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Autore: Callie_Stephanides    26/11/2011    9 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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11.
La bestia nel cuore

Delle mille verità che l’età racconta, ce n’è una che non avrai mai il coraggio di condividere, perché il suo peso dice dell’abisso che custodiamo nel cuore.
Gli uomini non sono cielo ma palude; anche quando pretendono ali e spazi e libertà, nascondono nel profondo una bestia putrida e vorace.
Gli uomini amano la guerra, perché è disordine; perché è una valida scusa per nutrire la Bestia.
La mia associava la sazietà al massacro; la soddisfazione, al sangue: l’ho capito sulla mia pelle.
Guerra era Vinus, i suoi capelli bianchi e gli occhi morti. Guerra era Rael e il suo coraggio generoso e suicida. Guerra ero io: fiamme e neve dall’alto di una torre.

*

“Vinus!”
 
Il ruggito di mio fratello fu lo schianto che ruppe il mondo per come l’avevo conosciuto: dal momento in cui la sua lama incontrò la spada di Zauror, il futuro dell’Eumene non fu più lo stesso.
Rael era ancora carne viva, ma aveva un obiettivo che non valeva la mia crudeltà, né la rassegnazione di Vinus: a differenza di noi due, codardi appena dotati dell’ambizione di un’ora, era un padre e un compagno e un eroe.
Sapeva che Vinus costituiva il perno dell’armata, come sapeva che senza di me, probabilmente, Eleutheria sarebbe stata memoria.
Gli era bastato perdere un mondo: Koiros non avrebbe divorato anche la felicità che aveva costruito sulla polvere di una civiltà estinta.
 
Tra le ombre che invadevano il barbacane, spiccava lo Shire di Rael, una fremente massa nerastra.
Vinus se lo vide arrivare addosso – froge dilatate e bava schiumosa – speronato da un cavaliere che portava il suo sangue, ma che non avrebbe mai chiamato ‘fratello’.
 
“Li abbiamo in pugno,” sibilai trionfante, mentre Nephyl dava l’ordine di chiudere le porte e isolare il vestibolo tra i contrafforti.
I dongioni furono illuminati a giorno, arsi i bacili d’olio che orlavano le caditoie; spazzate via le tenebre, ora vedevo: vedevo Vinus.
Assaporavo una vittoria certa.
“Non arrivano al centinaio,” disse Nephyl. “Quali siano i piani di Koiros…”
Non gli permisi di finire, perché non era il tiranno dell’Icengard il mio bersaglio – non ancora, almeno.

*

“Difendete il principe!”
 
 
Il panico dei dracomanni, raccolti attorno all’erede di Zauror, fu un balsamo per le mille ferite che il Drago Nero aveva inferto al mio orgoglio.
C’era Rael, la lama volta al cielo e una determinazione implacabile ad accendergli lo sguardo. C’era Vinus, immobile. Aveva paura: per la prima volta da che c’eravamo incontrati, percepivo le sue emozioni e ne anticipavo il collasso. Non era in grado di combattere, ma doveva farlo.
 
Se fossi stata la Leya che Leonar aveva cresciuto, avrei provato ammirazione. La nuova Leya, tuttavia, aveva respirato troppa polvere: e si era persa.
 
“Caricate.”
 
L’ordine uscì rauco, quasi l’odio mi avesse incrostato la gola, sino a togliere ogni femminilità ai miei accenti.
Nephyl raccolse i suoi e mi lanciò un’ultima occhiata. Indecifrabile.
“Non scenderò in campo,” lo rassicurai. “È dall’alto che si gode la vista migliore.”
 
È sul campo, tuttavia, che cogli il dettaglio.
È bagnandoti nel sangue, che comprendi l’abominio di quel battesimo: forse pensò questo, ma non lo disse. Mio padre, invece, l’avrebbe fatto, ma Leonar pregava per Rael.
Pregava che almeno uno dei suoi figli si salvasse dalla maledizione del drago.
Io, no. Io, ormai, ero una bestia.
 
“Non arretrate! Non devono…”
 
Rael caricò senza guardarsi alle spalle, l’elsa stretta in pugno e l’attenzione volta allo spettro esangue che, in un altro tempo, avrebbe chiamato ‘signore’.
I suoi uomini, trascinati da quell’impeto, fecero altrettanto, finché l’aria non fu satura dello stridere delle lame e il barbacane trasformato in un fiume di metallo.
Il glythanium reggeva bene l’urto, ma l’armata dei liocorni neri non era temuta per nulla: mentre Rael parava l’affondo di un demone e ne tranciava l’arto alla spalla, Lothar era raggiunto al ventre da una picca e rovinava nella polvere.
 
Era un carnaio, eppure sorbivo quel veleno con il sorriso sulle labbra.
 
“Prendete la mira.”
 
Feroce, impartivo ordini e contavo i grani che mi separavano dall’ultimo sacrificio. Volevo il cuore di Vinus e strizzarlo tra le dita, quasi potesse colarne la tristezza che mi aveva trasformato in una palude di risentimento.
 
 
 
Rael fu presto accerchiato, ma quell’evidenza non lo fermò: come aveva promesso, combatteva da dracomanno, affinché quel crisma gli scivolasse via dalla pelle.
Sudava il sangue della sua gente per mondarsi da un veleno antico: Melian – e lei sola – gli avrebbe restituito l’odore di un uomo.
Il clangore delle armi rendeva impossibile cogliere le parole – se mai ve ne furono – eppure l’emergenza dell’ora ci rendeva parte di un medesimo spirito.
Io ero Eleutheria e Venusya.
Io ero Rael e Vinus.
Io ero un dracomanno sconosciuto, che domandava a mio fratello il prezzo di un tradimento.
Il figlio di Freil, tuttavia, scoprì il viso e le zanne: il sorriso spietato di un eroe senza padroni.

*

Al riparo di una scorta sempre più sparuta, Vinus tremava e si malediva. Koiros gli aveva inoculato il seme della paura; Haga era caduta come una stella e, come una stella che muore, somigliava all’oracolo di una fine annunciata.
Era abituato a vincere e a cogliere il terrore nello sguardo di chi lo fronteggiava: ora scopriva che qualcuno non lo temeva; qualcuno che la polvere aveva solo levigato, scolpito, affilato.
Cercò d’istinto la spada cui già una volta aveva affidato la propria vita.
Pesava come mai prima.
 
“Principe…” lo richiamò Eos, tentando di trattenerlo, ma Vinus sapeva che temporeggiare non l’avrebbe salvato: io ero lassù, fiamma tra le fiamme, traboccante d’odio.
Ero l’uccello che cavava il cuore al drago.
“È inutile,” replicò. “Posso solo combattere.”
 
Zauror se n’era andato impugnando uno scettro: suo figlio avrebbe almeno dovuto stringere una spada.
 
“Qualcuno è già morto al mio posto e non voglio che aspetti troppo; nelle Terre del Ricordo, marceremo compatti e saremo ancora un popolo.”
 
La sua voce non tremava, anche se un nodo gli stringeva la gola: era orgoglio, realismo, rassegnazione.
Se la Storia dei dracomanni non avesse conosciuto un terribile Punto Zero, Rael sarebbe diventato il suo Generale più fedele e fidato, come Freil aveva servito Zauror sino alla fine.
Nel collasso degli equilibri seguito all’avvento di Koiros, invece, due fratelli di sangue si sfidavano sul filo di una lama che non avrebbe mai servito la Giustizia.
Lo sapeva Vinus.
Lo sapeva, però, anche mio fratello.

*

Rael s’infisse come un cuneo nella cavalleria nemica: inarrestabile, scivolava tra i corpi con la grazia mortale di un falcetto. Ora affondava sino al gomito nelle viscere di un nemico; ora, rapidissimo, ritraeva la lama e colpiva di taglio, sgozzando.
Suo era l’istinto del predatore: non era la crudeltà a guidarne il polso, ma l’efficienza.
Ebbri di quella mattanza, invece, i nostri soldati scoprivano le gioie della mietitura.
Come mi disse Jail, a qualche ora dalla fine del combattimento, fu come se quella pioggia di sangue avesse lavato loro di dosso tutta l’umanità.
Era possibile. Era plausibile, direi, perché cogliere una vita vuol dire accettare – sempre – il peso di una maledizione.
Immacolata e distante dall’ecatombe, tuttavia, stava una donna perduta senza altro alibi che non una profonda vigliaccheria.
Quella donna ero io.

*

Quando Rael raggiunse Vinus, il tempo si fermò.
Il barbacane era ancora un brulicare di cozzi e grida e morte e membra e bestemmie, ma nei miei occhi non c’era spazio che per due guerrieri.
Rael aveva il capo scoperto e larghe asole brunite gli lordavano la lorica. Era più che mai il Drago Rosso amato e temuto dai soldati di Eleutheria, ma nei suoi occhi d’oro brillava una luce che nessuno avrebbe potuto ridurre a un titolo.
Vinus, pallido e spettrale alla luce delle torce, indossava una corazza leggera che gli copriva appena il torso; le labbra strette al punto da ricordare una cicatrice, non si abbandonavano a insulti o a facili provocazioni.
Della fierezza del leone in caccia che aveva terrorizzato Eleutheria non restava niente.
 
Pericolosamente sospesa nel vuoto, mi sporsi dalla merlatura per rubare ogni loro sospiro, ma la mia curiosità rimase insoddisfatta: se stavano dialogando, usavano un lessico segreto.
 
All’improvviso, Niktos liberò un cupo bramito e si spinse in avanti, le grosse labbra sollevate sino a scoprire la tagliola dei denti.
Rael prevenne il terrore della propria cavalcatura, scartando di lato. Vinus affondò il taglio, sperando d’incontrare la morbida polpa del fianco, ma la coda di mio fratello fu più rapida ancora: gli sferzò con violenza il polso, costringendolo ad allentare la stretta e a sbilanciarsi in avanti per non perdere l’arma.
 
Mi concessi una risata che somigliava a un latrato: mi ero trasformata in una cagna senza rendermene conto.
Una feroce cagna pazza.
“Sgozzalo!” urlai.
 
Sgozzalo, Rael.
Staccagli la testa e portamela.
 
Il principe di Lephtys strinse le cosce ai fianchi del liocorno e tentò di sottrarsi a uno scontro che – era evidente – non riusciva a controllare. Mio fratello, tuttavia, non era sceso in campo per giostrare, né per concedere al nemico l’opportunità di fuggire: pensava a Melian, pensava a un nuovo Lukas cui doveva assicurare la certezza di un futuro che non fosse una catena.
“Mi hai chiamato traditore e forse lo sono, ma non avrei mai mandato la mia donna a morire.”
Vinus inghiottì il veleno della verità e lo vomitò nell’urgenza di un nuovo affondo, ma era più lento di quanto non fosse mai stato. Troppo lento per salvarsi.
Rael lo evitò e gli trapassò la spalla destra. Le fibbie che assicuravano la corazza al torso di Vinus si spezzarono, ponendone a nudo il torace già massacrato.
“Sei ferito,” disse Rael, accusando quella vista quasi avesse ricevuto un colpo mortale.
“Non sono ancora morto,” fu la risposta che gli oppose il principe di Lephtys, mentre, recuperata la stretta sull’elsa, abbandonava la cavalcatura per un disperato corpo a corpo.
Mio fratello lo assecondò, ma non per accelerare l’esecuzione come avevo sperato – come, forse, chiedeva anche Vinus.
“Arrenditi,” lo implorò e fece cadere in terra la spada.
Il Drago Nero strinse i denti e liberò una risatina stridula, carica di scherno. “Non ti è bastata la lezione, traditore?”
“Non posso vincere chi è già vinto. Non sarebbe uno scontro leale.”
Per tutta risposta, Vinus sputò in terra. “Allora crepa.”
Era la patetica ombra del guerriero che avevamo temuto, eppure non cedeva; da qualche parte, sopita e mai arresa, c’era davvero la dignità del re: Rael la vide e decise di salvarlo.
Ignaro del futuro che Freil aveva scritto per lui, intingendo la penna del Destino nel proprio stesso sangue, mio fratello assecondò dunque l’ultima volontà di suo padre.
 
Difendi il principe, Rael. Difendi il futuro di Venusya.
 
Scartò di lato, sottraendosi alla lama.
Vinus annaspava, gli occhi velati da una rabbia incredula.
 
“Non puoi battermi e lo sai. Richiama i tuoi uomini.”
“Non prendo ordini da un tra…”
 
“Adesso!” ruggii, e l’arciere alla mia destra liberò un dardo che si conficcò nella coscia di Vinus.
 
Rael sollevò lo sguardo. “Che fai, Leya?”
 
Non usò il mio titolo, né si preoccupò di apparire controllato e riverente: ai suoi occhi ero una stupida vigliacca.
 
“Quello che dovresti fare tu. Ammazzarlo.”
 
Rael distolse lo sguardo e lo portò su Vinus, aggrappato alla spada come un patetico fantoccio.
“Arrenditi,” gli ripeté. “Non hai alcuna possibilità.”
Il principe di Lephtys portò lo sguardo a quanto restava dell’armata dei liocorni neri: degli uomini con cui aveva sognato la libertà, solo tre erano ancora in grado di combattere.
“Era un vicolo cieco, e tu lo sapevi. Non c’era speranza che…”
Vinus gli puntò contro la spada. “La speranza non esiste.”
Mio fratello chiuse le dita attorno alla lama, finché il suo sangue non raggiunse la mano del nemico. “Ti sbagli: la speranza siamo noi.”
Poi sciolse la coda e lo colpì con tutta la propria forza.
Il corpo di Vinus si schiantò contro la parete del contrafforte, mentre Rael ne raccoglieva la spada, un’arma che aveva bevuto il suo sangue due volte: la prima per ferire; la seconda, per riconoscere l’odore di un servo fedele.

*

Come il Drago Nero cadde, fu solo silenzio, perché la grandezza del momento fu tale da sopraffarci tutti.
Eravamo salvi? Eravamo liberi?
Forse no – non ancora, almeno – ma non eravamo più inermi. Trier sapeva mordere ed ero io le sue zanne.
Io, la voglia bramosa di lacerare e sminuzzare il nemico.
 
Abbandonai la torre in preda a un’euforica frenesia. La vendetta che avevo sognato si era compiuta e pretendevo di toccarla: volevo bagnarmi nel sangue di Vinus. Davanti al nemico, tuttavia, stava Rael, una gargolla immobile e severa.
Si aspettava di dovermi affrontare? Probabilmente sì, perché ero sua sorella e perché mi aveva visto cambiare e impazzire un giorno dopo l’altro.
 
“Perché non lo finisci?” lo apostrofai gelida, fissando lo sguardo là dove giaceva il principe di Lephys. Aveva battuto il capo e un rivolo di sangue gli sfregiava la fronte lattea.
Era vulnerabile e bellissimo, ma quell’evidenza mi pareva l’ennesimo motivo per detestarlo.
“Perché non è necessario,” replicò Rael, e mi sbarrò il passo.
“Intendi disobbedire agli ordini?”
“Nessuno può darmi l’ordine di uccidere, perché sarebbe una richiesta empia. La vita è sacra. Ce l’ha insegnato nostro padre.”
Sorrisi, ma era sarcasmo, il mio.
Magister Leonar si è concesso troppe licenze per essere ancora credibile. Fatti da parte e dammi la tua spada.”
Come prevedibile, però, Rael non si mosse.
Affondai i denti nelle labbra, furibonda.
 
Era lì, a un pugno di passi, eppure qualcuno m’impediva di farne poltiglia per ratti.
Perché?
 
“Sono la Makemagistra e tu mi devi rispetto.”
“No, non ti permetterò di colare ancora più a fondo.”
Aprii la bocca, ma non ne uscì un fiato.
Rael si avvicinò al corpo inerme di Vinus.
 
Il nemico era un fratello di sangue, il principe per cui doveva combattere e morire: un fantasma senza sostanza, perché nella guerra dei fronti c’eravamo smarriti.
Tutti.
 
“Sono io che l’ho sconfitto. È una mia preda.”
Deglutii a fatica. “Non osare tradirmi, Rael, perché tu non sai…”
“Io so dove puoi arrivare, purtroppo.”
Il suo viso non aveva espressione. Il suo sguardo, invece, era colmo di un’infinita tristezza.
“Per questo non posso permettertelo.”
“Fatti da parte, soldato,” ingiunsi per l’ennesima volta.
Mio fratello portò lo sguardo su Vinus, poi tornò a fissarmi.
“Non te lo permetterò. Quello, mai, Leya.”
Magistra: io sono la Magistra.”
Per tutta risposta, Rael mi diede le spalle. Sapeva già che mi avrebbe tradito? Credo di sì: non gli lasciavo altra scelta.
Nephyl mi affiancò. 
“Alla sua insubordinazione penseremo poi,” mormorai tetra, “adesso ho altro di cui occuparmi. Quanti sono gli ostaggi?”
“Una dozzina, sempre che sopravvivano.”
Avevamo vinto. Io avevo vinto.
“Fate in modo che accada. Ci servono vivi.” Tornai a fissare Vinus. “Lui, soprattutto.”
 
Volevo inebriarmi del suo dolore, torturarlo e smembrarlo e sentire il calore del suo sangue vestire di un nuovo odore la mia pelle; volevo che la notte m’invadesse, perché nessun sentimento potesse inumidirmi le ciglia e annegarmi il cuore.
Avevano ragione Rael e mio padre: era una caduta inarrestabile.

*

Albeggiava. Il cielo possedeva ora una tinta rugginosa, velata d’oro. Era l’inizio di una nuova pagina e già sapevo con quale inchiostro l’avrei vergata.
“Conducete i prigionieri al sicuro; più tardi provvederò a interrogarli.”
Abbandonai il barbacane a testa alta, seguita dalle grida vittoriose dei soldati. Non sentivo la stanchezza, né il rimorso, né il disagio del carnaio che avevo lasciato: ero vuota e fredda come la corazza abitata da uno spettro, poiché ora che avevo ottenuto quel che bramavo da mesi, non mi avanzava l’immaginazione per pianificare il futuro.
Lo ucciderai e poi? Avrei dovuto chiedermelo, ma non pensavo più.
Mi concessi un lungo bagno; immobile, con gli occhi chiusi, lasciavo che l’acqua tiepida mi coprisse quasi fosse un amnio. In quell’ovattato silenzio, il mio cuore batteva lento come non mai. Dopo settimane, mi sentivo piena. Che fossi gravida di un feto mostruoso, d’altra parte, non m’interessava quanto aiutarlo a vedere la luce.
 
 
 
Trier non disponeva di vere e proprie carceri. Sebbene eventi criminosi avessero interessato anche Eleutheria, il Collegio preferiva allontanare la feccia, che non tenerla in cattività. Come Luthien aveva sperimentato sulla propria pelle, l’ipocrisia era il compromesso su cui si fondava la supposta perfezione del nostro mondo, poiché bastava una piccola deviazione a renderti invisibile.
Anche la guerra – prima, almeno, di Koiros e della sua armata – era destino delle terre di confine.
Trier, immacolata e intoccabile, non apriva le porte ai massacri: non, almeno, sino all’avvento della donna uccello.

*

Abbandonai la vasca, rifuggendo lo spettro che lo specchio rifletteva.
Le chiome ramate, vessillo di un antico splendore, non potevano ammorbidire il deserto che ero diventata.
Non m’importava: Dendre era Bellezza. Leya di Trier, invece, sarebbe stata la lama di una nuova Giustizia.
Mi abbigliai da soldato, perché quello era lo spirito con cui volevo sfidare il Drago Nero e, forse, la verità che desideravo cogliesse.
Ero stata fertile e felice, una donna bella e debole: lui mi aveva trasformato in una fiera.
La fiera che l’avrebbe sbranato.
 
Nephyl aveva tradotto i prigionieri nei sotterranei del Gymnasium. “Abbiamo diviso gli ostaggi e isolato il Drago Nero,” mi comunicò, scortandomi fino al loculo in cui Vinus era detenuto.
“Non ci sono stati segni di ribellione, al momento, ma è meglio che non sappiano dove si trova il principe.”
Annuii con la soddisfazione che viene dal sapere che tutto, finalmente, ha trovato un suo ordine.
I miei passi rintoccavano cupi sulla nuda pietra.
Mi cercavo con gli occhi di Vinus e ne assaporavo il terrore.
 
Tic toc.
Sto arrivando, Drago Nero.
Tic toc.
Ora saprai cosa significa mordere.
 
“Vorrei restare sola con il prigioniero.”
Nephyl mi rivolse un’occhiata scettica, ma non osò contestarmi: sapeva che, ferito e in ceppi, il principe di Lephtys non rappresentava una minaccia per la mia vita.
Non avrei detto altrettanto di me, con riguardo alla sorte del Drago Nero.
Vinus era stato incatenato al muro. Pesanti bracciali gli sfregiavano i polsi, stringendo la carne nuda; i capelli d’argento, intrisi del suo stesso sangue, erano ormai quasi neri. Se ne stava a capo chino, né lo sollevò come la pesante porta di quercia si aprì per annunciargli un ospite inatteso.
Era il ritratto della sconfitta e tanto mi bastava a fremere di soddisfazione.
“Vinus di Venusya, fatti riconoscere.”
Un suono flebile e rauco rimbalzò tra le nude pareti, ferendo il mio orgoglio con la violenza di uno schiaffo ben assestato: il cane si faceva beffe di me.
Strinsi i denti.
Vinus rideva, te ne accorgevi dal lieve sussultare del torace devastato.
La sua pelle candida era un tappeto di cicatrici, perdeva sangue come un verro macellato, eppure godeva nell’umiliarmi?
“Forse non mi hai sentito bene…” Questa volta la mia voce somigliò a un ringhio. Lo raggiunsi e, senza pensare, lo strattonai per le chiome luride sino a fissarne gli occhi: erano di un rosa opalescente. La lama sottile della pupilla d’ophelide divideva a metà la maschera rabbiosa di una predatrice predata.
Sebbene inerme, era più forte di me, perché non mi temeva.
“Forse non hai ben chiara la tua posizione, Vinus.” Vomitavo il suo nome quasi fosse bile. “Sarò io a giudicarti.”
Il Drago Nero sorrise, scoprendo i denti. “E questo dovrebbe preoccuparmi?”
Sorrisi anch’io e forse colse sulle mie labbra l’ombra della follia, perché un velo gli oscurò lo sguardo.
Era paura.
“Più di quel che immagini,” gli sussurrai all’orecchio, prima di abbandonare la presa.
Strofinai il palmo sulla coscia; un gesto pieno, al contempo di rabbia e di disgusto.
“Non immaginavi che sarebbe arrivato questo giorno, vero?”
Il mio tono era sprezzante; le mie dita, strette al pugnale di Rael, trovavano conforto nel freddo metallo dell’impugnatura.
“Sono un soldato. Non ci è chiesto d’immaginare.”
Non avevamo mai parlato, noi due; non davvero. Ora scoprivo che la sua voce aveva un timbro gradevole, che era più morbida di quella di mio fratello, eppure fredda come gli accenti di Rael non sarebbero mai stati.
Era la lingua di uno abituato al silenzio, più che alle parole. Una lingua da soldato.
Sguainai il pugnale e mi avvicinai di nuovo. Vinus, tuttavia, non chiuse gli occhi, né abbassò lo sguardo: non lo fece nemmeno quando il filo della lama carezzò la carne del suo collo.
“Non hai paura?”
Ancora quel sorriso. Quel maledetto, orgoglioso, freddissimo sorriso.
“Non credo che tu abbia abbastanza forza da sgozzarmi. Non è facile come credi, sai?”
Serrai i denti e affondai un poco: la grana pallida si tese, prima di eruttare qualche grossa bolla scarlatta.
“Non esserne tanto sicuro.”
Vinus non mosse un muscolo.
Mi aveva messo alla prova e avevo fallito: non ero un’assassina. Lo desideravo, sì, ma la mia volontà era più fragile del braccio.
“Non farti strane idee,” sussurrai. “Voglio che la tua sia un’esecuzione pubblica. Un’esecuzione esemplare.”
“Sei una donnetta patetica.”
Schiusi le labbra, ma non ne uscì un fiato.
Vinus non si arrestò: aveva promesso a Haga che sarebbe caduto da re; tutto quel che gli restava della corona, in fondo, era il suo orgoglio.
“Puoi ammazzarmi, se vuoi. Puoi minacciarmi, ma non cancellare la sostanza di quello che sei.”
Scoprì le zanne – e non per sorridere.
“Koiros vi macellerà.”
Usò proprio quell’espressione: macello.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
“Ci rivedremo…”
Gli sferzai il viso, poi gli strinsi il mento e annegai nella trasparenza dei suoi occhi. “Taci,” ringhiai, affondando le unghie nella carne. “Ogni tua parola, ogni tua provocazione si aggiungerà alla clessidra che definirà il tempo della tua agonia.”
Sollevai il pugnale. “Perché quello che mi hai fatto dovrà essere pagato mille volte tanto.”
“E cosa ti avrei fatto?”
La voce di Vinus non mostrava le ipocrite sfumature della menzogna: non ricordava il massacro di Lukas. Ai suoi occhi, il mio primo amore era uno scomodo ostacolo da abbattere.
Un niente.
E la mia felicità era salita come polvere al cielo.
Era volata via.
Abbandonai la presa dal mento, per afferrargli di nuovo i capelli. Le ciocche pesavano tra le mie dita e opponevano al taglio una resistenza inaspettata.
“Tu mi hai tolto tutto.”
Furono le ultime parole che gli rivolsi, prima di affondare la lama in quel mare d’argento e falciare: mietere la sua bellezza, la sua dignità regale, il suo status di guerriero perfetto.
Era nato per essere il primo dei re? Ebbene: l’avrei mandato a morire come l’ultimo dei cani.

*

Immagino che qualcuno si domandi perché, ai miei occhi, fosse tanto importante accanirsi su qualche ciocca, se avevo la possibilità di sgozzarlo: l’obiezione è legittima, ma non tiene conto della mia intelligenza, né della quota spaventosa di rancore che covavo nel cuore. Sapevo che la morte del Drago Nero mi avrebbe lasciato ancora più vuota ed esausta, dunque dovevo trasformarla in una fastosa, devastante celebrazione di morte.
La sua.
La mia.
Forse somigliavo a Koiros. Nella tortuosa raffinatezza del sadismo senz’altro.
Spogliare un ophelide dei capelli equivaleva a castrarlo: era stato mio padre a insegnarmelo, sebbene con altre parole e con quella pudica grazia che non ho ereditato.
 
“Presso i dracomanni, le chiome sono un simbolo di virilità: quanto più forte è un soldato, tanto più lunghi sono i suoi capelli. Ai cuccioli, nei fatti, non è concesso di lasciarli crescere finché non superano la prova destinata ad ammetterli all’aristheia. Sino a quel momento, avranno il cranio rasato, come le femmine.”
 
Con queste parole, Leonar mi spiegò perché, dal tredicesimo anno in poi, Rael fosse stato sottratto alle efficienti cesoie di Luthien.
 
“Vorrei che conservasse almeno il costume della sua gente. Se poi un giorno vorrà rinunciarvi…”
 
All’epoca scossi il capo e derisi le malinconie di mio padre con il velato disprezzo degli animi immuni alla poesia.
Davanti al manto d’argento di un principe caduto, però, la lusinga della metafora vinse il pragmatismo.

Sei un perdente, Vinus di Venusya: lo vedranno tutti.
 
Gli toglievo i capelli per umiliarlo.
Gli toglievo i capelli come avevo perso i miei: la vendetta passava per il contrappasso.
Quando riposi la lama, la pietra era coperta da soffici e candidi bioccoli. Il mio nemico, però, non aveva perso quell’oltraggiosa bellezza che tanto offendeva il mio sguardo: privato delle chiome, invece, pareva solo più impavido.
E adesso? Sei soddisfatta? suggerivano i suoi occhi. Non avevo il coraggio di darmi una risposta che mi avrebbe visto comunque perdente.
No, non ero soddisfatta: non ero riuscita a piegarlo.
Abbandonai la cella in preda a una violenta irritazione: quale fosse il gioco che stavo giocando, non ero io a dettare le regole; non quelle davvero importanti, almeno.
“Avete già finito, Magistra?” mi chiese Nephyl, come ci ritrovammo nel portico del Gymnasium.
Scossi il capo. “Non ancora, ma era quanto mi aspettavo.”
Mentivo per proteggermi: negli anni, almeno, potevo ben dire di aver affinato quell’abilità.
“Chi, dei nostri fabbri, è il più abile e forte?”
Il Generale mi fissò con un misto di curiosità e timore panico: mi conosceva abbastanza, ormai, da temere i guizzi d’ingegno della rocca di Trier.
“Seith l’orbo,” replicò dopo una breve riflessione. “È uno degli anziani della corporazione.”
“Fallo chiamare. Ho un incarico per lui.”
“E quale, se posso?”
Sorrisi. “Ho bisogno di una gogna. E di un boia.”
Nephyl sussultò, ma il suo sgomento non intaccò il nucleo feroce della mia determinazione.
“Ordinerò che Vinus di Venusya sia esibito nella Piazza del Mercato, prima della sua esecuzione pubblica e dopo il taglio della coda.”
“Credo che queste decisioni debbano essere assunte…”
“… Dal collegio,” conclusi, “dunque non è un vostro affare, Generale. Voi preoccupatevi solo che tutto sia conforme al mio bisogno.”
Dissi mio e feci bene: non rappresentavo Eleutheria in quel momento.
Forse non parlavo nemmeno per conto di Leya.

*

Il giorno in cui Vinus fu decaudato fu anche quello in cui mio fratello decise di uscire dall’ombra.
Dopo lo scontro che ci aveva opposti, non l’avevo più visto e Rael si era guardato bene dal capitarmi davanti: sapeva di non potersi più fidare di me, dunque riduceva al minimo il rischio.
Se l’idea di riscattare Vinus era stata poi in partenza un’illuminazione fumosa, il mio accanimento sciolse in modo definitivo i suoi dubbi.
Aveva un piano, soprattutto, Rael: un piano che avrebbe potuto salvare Eleutheria.

*

Come il Generale aveva tentato di ricordarmi, la Makemagistra non disponeva dell’autorità di uccidere: un conto era la guerra, un conto un’esecuzione. Quel che Nephyl non aveva calcolato, tuttavia, era la paura che aveva ormai eroso ogni scrupolo, ogni lucidità residua. Dei decani, solo Leonar si oppose alla tortura e alla decapitazione pubblica: gli Ygei di Trier si consegnarono alla mia follia.
Non posso permetterti di cadere. Non posso permetterti di affondare: da qualche parte, la voce di Rael pungeva, ma la mia ostinazione ne vinceva l’eco.
Pensavo alla pira di Lukas, ai vent’anni che non avrei più avuto: la memoria era sale su una ferita suppurante ed ero proprio io a spargerne manciate.
Io, non Vinus.
 
Incatenato, lo feci condurre alla Piazza del Mercato. Tutta Trier era accorsa, massa giubilante di rancore.
Sfilavo alla testa della processione, a cavallo di uno stallone bianco. Ero la Giustizia e, come tale, immacolata, sebbene il mio cuore fosse cancrena.
Vinus arrancava a fatica, ma a testa alta. Agli insulti e alle pietre rispondeva con quel suo sguardo durissimo, da sovrano e condottiere.
Se la sua comparsa era stata accolta da lazzi e grida sguaiate, poco a poco fu solo silenzio.
Seith l’orbo lo aspettava là dove avevo predisposto il palco per l’esecuzione: era un omone stagno, dalle mani grosse come pale; nella destra stringeva una scure.
Vedevo la lama affilata brillare nel sole e inghiottirne tutta la luce. Mi chiesi cosa stesse provando il Drago Nero e mi augurai che tremasse. Ai miei occhi bui, tuttavia, rispose un ghigno sprezzante.
Non avrai più voglia di ridere molto presto, pensai; poi smontai da cavallo.
Gli uomini di Nephyl lo trascinarono sul palco. Il principe di Lephtys fissò la croce che vi era stata piantata con un misto di distacco e curiosità. “Incatenatelo.”
Non avrei potuto vederne la bellissima faccia sfigurata dal dolore, ma sapevo che non sarei rimasta delusa: quando la scure del boia si abbatté alla radice della coda del dracomanno, infatti, Vinus levò un urlo così acuto da sgretolare il cielo.
Fissai la grottesca appendice squamosa dibattersi ai miei piedi, finché non la schiacciai con il tacco.
Quando sollevai lo sguardo, avevo una lama piantata alla gola.
“Ti avevo avvertito,” ringhiò Rael, mentre si faceva scudo con il mio corpo. “Sciogliete il prigioniero o sgozzerò la Magistra.”
Un silenzio sepolcrale investì la piazza.
Adesso.”
 
Il futuro non apparteneva agli uomini: era giunto il tempo che mi rassegnassi a quell’evidenza.

   
 
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