per attraversare quindi il viale e lasciarsi indietro il Colosseo, i Mercati Traianei ed i Fori. Il tempo di arrivare ai tornelli della linea B della metropolitana ed erano già bagnati fino al midollo.
«Che iella quando comincia a piovere così! Siamo completamente zuppi, peggio che se ci fossimo buttati in un lago!» esclamò Giancarlo, scompigliandosi la chioma bionda e strizzandosi un lembo della tasca dei pantaloni.
«Oh, dai, basterà una doccia calda, vestiti asciutti e saremo come nuovi!» replicò Aida, per nulla turbata.
«Certo e, se la metro non tardasse, potrei quasi sperare di non farti prendere un malanno e non sentire le ingiurie di tuo fratello» le rispose, stizzito.
«Ma va, io resisto bene alle intemperie!» rise la ragazza, scorgendo la sua insofferenza. «Sei davvero uno spettacolo quando devi prendere la metro» aggiunse.
«Per fortuna, per portarti a vedere i Castelli Romani, questa sera, mio padre mi ha concesso di usare la mia A4» sospirò lui.
«La tua A4?»
«Sì, è il regalo che mi ha fatto mio zio Guido per i miei ventun anni, anche se è solo un’automobilina per iniziare a fare pratica, niente di più».
La fanciulla, allora, lo fissò stranita e severa. Giancarlo lo notò subito e le chiese: «Aida, c’è qualcosa che non va?»
«Qualcosa che non va? Le tue stanze sono più grandi del nostro appartamento di Alessandria e in questi giorni mi hai pagato tutto, sborsando fior di quattrini, per non parlare del gioiello che mi hai regalato, che costa come il mio stipendio annuale. E chiami un’Audi berlina, un’automobilina. No, va tutto benissimo!» commentò lei, sarcastica.
Il giovane, a quel punto, si accorse di aver commesso una leggerezza e si affrettò a scusarsi: «Mi dispiace, Aida, non volevo mancarti di rispetto...»
«A volte, mi chiedo se davvero noi due non siamo troppo diversi» lo interruppe, però, lei, scuotendo la testa, intristita.
Quelle parole lasciarono Giancarlo pietrificato e per un po’ nessuno dei due disse nulla.
Intanto, dopo aver sceso le scale, i due giunsero sulla banchina, trovandola affollata, come in ogni giornata di pioggia, continuando a tenersi per mano: non avevano smesso per un solo attimo di farlo, come se temessero il momento in cui avrebbero parlato, coscienti che niente, nel bene e nel male, sarebbe stato più come prima.
Alla fine, prendendo coraggio, il ragazzo si girò verso Aida per chiederle finalmente cosa avesse deciso, poiché voleva sapere se per lei sarebbe potuto essere un conoscente, un amico o un amante e se potesse sperare di abbracciarla ancora, di ripeterle all’infinito quanto fosse importante per lui, di continuare a ricevere le sue carezze spontanee e delicate. 
Dal canto suo, sentendosi osservata, anche la fanciulla si voltò, malinconica. 
«Rinviare ulteriormente, renderebbe tutto solo più difficile, quindi credo che sia arrivato il momento di rispondere alla domanda che mi hai fatto lo scorso febbraio».
Il biondo avvertì la salivazione sparire del tutto, mentre il cuore rallentava i battiti e Aida si lasciava andare di nuovo ad un sospiro addolorato.
«Giancarlo, io ho riflettuto molto sulla tua proposta e ho capito che ci sarebbero alcune cose che sarebbero davvero difficili da conciliare, in una relazione a distanza come la nostra, perché siamo troppo lontani. Inoltre, a gennaio dovrò discutere la tesi e vorrei lavorare un po’ per il museo de Il Cairo, che è il mio sogno fin da bambina. Sai, io voglio darmi da fare, voglio coltivare la mia passione per l’arte e... noi apparteniamo a due mondi molto differenti».
«Non è vero, Aida, il mondo è uno solo...»
«No, Giancarlo, non è così e non far finta di non saperlo» lo interruppe bruscamente lei, togliendosi una goccia di pioggia dalla guancia. «Inoltre, naturalmente, devo ancora occuparmi di Samir».
«Di Samir possiamo prenderci cura insieme, lo sai che non aspetto altro...» tentò di protestare lui, avvertendo lo stomaco contrarsi per il dispiacere.
Aida, però, scosse lentamente la testa, triste: «No...»
Giancarlo chiuse gli occhi e deglutì, vedendo andare in fumo anche l’ultimo residuo di speranza. Allora, smise di respirare, così stravolto cda non avere neanche la forza di disperarsi: l’aveva rifiutato.
Chinò il capo, sconfitto, sentendo qualcosa dentro di sé che si inceneriva e si lacerava.
«... non ancora. Non ho finito di dirti tutto» continuò, tuttavia, la fanciulla.
«Vuoi che rimaniamo solo amici, lo so. Me l’hai detto» mugugnò lui, con tono ostile. Per un attimo, avrebbe tanto voluto cedere alla tentazione di fare come il bambino capriccioso che non ha ottenuto il suo gioco, ma si impose di comportarsi da uomo e accettare la disfatta. Non voleva che Aida lo ritenesse un ragazzino viziato, visto che grazie a lei non lo era più.
Ma, a quel punto, lei sorrise e, gentilmente, gli alzò la testa, affinché i loro occhi si potessero incontrare: era graziosa e dolce, anche inzuppata d’acqua e mentre gli stava dando quel grande e terribile dolore.
«No, non è questo. Voglio aggiungere, invece, che io non riuscirei ad immaginare una vita senza di te. Ormai ne fai parte, anch’io ho bisogno di te e non potrei sopportare l’idea di saperti con un’altra donna» gli sussurrò con tenerezza.
Scombussolato, il ragazzo impiegò qualche istante per capire cosa gli aveva detto.
«M-Ma... allora...» cominciò a balbettare, spalancando gli occhi, prima che la giovane lo fermasse.
«E l’unico modo per stare insieme è anche il più difficile: io voglio sposarti, ma non subito. Quindi, ora ti faccio io una domanda: Giancarlo, sei pronto ad aspettarmi?»
«Aspettarti? Mi stai chiedendo di aspettarti?» esclamò, irritato, cedendo volentieri alla collera. «Diamine, mi hai quasi ucciso solo per chiedermi tempo?»
«Non è solo tempo. È fiducia, pazienza, lontananza...»
«È il prezzo da pagare per la serenità!» concluse lui. «Da quando ti conosco, la mia vita è migliorata. Mi hai insegnato il rispetto per gli altri e per me stesso, al punto che ho imparato ad aspettare e sono pronto a fare dei sacrifici pur di starti accanto. Dannazione, Aida, vuoi capire una buona volta che sono pazzo di te?!»
La fanciulla lo guardò, dapprima inespressiva, poi un enorme sorriso le illuminò il viso.
«Anch’io ho appreso diverse cose da te. Per esempio, mi hai dimostrato con quanta intensità un uomo può amare una donna».
Il biondo spostò gli occhi da un’altra parte, sospirando e arruffandosi i capelli sulla nuca, indeciso se provare più imbarazzo, sollievo o chissà cosa.
«Almeno, però, mi permetterai di presentarti quanto prima come mia fidanzata ufficiale? Al matrimonio di McGregor vorrei averti accanto a me».
«Ecco un altro motivo per cui mi serve tempo: devo abituarmi alle regole della società alla quale appartieni, per me è tutto nuovo e la cosa mi spaventa non poco. A volte mi sento così goffa... ho paura di non essere all’altezza delle tue aspettative... e non solo per quel che riguarda l’etichetta».
Giancarlo colse l’espressione affranta di Aida e intuì molti più timori di quanti ella ne stesse effettivamente esprimendo a parole.
«Basta così!» le disse, togliendole una ciocca di capelli bagnati dal viso. «So che non sarà facile e che ti sto chiedendo molto, ma le difficoltà, in una coppia, si affrontano insieme. Io l’ho imparato dai miei genitori ed ora tocca a me metterlo in pratica».
«Dovrai avere molta pazienza con me e con le mie insicurezze».
«Non più di quanta ne dovrai avere tu con me e con la mia esuberanza. Stai tranquilla, affronteremo una cosa alla volta, al momento giusto e senza fretta, d’accordo? Voglio godermi ogni sfumatura della nostra relazione».
Dopo quello scambio di battute, la fanciulla parve finalmente un po’ più serena.
«Io temo anche il confronto con tua cugina. Non sarò mai al suo livello e mi odia...»
«Ti odia perché crede di essere superiore e di poter ottenere qualsiasi cosa o persona le piaccia» il ragazzo si trattenne un attimo, ma poi decise di rivelarle il suo ultimo segreto. «Ascolta, lei è gelosa del sentimento che provo per te perché non mi vede solo come suo cugino. Da me vorrebbe attenzioni molto più... consistenti. E, se io avessi sposato Maria Chiara, Claudia avrebbe potuto sperare di continuare a condividere tutto con la sua amica» ammise, avvampando di amara umiliazione.
Aida lo fissò, avendo capito finalmente tutto. Poi, con grande sorpresa di lui, sorrise e cominciò ad accarezzargli dolcemente una guancia.
«Tu non sei una persona qualsiasi, quella cui ho donato il mio cuore e tua cugina dovrà farsene una ragione, perché io non condivido il mio ragazzo con nessun’altra. Non vergognarti anche per colpe che non sono tue, non sarebbe giusto».
Rincuorato, lui le prese la mano, mettendola a contatto con le proprie labbra, grato.
«E tu non devi invidiare niente a nessuna. Io desidero che tu rimanga come sei, quindi non dire mai più che dovrei tornare alla mia vita di prima e sciocchezze simili».
La ragazza si irrigidì, allibita.
«Hai... hai sentito ciò che ho detto?»
«Ogni singola parola» fece il giovane, malizioso, tornando a sorridere sereno.
Imbarazzata, Aida si portò la mano libera sulla bocca: «Hai origliato! Eri sveglio! Perché non me l’hai fatto capire?»
«Perché volevo sentire cosa avevi da raccontarmi. Senza contare che sarebbe stato imperdonabile perdermi un tuo bacio».
Sempre più in difficoltà, lei si girò dalla parte opposta, scuotendo la testa. Allora, Giancarlo rise, allegro, trattenendola e attirandola a sé.
«Che cosa ne dici, ora potrei essere io a ricambiare, no? Ma prima devi chiarirmi una cosa: non ho capito bene le ultime parole che mi hai detto, potresti ripeterle, per favore?»
Aida lo guardò di sottecchi, sorridendo sostenuta.
«La sa una cosa, signor Tornatore? Lei è un grandissimo sfacciato! Studia l’arabo e non ha capito una frase semplicissima?»
«Potrei capirla meglio se mi dessi un aiutino...» le bisbigliò voluttuosamente lui in un orecchio.
«Solo se lei mi ripete cosa mi ha borbottato ieri, a Piazza di Spagna» gli rispose, però, quella, non dandosi per vinta.
Sinceramente ammirato, il ragazzo fece una smorfietta divertita e soddisfatta.
«Bene, bene, abbiamo un osso duro. Meglio così, le cose facili mi annoiano» affermò, poi si chinò su di lei e le sussurrò, molto vicino alle sue labbra. «Ti ho chiamata... Amore mio».
La fanciulla si prese una manciata di secondi per gioire di quelle parole semplici, ma così pregne di grande significato.
«Ed io ti ho detto ana bahebek, ma dovrai capire da solo che cosa significa» cantilenò.
«Scommetto che è qualcosa che ha a che fare con questo» disse, allora, Giancarlo, chinandosi per baciarla, ma non ne ebbe il tempo, distolto dal sottile refolo proveniente dal fondo della galleria e che annunciava l’imminente sopraggiungere del treno.
«Mmm, Giancarlo? La metro è quasi arrivata» gli fece notare lei.
Lui si fermò bruscamente e lanciò una rapida occhiata davanti a sé, per poi tornare a concentrarsi su Aida.
«Che venga, che parta, chissenefrega. Sto rivalutando il sistema di trasporti sotterraneo, sai? Ne verrà un’altra».
«Sì, ma tra...» la fanciulla controllò l’avviso luminoso. «Otto minuti. Tuo padre potrebbe rimproverarti per il ritardo e Rami potrebbe avere qualcosa da ridire se dovessi prendermi un raffreddore a causa della pioggia gelata».
«Ritardo? Che sarà mai! Saremo lontani per così tanto tempo che voglio sfruttare ogni secondo con te. Mi hai detto che resisti bene alle intemperie, no? E poi, posso provvedere a riscaldarti io, ti prometto che non riporterai alcun malanno» le assicurò, sensuale, cominciando a sfregarle piano la schiena. «Ah, già che ci siamo, impara una nuova regola, biscottino: mai interrompere Giancarlo Tornatore quando è impegnato a coccolare la sua meravigliosa ragazza».
Stava appunto per apprestarsi di nuovo a lei, quando una torma di persone, intente a cercare di stiparsi all’ultimo nel vagone, si riversò sulla banchina lastricata e impantanata di pioggia, costringendo i due giovani ad addossarsi alla parete.
«E fate passa’!» sbottò loro un energumeno, mentre si accalcava. «Non ve mettete in mezzo alle scatole, se dovete fa’ i baccalà!»
«E dai, caro, guarda che bel giovane e che ragazza graziosa! Sono così carini!» trillò, invece, quella che doveva essere sua moglie.
«Se dovete pomicia’, annateve a cerca’ ’n artro posto! ’Sti pischelli d’oggi...» bofonchiò di nuovo quello, facendo orecchie da mercante, prima che le porte si richiudessero dietro di lui.
Il ragazzo, nel frattempo, aveva contato fino a dieci per evitare di rispondergli per le rime in dialetto stretto, preferendo continuare a fare il signore.
«Non credo di aver capito tutto quello che ha detto» fece Aida, perplessa, abbracciata a lui.
«Ignoralo» le rispose l’altro, agitando una mano. «Ora che ci penso, era un po’ che nessuno diceva la sua. Cominciavo a preoccuparmi».
La fanciulla rise fino alle lacrime, mentre la metro partiva e la banchina tornava quasi deserta.
«Allora, dove eravamo rimasti? Ah, ma certo...»
«Giancarlo?»
«Sì?» le fece lui, lascivamente ispirato e già proteso verso di lei, arrestandosi di nuovo.
«Ci sarebbero altre due cose che dovrei dirti» avanzò Aida, incerta.
«Ancora?» esclamò lui, tra lo sconcertato e lo stupito.
«Ecco, per prima cosa, non è necessario che tu reprima la tua indole da casanova, visto che fa parte della tua personalità...»
Il giovane inarcò all’inverosimile un sopracciglio, fissandola dubbioso, ma lei continuò: «E a me non dispiace, se espressa con moderazione. Purché tu la esibisca esclusivamente con me, ovviamente» concluse, ricalcando opportunatamente le ultime parole.
Giancarlo sogghignò, riservandole un’occhiata malandrina.
«Be’, questo mi era parso implicito. Vuoi più coccole? Vedrò come accontentarti, zuccherino, e... cos’altro devi dirmi?»
«Oh, ecco...» sussurrò la fanciulla, tentennante, «che avevi ragione sui tuoi begli occhi: hanno un colore stupendo».
Troppo contento per quel complimento diretto, Giancarlo cominciò ad accarezzarle i capelli, limitandosi ad aggiungere: «Bene, ora penso che sia arrivato il momento di recuperare i sei tentativi di baciarti andati in fumo».
«Sei?» replicò la ragazza, tentando di fingersi impressionata e non riuscendo invece a trattenere una buona risata. «Sicuro che non siano di più?»
«Se escludiamo gli ultimi, rendiamo la cosa meno assurda e imbarazzante di quello che è» commentò l’altro con una smorfia, cui seguirono altre risate da parte della fanciulla.
«Dovrai essere molto bravo, per far tutto in meno di otto minuti» gli ricordò Aida, mentre gli sistemava con delicatezza il colletto del trench inumidito e si sollevava in punta di piedi, sorridendogli con la dolce e fiduciosa timidezza di sempre.
«Gioia mia, tu mi sottovaluti» scandì il biondo, a dir il vero più serio che faceto, stringendola maggiormente a sé.
Quasi otto minuti a disposizione, quasi quattrocento ottanta secondi... se li sarebbe fatti bastare.
Iniziò con un bacio sulla fronte: uno, quello che le avrebbe volentieri dato quella sera lontana, ad Alessandria, quando l’aveva ascoltato senza giudicarlo.
Poi scese e le baciò la guancia: due, ciò che aveva tentato di fare quando le si era proposto.
A quel punto, indugiò sul collo con ardente bramosia: tre, il preludio di quel bacio non dato sul Tevere, in quel momento di forte, intensa passione non del tutto manifestata.
Infinie, arrivò sull’angolo della bocca: quattro, il bacio salvifico che aveva cercato sulla terrazza, durante la prima visita a Roma della ragazza.
Quindi si spostò di poco e le regalò un contatto leggero, dato per prendere confidenza con quelle labbra tiepide, per le quali aveva tanto sospirato: cinque, il bacio trattenuto a stento davanti allo specchio cinquecentesco.
Allora, Giancarlo si discostò un momento per assaporare meglio il sapore della sue labbra: erano dolci, come aveva intuito.
La gioia che gli dava tenere stretta la sua Aida, la ragazza che lo aveva aiutato a non aver più paura di ammettere i propri limiti, mettendo invece a frutto le proprie potenzialità, era smisurata e sarebbe stata molto difficile da tradurre in parole, come la sconfinata soddisfazione di aver conquistato il suo cuore con le proprie forze. Non vedeva l’ora di vivere il suo futuro con lei, un futuro forse semplice e spoglio di clamori, ma limpido e sereno.
I due si guardarono ancora una volta, sorridenti e vicendevolmente abbracciati, prima di chiudere nuovamente gli occhi e abbandonarsi entrambi ad un bacio intensamente passionale, ma altrettanto profondo ed autentico: sei, ma che in realtà non era il sesto, bensì il loro primo vero bacio, il quale valeva per tutti quelli che non c’erano stati e anticipava quelli che sarebbero venuti. E, per Giancarlo, era anche qualcosa di più: era il suggello della sua piena riuscita, il premio per i suoi sforzi, il riconoscimento del suo sentimento puro e sincero.
Stettero per un po’ così, l’una tra le braccia dell’altro, bagnati com’erano e addossati alla parete non propriamente lustra, sotto la fioca e tremula luce delle gallerie della metropolitana di Roma, in quell’aria opprimente e rarefatta, incuranti di essere esposti alla vista dei passanti.
Dopotutto, che importanza poteva mai avere per Aida e Giancarlo scambiarsi il primo vero bacio a venti metri di profondità? Proprio nessuna.
In fondo, avevano i loro quasi otto minuti fuori programma da passare insieme.
E poi, non venite a raccontarmi che, a volte, la lentezza dei mezzi pubblici non può giocare a vostro favore.




***
Gli eventi e i personaggi narrati in questa storia sono frutto di fantasia, per tanto ogni riferimento a luoghi, cose e persone realmente esistenti è puramente casuale.
Il marchio “Beyblade” e i componenti dell’EuroTeam/Majestics appartengono a Takao Aoki e BB Project. Tutto il resto appartiene a me.
Ringrazio Aly per la supervisione sul testo in corso d’opera.
Per la revisione a posteriori, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione e disponibilità.
***

[N.d.A.]
1. baklava: dolcetti tipici egiziani, fatti di pasta sfoglia imbevuta di sciroppo e farciti con granella di noci e pistacchi;
2. roobois: pianta simile al té, originaria del Sud Africa. Se ne ricava un infuso che è detto comunemente té rosso;
3. Celeste... fior: sono i primi versi della romanza che Radamès intona nell’atto I - scena prima dell’Aida di Verdi; il libretto, invece, è di Antonio Ghislanzoni;
4. visitatrice... torna: è il significato del nome secondo l’etimologia araba;
5. Agape: è la parola greca che indica l’amore gratuito; esso si contrappone e completa l’Eros (inteso nell’accezione platonica e non freudiana), l’amore passionale.
***

Grazie a chiunque sia passato di qui, vecchio o nuovo lettore che sia.
Halley S.C.
  
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