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Autore: IoNarrante    09/12/2011    2 recensioni
Quarta classificata al contest ''In sei ore'' e al contest ''Io zombo, tu zombi, egli zomba''
Gabriele odia passare interi pomeriggi all'università a causa delle ore di buco tra le lezioni e le esercitazioni di Chimica Organica, precisamente sei, e non sa davvero come impiegare il tempo.
Purtroppo per lui, uno strano odore proveniente dal Dipartimento di Genetica e una successiva esplosione rendono il suo pomeriggio tutt'altro che noioso.
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TITOLO: The Sixth hour
GENERE: Soprannaturale, Horror
RATING: Giallo
AVVERTIMENTI: Nessuno.
NOTE: è la prima storia che scrivo che tratta di questo tema, spero possiate apprezzare.



The sixth hour
Questa OS partecipa al contest In sei ore
indetto da Vienne

Sono convinto che anche nell’ultimo istante della nostra vita,

abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.
[G. Leopardi]

The first hour: 12.43
Il sole di mezzogiorno splendeva alto nel cielo, illuminando il grande prato dell’Università. Una schiera di studenti si era accampata sui propri giacconi per godersi quel pomeriggio di Dicembre insolitamente caldo, tirando fuori palloni, libri e cibarie di ogni tipo. Non tutti, però, si trovavano lì per libera scelta. Alcuni erano stati costretti.
Gabriele scartò il suo panino al tonno con aria svogliata, pensando che le sei ore che lo dividevano dalle esercitazioni di Chimica Organica non sarebbero mai trascorse. Quel dannato professor Passacantilli aveva deciso di prenotare l’aula per il laboratorio ad un orario indecente, che scombinava tutti i piani della giornata ai ragazzi e non si era minimamente curato di chiedere loro se la scelta fosse condivisa dall’intero canale A-Da.
Fascista, misogino del cazzo, – pensò Gabe, dando il primo morso al suo pranzo – Sei ore, cazzo, sei dannatissime ore. Cosa mai avrebbero potuto fare per ingannare l’attesa?
«Dobbiamo per forza andarci?» Si lagnò Mirko, puntando i suoi occhi nocciola in quelli scuri di Gabe. Addentò la sua pizzetta rossa acquistata al bar della facoltà e accartocciò la stagnola con aria sconsolata.
«Altrimenti non sarebbero obbligatorie.» Osservò lui con ovvietà, ingurgitando l’ultimo pezzo di panino.
«Che cazzo,» esclamò Federico, il terzo membro della compagnia. «Sono quasi sei ore a tempo perso».
I tre si lasciarono andare ad un silenzio meditativo, sapendo che non c’era altro da fare.
I ragazzi attorno sorridevano felici e spensierati, trascorrendo quella giornata calda e soleggiata in compagnia. C’era chi trascriveva la lezione al computer, chi sfogliava distrattamente il libro di testo e chi si crogiolava al sole. Gabe aveva provato ad aprire il Brown – il testo di Chimica Organica –, ci aveva provato davvero, ma quando era arrivato alla parte delle molecole cicliche, con le proiezioni a sedia e a barchetta, aveva deciso di impiegare il suo tempo in modo più costruttivo
[1]. Non avrebbe mai capito nulla di chimica, ormai era più che assodato, e spesso si domandava quale malattia mentale l’avesse spinto ad iscriversi lì.
No, lui non era uno di quegli studenti che avevano ripiegato su Biologia non avendo passato il test alla tanto ambita facoltà di Medicina. No, lui aveva proprio scelto volontariamente di andare a Scienze Biologiche, forse motivato dalla sua passione per il mare e per il sub. Durante il suo primo anno di corso, aveva conosciuto Mirko ed erano diventati amici. Federico, invece, era un medico mancato e, non avendo superato l’Alpha-test nemmeno per il secondo anno di fila, aveva deciso di continuare con loro.
Ora si ritrovavano tutti e tre lì, seduti sul prato davanti al centro di informazioni della Sapienza, con l’aria afflitta di chi ha ricevuto una notizia terribile.
«Ehi, Gabe. Cosa suggerisci di fare per ingannare il tempo?» chiese il biondo, dando un calcio all’altro ragazzo ormai del tutto perso nelle sue elucubrazioni. Gabriele scosse la testa e rivolse la sua attenzione all’amico, non riuscendo però a togliersi di dosso una strana sensazione. Era da un po’ che la sentiva, come se nell’aria ci fosse qualcosa di diverso dal solito. Un odore strano.
Si diede mentalmente del paranoico e scrollò le spalle. «Che vuoi che ti dica? Ce ne stiamo qui, ci trastulliamo al sole e poi ci trascineremo da una parte all’altra dell’Università come i fancazzisti quali siamo» sghignazzò, togliendosi la kefiah e accarezzandosi la testa rasata.
Gabe si sdraiò sulla schiena, tirandosi su le maniche del maglione color ghiaccio, poi incrociò le mani dietro la nuca e sentì il calore del sole baciargli le guance ispide. Tutto sommato non era così male starsene sbracati senza far nulla. Era di certo il suo sport preferito e sua madre soleva ripeterglielo ogni volta. Inspirò a fondo l’aria fresca di quella giornata di Dicembre, spalancando gli occhi solo quando avvertì quello strano odore ancora più intenso.
Era come se l’aria fosse impregnata di naftalina, o qualche altro agente chimico che non sapeva ancora riconoscere. Tentò di pensare ad altro, in fondo si trovavano all’università ed era normale che si facesse ricerca all’interno degli edifici circostanti.
«Ma che è ‘sta puzza immonda?» Protestò disgustato Federico.
«Naftalina, me pare.» Ipotizzò Gabe, aprendo pigramente un occhio.
Allora non era l’unico a sentire quell’odore orrendo.
«Viene da lì,» indicò Mirko. «Dal dipartimento di Geneti…» Ma le parole furono superflue quando un boato riempì i dintorni della piazza di fronte al CIAO. I vetri dell’edificio esplosero, riversando nell’aria una nuvola gravida di fumo nero che riempì il cielo terso di quella giornata. I ragazzi attorno a loro rimasero attoniti, fissando le esalazioni probabilmente tossiche che uscivano dal dipartimento di Genetica e si mischiavano all’ossigeno contenuto nell’aria.
Furono sufficienti pochi secondi, il tempo di elaborare quello che era successo, prima che il panico si allargasse a macchia d’olio: studenti e professori cominciarono a correre in direzioni diverse, alle volte scontrandosi tra loro, sembrando una mandria di bufali impazziti. Gabe sembrava non riuscire a staccare i piedi dal suolo. Con gli occhi spalancati in direzione dell’edificio semi-distrutto, sentiva di dover allontanarsi ma non ci riusciva. Davanti al suo sguardo, il fumo nero si dispiegava diventando a mano a mano più diluito e sfumando dal color ematite, fino a divenire grigio chiaro.
«Muoviti Gabrie’!» Gridò Mirko, tentando di strattonarlo per la giacca. «Che stai aspettando?»
Gabriele avrebbe dovuto seguire l’istinto, fuggire, ripararsi da qualcosa di potenzialmente pericoloso, ma era più forte di lui.
Non si mosse. In qualche modo sentiva che non era stato un semplice incidente, magari un fornelletto lasciato acceso su una beuta contenente una soluzione instabile termodinamicamente. C’era qualcosa nel colore di quel fumo, un presentimento che non riusciva ad abbandonarlo.
«Aspetta, voglio capire cosa è successo.» Mormorò sicuro, dando libera scelta ai suoi due amici di tornarsene a casa.
La curiosità lo stava divorando. Se a quell’ora avesse dato retta al ragazzo biondo, non si sarebbe mai trovato in lotta tra la vita e la morte. Se fosse tornato a casa in quel preciso istante, forse avrebbe potuto rivedere i suoi genitori ancora una volta. Il destino lo aveva messo di fronte ad un bivio quel giorno ma Gabriele aveva preso la strada sbagliata.

The second hour: 13.26
Passò una mezz’ora dall’incidente e le sirene dell’ambulanza avevano sovrastato le grida della gente che ancora fuggiva in strada. Poco dopo arrivarono anche i pompieri e le pantere della polizia che transennarono la zona con il nastro bianco a strisce rosse.
L’incendio all’interno dell’edificio fu domato quasi subito e il personale fu fatto evacuare. L’esplosione era stata violenta: c’erano molti feriti, questo era evidente dalla quantità di paramedici che entravano ed uscivano dalla porta a vetri ormai frantumata, ma fino ad ora nessuno era uscito nel sacco nero da cadavere.
Per fortuna.
Iniziò a camminare verso l’edificio. Gli sembrava di essere in una città deserta, colpita da qualche catastrofe.
«Vado a vedere cosa è successo.» Annunciò, recuperando il suo zaino e posandoselo in spalla. Sentiva ancora la presenza di Mirko e Federico alle sue spalle, ma non avrebbe mai voluto costringerli a seguirlo.
L’aria densa di fumo e ingrigita dalla nebbia era irrespirabile. Si faceva fatica a vedere ad un palmo da proprio naso, ma le luci lampeggianti delle ambulanze e delle pantere della polizia indicarono a Gabe il cammino. Arrivato vicino all’area transennata, notò con stupore che una folta folla di curiosi si era radunata attorno al luogo del misfatto. Cercò di farsi strada tra la gente per raggiungere la testa di quella infinita bolgia, quando notò la presenza di un poliziotto in borghese che tentava di calmare gli animi.
«È tutto sotto controllo, non c’è nulla da vedere. Tornate alle vostre attività e lasciate lavorare il personale.» Continuava a ripetere a chiunque gli chiedesse qualche informazione.
Gabriele pensò che i piedipiatti fossero tutti di una stessa razza: da evitare.
«Ma cosa è successo?»
«Perché tutto quel fumo?»
«È qualcosa di tossico?»
Ovviamente ognuno dei presenti tentava di estrapolare qualche informazione in più, ma il poliziotto ignorava ogni richiesta ripetendo tutte le volte quella frase. Gabriele sentiva le budella attorcigliarsi dalla curiosità, mentre tentava di farsi largo a gomitate come se si trovasse ad un concerto dei Sud Sound System. Sudò sette camicie per raggiungere la testa della fila, facendo di tutto per farsi sentire.
«Ehi! Ehi, amico?» Chiamò il tizio in borghese, allungando una mano e tentando di catturare la sua attenzione. «Si può sapere cosa cazzo è successo?»
Gli occhi del poliziotto lo individuarono immediatamente e si assottigliarono in un’espressione severa non appena constatarono com’era abbigliato. Era abituato ad essere fissato in quel modo, con quell’aria di sufficienza. Aveva numerosi piercing, qualche tatuaggio sparso qua e là sul corpo, ma quello che lo rendeva oggetto di critiche era la sua capigliatura quasi rasa. Andava molto fiero di quel taglio e la diceva tutta sul suo essere anticonformista. Purtroppo la pula
[2] non la pensava come lui, anzi, tendeva inevitabilmente ad addossargli un’etichetta che si sarebbe portato addosso tutta la vita.
Dannata apparenza.
«Torna a farti le canne, ragazzino.» Gli rispose quello, sfoderando un ghigno di sfida che fece prudere le mani a Gabe.
Ingoiò l’insulto che gli avrebbe fatto scattare immediatamente la denuncia, ma non demorse.
«Abbiamo il diritto di sapere!» Gridò ancora più forte, sostenuto dalle parole di incoraggiamento degli altri curiosi.
Il poliziotto lo ignorò completamente questa volta e si rivolse al resto della gente. Per lo più si trattava di ragazzi come lui, forse più grandi, ma c’erano pochi adulti tra la folla.
«Tornate a lezione, ragazzi. Qui è tutto sotto controllo.» Ripeté l’agente di polizia, invitando la folla ad andarsene.
In quello stesso istante, dall’edificio di Genetica semidistrutto uscirono le prime barelle e Gabriele si sentì ancor più schiacciato contro le transenne. Caricarono i corpi dei feriti sulle ambulanze e partirono immediatamente per il Policlinico Umberto I. Proprio quando sentiva di poter perdere il fiato per quanto la sbarra di metallo gli stesse schiacciando la gabbia toracica, i suoi occhi fissarono un uomo in camice che parve riconoscere.
«Professore!» Gridò, riconoscendolo nonostante fosse sporco di fuliggine e totalmente disorientato. «Professor Cicchetti!»
In tutto il trambusto che c’era lì intorno, l’uomo anziano passò davanti alle transenne senza accorgersi di nulla. Gabriele tentò di uscire da quel marasma il più in fretta possibile, spintonando a destra e a manca gli altri ragazzi. Corse verso le ambulanze parcheggiate sul retro, stando attendo ad evitare lo sguardo del poliziotto, per poi assottigliarsi tra le autovetture e riuscire finalmente a passare inosservato.
Individuò il professore di Genetica seduto su uno dei gradini della facoltà, con la testa tra le mani e l’espressione ancora confusa. Si sfilò lo zaino e lo appoggiò sull’asfalto, procedendo nascosto dalle ambulanze per non rischiare di essere arrestato.
Raggiunse il professore proprio quando sembrava che la gente avesse capito che non c’era nulla da fare e si stava allontanando dal luogo dell’incidente. Il poliziotto aveva più occhi per controllare la situazione e Gabe aveva pochissimo tempo prima che lo scoprissero.
Non appena gli occhi del professore di Genetica lo individuarono, Gabe si accucciò per non essere visto e tentò di stabilire un contatto con l’uomo.
«Che ci fai qui, ragazzo?» Chiese il professore stupito. «È pericoloso, non puoi rimanere qui. Potrebbe esserci un’altra esplosione!»
Gabriele non aveva paura del pericolo, almeno non in quel momento. L’adrenalina che scorreva nelle sue vene avrebbe potuto fornirgli la forza di scalare una montagna a mani nude.
«Professore, cos’è successo lì dentro?» Chiese subito, senza dar occasione all’altro di poter replicare o di mandarlo via.
L’uomo aveva gli occhi stanchi e un’espressione distrutta in volto. Dopo tutto quello che aveva passato era più che plausibile, ma Gabe aveva bisogno di risposte. Subito.
«Si è trattato di un semplice incidente,» sospirò, abbassando lo sguardo. In quel momento notò che i capelli bianchi erano un po’ bruciacchiati sulle punte, mentre il collo era sporco di fuliggine. «Un’aggiunta di acido solforico, qualche goccia in più…» Soffiò. «Non avremmo dovuto farlo.»
Gabriele fissò il suo sguardo in quello del professore, senza riuscire a cavare un ragno dal buco. Nonostante tutta la fatica che aveva fatto per cercare risposte, nessuno era stato ancora in grado di fornirgli delle informazioni concrete. Il professor Cicchetti aveva parlato di un esperimento riuscito male, fin lì ci sarebbe arrivato anche da solo, ma dentro il suo stomaco c’era ancora annidata quella stranissima sensazione che stesse nascondendo qualcosa.
«Professore, cos’è che non avreste dovuto fare?» Insistette, sperando di riuscire a spillargli qualcosa.
In quel preciso istante sentì degli scalpitii dietro le sue spalle e si voltò spaventato che potesse trattarsi del poliziotto di prima.
«Ehi, bello. Cos’hai scoperto?» Fortunatamente erano Mirko e Federico.
Anche loro si accucciarono per non essere notati, ma sarebbero durati ben poco. Appena l’agente si fosse voltato, li avrebbe visti a confabulare con il professore, reduce da un incidente più che pericoloso.
Il professor Cicchetti li guardò tutti con un’aria sconsolata e irrimediabilmente confusa, poi si portò le mani tra i folti capelli bianchi. «Ragazzi, andatevene di qui! Ascoltatemi.» Sospirò affranto.
Gabriele ebbe la conferma ai suoi sospetti, perché era evidente che c’era molto di più di quanto lasciassero trapelare. Era successo qualcosa in quel laboratorio. Tutti i suoi sensi erano all’erta e non si trattava solamente di un presentimento e Gabe sapeva di dover scavare più a fondo in quella faccenda.
«Professore, cos’è successo esattamente?» Chiese un’ultima volta, catturando tutta l’attenzione dell’uomo anziano.
Rosario Cicchetti spalancò gli occhi e li specchiò in quelli del suo studente. Aprì e richiuse la bocca più volte, strofinandosi ossessivamente il collo nel punto in cui la camicia sfiorava la pelle rugosa. Era indeciso su cosa fare, se dire loro la verità oppure tacere. Evidentemente si trattava di un peso troppo grande da portare da solo, forse sarebbe stato meglio condividerlo con qualcuno.
«È successo qualcosa nel laboratorio,» cominciò, facendo battere il cuore di Gabriele. «Stavamo manipolando il genoma, un esperimento innocuo in realtà, molto semplice. Si trattava di risequenziare le basi azotate in modo da revitalizzare le cellule morte.»
«E poi?» Chiese Federico, assorto nel racconto come tutti loro.
Proprio quando erano ad un passo dal scoprire la verità, dal venire a capo finalmente di tutto, il poliziotto si voltò e li vide.
«Ehi, voi! Cosa ci fate lì?» ringhiò, tirando fuori la ricetrasmittente e chiamando gli altri suoi colleghi.
«Cazzo, dobbiamo squagliarcela!» urlò Mirko, fuggendo per primo.
Gabriele non poteva andarsene, doveva avere le sue risposte a rischio anche della galera. Gli mancava poco, solo due o tre parole in più.
«Professore, la prego!» insistette, sperando che l’uomo accelerasse il discorso.
Purtroppo vide il grigio dei suoi occhi spegnersi e il professore rientrò in quello stato confusionale che lo aveva disorientato fino a poco prima.
«Gabe, muoviti! Dobbiamo andare!» Gridò Federico, cominciando a strattonarlo per la giacca.
Gabriele riuscì ad afferrare la mano del suo professore e quello lo fissò negli occhi. Per un attimo che parve infinito, i due si scambiarono mute informazioni. Avrebbe voluto chiedergli di più, sapere cosa fosse realmente successo lì dentro per ridurre un uomo come Cicchetti in quelle condizioni.
«Non tutto finisce.» Mormorò poco prima che le loro mani si allontanassero.
Venne tirato via da Federico, che lo aveva afferrato per la giacca e tentava di portarlo lontano a forza. Non riuscì a comprendere fino in fondo le parole del professore, pensò le avesse dette in un momento di puro delirio, ma poco prima di scomparire dalla sua visuale, l’uomo si voltò, grattandosi ancora una volta quel punto dietro l’orecchio, vicino al colletto della camicia.
Fu in quel preciso istante che a Gabe parve di vedere il segno distinto di un morso sulla pelle coriacea del suo professore.

The third hour: 14.50
Non tutto finisce.
Quelle parole rimbalzavano nella mente del giovane Michelli da quando era stato costretto a lasciare il cortile di fronte al dipartimento di Genetica. Il professore era stato vago sulle informazioni riguardo l’incidente e Gabe sentiva addosso ancora quella sensazione che non lo aveva più abbandonato da quando era iniziato tutto.
Si erano trascinati fino al nuovo edificio di Chimica, che si trovava poco distante dal dipartimento e, come tutto lì intorno, era completamente deserto. Si udivano in lontananza i telefoni squillare a vuoto, mentre quella desolazione metteva addosso ai ragazzi un certo senso di smarrimento. Si erano seduti sulle scale, appena entrati nella facoltà, e non avevano nemmeno avuto la forza di salire i primi gradini.
Erano stanchi e provati da quello che era successo, nonostante continuassero a ripetere che si era trattato di un semplice incidente.
Come se gli incidenti potessero essere semplici, si ritrovò a constatare Gabe.
«Secondo voi, dovremmo tornarcene a casa?» Ipotizzò Mirko, fissando distrattamente il soffitto.
«Non lo so, amico,» sbuffò Federico, sgranchendosi le gambe. «Avemo fatto trenta…
[3]» e lasciò la frase in sospeso, sottintendendo che mancava poco all’ora stabilita.
Gabriele era piuttosto silenzioso e per i suoi amici non era un buon segno. Se ne stava chino a giocherellare con il mazzo di chiavi del suo motorino, mentre teneva lo sguardo fisso in un punto.
«Te che dici, Gabrie’?» Gli chiese il biondo, dandogli un colpetto sulla spalla.
Fu proprio dopo quel contatto che il ragazzo si rese conto di essere stato completamente assente. Si era fissato sull’ultima frase detta da Cicchetti, come se tre parole dette in preda al delirio, avessero conservato un significato nascosto.
«Di cosa?» Domandò confuso, riemergendo solo in quel momento nella realtà che lo circondava.
Federico sbuffò sonoramente, mentre Mirko sorrise. «Se damo, oppure restamo per quel cazzone del Passacantilli?» Ripeté il ragazzo biondo.
Gabe comprese qual era il problema e soppesò la situazione. Certo, ormai l’Università era del tutto deserta e alle famose esercitazioni del Passacantilli non sarebbe venuta anima viva, nemmeno il professore – ne era più che certo –, ma dall’altra parte rimanere in zona gli avrebbe permesso di racimolare più informazioni su quanto era successo.
Quale sarebbe stata la scelta giusta? Era ancora di fronte ad un bivio e non sapeva dove andare.
Fu il fato a decidere per lui questa volta, o meglio, un vociare distinguibile al piano di sopra, proveniente da un’aula che Gabe conosceva bene. Sgranò gli occhi neri e li fissò in quelli degli altri.
«Avete sentito?» Chiese, rivolgendosi ai ragazzi.
Mirko tese le orecchie e si concentrò, mentre Federico alzò gli occhi al cielo. Era chiaro che volesse tornare a casa, l’aveva fatto intendere già dall’inizio ma Gabriele sentiva di essere vicino alla soluzione e non voleva rinunciarvi.
«Delle voci, al piano di sopra.» Sussurrò Mirko e quella risposta fu sufficiente per Gabe.
Prese lo zaino e se lo mise in spalla, correndo per le scale come un forsennato e raggiungendo il secondo piano in pochi minuti. Si appoggiò al corrimano, inspirando ed espirando velocemente, poi comprese che aveva fatto bingo.
Le voci di alcune persone provenivano proprio dall’Aula II, dove lui aveva seguito il corso di Anatomia Comparata, e si affrettò ad entrare stando ben attento a non farsi scoprire.
Mirko e Fede lo raggiunsero subito dopo e si acquattarono con lui.
«Quindi il processo ha funzionato. Siete riusciti a risequenziare il genoma di quelle cellule morte.» Disse una voce appartenente ad un uomo.
«Il professor Cicchetti e la sua equipe sembrano aver raggiunto l’obiettivo.» Fece eco una donna, forse anche lei una ricercatrice.
«Fatemi capire bene:» tuonò di nuovo quell’uomo.
Gabriele si sentiva a disagio e aveva la sensazione che quel tipo non lavorasse all’interno dell’università. Era avvezzo al comando, lo si poteva dedurre dall’inclinazione dura nella sua voce.
«Cos’è che dovremmo aspettarci, lì fuori?»
I ragazzi sentirono diverse persone confabulare tra loro e, tra esse, riconobbero anche qualche loro insegnante. C’era la professoressa Gironi, la Terenzi e perfino quel babbeo dell’assistente del Passacantilli.
La donna di prima prese la parola e il mostro che Gabe sentiva in fondo alle viscere, cominciò a risvegliarsi. «Non sappiamo come spiegarlo, Generale»
Aveva proprio detto Generale?
«La dottoressa Lorenzi ha iniettato il nuovo genoma in un campione preso nel laboratorio di medicina legale. Abbiamo aspettato i responsi e l’esperimento è andato a buon fine, ci siamo perfino complimentati, ma poi…» e lì si interruppe.
«Poi, cosa?» Insistette il ‘generale’.
Non c’era bisogno che finisse la frase, perché Gabriele aveva capito ciò che la donna avrebbe voluto spiegare.
«L’incidente…» e poi cominciò a singhiozzare.
I tre ragazzi si guardarono l’un l’altro e sarebbero rimasti ad origliare ancora se Mirko, per sbaglio, non si fosse sbilanciato e avesse urtato la porta dietro di lui.
«Chi c’è?» ringhiò la voce dell’uomo, udendo chiaramente un’arma che veniva caricata.
Un’arma? Ma dove stavano, in Iraq?, pensò allarmato Gabe, tirando via i suoi amici di lì e scendendo le scale velocemente.
Si riversarono in strada proprio quando avvertirono dei passi giù per le scale e continuarono a correre fino a quando non si trovarono di nuovo sul prato, di fronte al centro di informazioni. Avevano il respiro corto, il cuore in gola, e si fermarono proprio quando sentirono che le forze li avevano quasi abbandonati.
«Che cazzo sta succedendo?» ringhiò Federico, completamente provato.
«Io non voglio rimanere un minuto di più!» S’impose Mirko, con lo sguardo totalmente terrorizzato.
Gabriele non era ancora venuto a capo di tutta la verità ma quella sua voglia di scoperte era stata lentamente sostituita da un brivido d’avvertimento che gli faceva impazzire i sensi. Ogni sua cellula gridava Pericolo! e si ritrovò a pensare quanto fosse stato sciocco.
«Andiamocene di qui!» ringhiò, stringendo il suo zaino e digrignando i denti in una smorfia.
I tre amici si fissarono e dopo un cenno d’assenso ricominciarono a correre verso l’uscita più vicina. La zona era totalmente deserta, non si vedeva più nemmeno la folla di curiosi attorno al luogo dell’incidente. Gabriele continuava a correre, ma passo dopo passo si domandava perché fosse tutto così stranamente tranquillo.
«Cazzo!» Imprecò Federico, fermandosi nel bel mezzo della strada.
«Che c’è?» Chiese Mirko, ma non appena i tre si accorsero della camionetta verde scuro parcheggiata fuori dall’uscita e degli uomini armati che bloccavano il passaggio, ebbero contemporaneamente un tuffo al cuore.
C’erano militari dappertutto: fanteria, marina, aereonautica. Indossavano delle maschere ed erano armati fino al collo, quasi dovessero aspettarsi un attentato da parte di un gruppo terroristico.
Gabriele rimase paralizzato, non poteva credere ai suoi occhi.
«Cosa facciamo?» Domandò Mirko, totalmente dipendente dalle decisioni degli altri.
«Vado a parlarci.» Sentenziò Federico, incamminandosi verso la schiera di uomini in divisa. Sia Gabe che Mirko rimasero immobili, fissandosi senza sapere cosa fare. Era successo tutto così in fretta, gli eventi si erano susseguiti con troppa velocità e nessuno dei ragazzi sarebbe mai stato preparato a questo.
Videro Federico avvicinarsi alla camionetta parcheggiata di sbieco, a sbarrare l’uscita, mentre due uomini armati di carabina gli puntarono le armi contro intimando l’ALT.
«Non muoverti!»
«Rimani dove sei!»
Il ragazzo s’immobilizzò ed alzò le mani in segno di resa. Gabriele sgranò gli occhi, confuso. Non riusciva davvero a capire cosa stesse succedendo attorno a loro. Fino a poche ore fa era sdraiato sul prato a consumare il suo pranzo, mentre adesso si ritrovava in una città universitaria completamente deserta.
«Vogliamo uscire di qui!» urlò Federico, facendo qualche passo avanti.
I militari caricarono i rispettivi fucili, prendendo la mira sul torace del ragazzo. Gabe sudava freddo, sentiva il cuore palpitargli talmente forte da rompergli la gabbia toracica. Adesso aveva la conferma che quell’incidente nascondeva qualcosa di peggiore, qualcosa più grande di lui e di tutti gli altri.
«Vogliamo tornarcene a casa!» Urlò di nuovo, sperando che dessero loro qualche risposta.
Proprio quando i ragazzi pensarono che non avrebbero ottenuto niente da quegli uomini, uno di loro comparve da dietro la camionetta e si avvicinò con una Glock in pugno.
«Allontanatevi.» Intimò, caricando l’arma.
«Perché? Cosa è successo? Lasciateci andare!» Insistette Federico, fino a quando Gabriele lo raggiunse per farlo indietreggiare, prima che quel pazzo potesse sparargli.
«Questa zona è sotto quarantena, non si può uscire né entrare. È sotto controllo militare.» Gridò, puntando la pistola verso l’alto e premendo il grilletto.
Il rombo che seguì lo sparo assordò tutti e tre i ragazzi che, terrorizzati da quello che stava accadendo, raccolsero i loro zaini e corsero il più lontano possibile.
Nuvole dense e gravide di pioggia si erano agglomerate sopra le loro teste, scontrandosi e mandando lampi all’orizzonte. Di lì a qualche ora avrebbe iniziato a piovere, Gabe lo sentiva nell’aria. C’era quel tipico odore di umidità, quell’elettricità nell’aria che annunciava soltanto l’arrivo di un imminente temporale.
Corsero fino a quando mancò loro il fiato. Si appoggiarono ad un muro e Mirko si lasciò scivolare a terra, completamente esausto. Erano intrappolati dentro la Città Universitaria, come dei volgari topi di laboratorio.
«Che cazzo sta succedendo?» Si lagnò ancora il biondo.
«Cosa vuol dire che non possiamo tornare a casa?» Sbottò indignato Federico.
«Quarantena.» Riuscì a sillabare solamente Gabe.
Gli altri due si voltarono verso di lui, spalancando gli occhi e realizzando soltanto in quel momento cosa fosse successo: l’esplosione in un laboratorio, quel fumo nero, l’esperimento sul genoma e infine la quarantena. Era tutto collegato, tutto facente parte di una reazione a catena.
Rimasero in silenzio, contemplando le loro scarpe da ginnastica. Cos’altro avrebbero potuto fare?
«Siamo fottuti.» Sibilò Federico.
«Se chiamassimo qualcuno?» ipotizzò Mirko, tirando fuori il cellulare.
Finalmente aveva avuto una buona idea, ed erano ormai rare arrivati a quel punto.
«Non c’è campo.» Mormorò Gabe, fissando lo schermo del suo.
«Neanche il mio.» Missero quasi in coro gli altri.
Siamo ufficialmente fottuti, rettificò Gabriele nella sua mente.
Erano lontani da casa, nessuno sapeva che fossero lì e non c’era modo di uscire – se non con un buco in fronte. Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi e Gabe pensò che forse sarebbe stato meglio aver dato retta ai suoi amici una buona volta.

The fourth hour: 16.00
Si erano ridotti a camminare in lungo e in largo come fantasmi, trascinandosi verso ogni uscita possibile per poi trovarla sbarrata. L’entusiasmo di scoprire la verità che li aveva motivati all’inizio, era svanito come portato via da una folata di vento. Non c’era nessuno in giro, erano perfino tornati nell’aula dove avevano udito parlare quei ricercatori.
Erano soli.
Tentarono di cambiare strada, di trovare delle scorciatoie, ma avevano transennato tutta la zona e sembrava che nessuno li stesse cercando. Li avevano tagliati fuori dal mondo e ancora non sapevano cosa fosse realmente successo.
«Non ce la faccio più!» soffiò esausto Mirko, accasciandosi al suolo.
«Davvero, Gabe,» si unì Federico. «È più di un’ora che stiamo vagando senza meta.»
Gabriele avrebbe voluto urlare la sua frustrazione al cielo, squarciarlo con un grido, ma ci pensò un lampo ad illuminare l’oscurità di quel pomeriggio. Il tuono che seguì fu assordante e lentamente piccole gocce di pioggia cominciarono ad imbrattare l’asfalto, picchiettando sui vetri delle automobili abbandonate nel parcheggio.
«Ci mancava anche questa.» Sbuffò Gabe sconsolato.
Dovettero rialzarsi e correre subito in direzione di un riparo, almeno si sarebbero evitati una broncopolmonite. Non avevano idea di quanto sarebbero rimasti intrappolati lì dentro. Poteva trattarsi di un’altra ora, di un giorno… oppure per sempre.
Gabe scacciò via quell’ipotesi dalla mente, sconcertato dai suoi stessi pensieri. Non bisognava buttarsi giù, non adesso perlomeno.
Cominciarono a correre in direzione del NEC, ormai la loro seconda casa, fino a quando Gabriele non si fermò al bivio che li avrebbe condotti alla facoltà di Matematica.
«Ehi, cosa stai aspettando?» gli urlò Fede, coprendosi la testa con il cappuccio del suo Museum.
Gabriele lo ignorò per assottigliare lo sguardo e puntarlo all’orizzonte. Gli era parso di vedere qualcosa, una macchiolina bianca proprio in cima alla strada, ma a mano a mano che si avvicinava, le iridi del ragazzo parvero riconoscere una figura familiare.
«È il professor Cicchetti!» gridò tutto eccitato.
Finalmente non erano soli, c’era ancora una speranza.
Cominciò a correre in direzione dell’uomo col camice bianco, imitato anche da Mirko che sembrava aver ritrovato le forze. Con l’ultimo sprazzo di energia iniziarono a chiamare il loro professore, cercando di stabilire con lui almeno un contatto visivo, ma sembrava inutile. Rosario Cicchetti stava avanzando verso di loro, camminando lento e leggermente sbilenco.
Quando Gabe si accorse di questo particolare si fermò, immobile sotto la pioggia, avvertendo ancora una volta quella sensazione di pericolo. C’era qualcosa che non andava, ma non sapeva spiegarsi cosa.
«Perché ti sei fermato?» Gli domandò Mirko, affiancandolo.
«È strano.» Riuscì solo a dire, senza trovare altre parole.
Guardarono l’uomo avvicinarsi ancora, mettendo chiaramente il piede destro in una posizione del tutto innaturale. Gabriele non era un animale, questo poteva ben saperlo, ma ciò non gli impediva di avere tutti i capelli rizzati dietro la nuca e la pelle d’oca.
Tutti avevano l’istinto di sopravvivenza.
I dubbi lo stavano logorando dentro, ma quando pensò di lasciar perdere, vide il professore inciampare e cadere rovinosamente al suolo. Mirko fu più veloce di lui. Si fiondò per sorreggerlo e gli si accovacciò al fianco, prendendolo tra le braccia. La pioggia cadeva incessante, diventando minuto dopo minuto ancora più intensa. Gabe sentiva l’acqua trapassargli i vestiti, insinuarsi sotto la maglia e scivolargli lungo la spina dorsale, accompagnata da un brivido…
… ma non di freddo.
«Professore, mi sente?» gridò Mirko, cercando di farsi ascoltare sopra il frastuono della pioggia. «Si svegli, siamo bloccati qui!»
«Mirko…» tentò di dire Gabe, indeciso se fidarsi o meno.
I vestiti del professore erano logori, sporchi di fango, e il suo volto non era da meno. Voltò lo sguardo verso Federico che li aspettava più in là, con i capelli scuri incollato al viso.
«Professore, la prego! Non sappiamo come tornare a casa!» Urlò quasi disperato.
Anche Gabe avrebbe voluto urlare, liberarsi della disperazione che albergava nel suo cuore.
«Professore!» Sbraitò il biondo.
E fu sul filo di quel grido, quando era immerso fino al collo nelle sue elucubrazioni, che Gabriele fissò lo sguardo sul colletto lurido della camicia di Cicchetti. La pelle lattea dell’anziano, spruzzata qua e là di fango, era diventata violacea attorno all’impronta di quelli che, anche da lontano, sembravano denti.
Zanne, si ritrovò a correggersi.
Sembrava il morso di un animale, almeno dotato di canini allungati. Gabe sapeva che all’interno del laboratorio c’erano delle cavie, ma non aveva idea delle specie contenute nelle gabbie. A giudicare dalla dentatura, per quanto poco l’avesse studiata ad Anatomia, sembravano la mandibola di un primate.
«Mirko, andiamocene.» gli intimò, sentendo che il sospetto si stava man mano tramutando in certezza.
Il biondo alzò gli occhi cerulei verso di lui e lo guardò stupito. «Ma Gabe, potrebbe essere la nostra ultima speranza!» Protestò.
Gabriele, che fino a quel momento era rimasto paralizzato dalla consapevolezza di essere totalmente smarrito, cominciò a muovere passi decisi verso Federico. Finalmente aveva dato retta al suo istinto che in quel momento gli urlava in ogni lingua di darsela a gambe.
«Vieni via, Mirke’!» Si aggiunse Fede, che urlava dal fondo della via.
Il ragazzo non sembrò dare retta agli avvertimenti degli amici, in compenso sentì che il corpo dell’uomo tra le sue braccia – freddo come un pezzo di ghiaccio – stava cominciando a fremere.
«Professore?» domandò incerto ma fu quando l’essere aprì gli occhi che Gabe capì che era troppo tardi.
La scena progredì a rallentatore e Gabriele si sentì gambe e braccia pesanti come macigni. Avrebbe voluto correre in direzione di Mirko, strattonarlo per la maglia e spingerlo il più lontano possibile da quella cosa che aveva soltanto lontanamente le sembianze di Cicchetti.
Vide gli occhi dell’uomo – o meglio, dell’essere – rossi come il sangue, che si spalancarono, contemporaneamente alla bocca. Fu rapido come una faina. Afferrò Mirko per le spalle, artigliandolo con quelle dita nodose e gelide, poi aprì le fauci e lo morse.
Il biondo comprese troppo tardi quello che era appena successo e sentì solamente la carne che gli veniva recisa dai denti del suo professore. Aprì la bocca, lanciando un grido strozzato, ma gli uscì solo aria dalle labbra. Spalancò gli occhi e li puntò in quelli di Gabriele, sperando facesse qualcosa.
Tutto sembrava perduto, ogni cosa era andata in frantumi nel mondo in cui avevano vissuto fino a quel momento. Chissà se le persone là fuori sapevano cosa stesse succedendo, se conoscevano davvero il pericolo che si annidava in quegli edifici.
«Gabe…» soffiò, allungando una mano verso quella dell’amico.
Gabriele decise che non era il momento adatto per farsela addosso, non dopo tutto quello che avevano passato. Incrociò lo sguardo di Fede e da quello che vi lesse dentro, comprese che anche il moro aveva capito tutto.
Fu in quello sprazzo di lucidità che riuscì a vedere una sbarra di metallo che spuntava da sotto una macchina. Mirko aveva riacquistato il dono della parola e adesso gridava come un forsennato. Federico accorse cominciando a sferrare dei calci a quella specie di sanguisuga che si era attaccata al collo del suo amico.
L’adrenalina era tornata in circolo, Gabriele la sentiva scorrere mischiata al suo sangue e non appena afferrò la spranga di ferro con entrambe le mani, si sentì come un cavaliere che impugnava l’elsa della sua spada. Raggiunse Mirko e caricò il colpo.
Non seppe dire quanta forza ci aveva messo, né se era mai stato capace di sferrare una botta del genere, fatto sta che lo colpì proprio sulla tempia con tutto se stesso. La rabbia gli aveva attraversato le braccia e caricato i muscoli, per poi lasciarlo sfogare.
Il professore si accasciò al suolo, quasi completamente privo di sensi. Il cranio era inclinato dalla parte del colpo.
Mirko si teneva la ferita sul collo, molto simile a quella che il professor Cicchetti aveva riportato sulla propria pelle, ma non avevano tempo di indagare.
«Dobbiamo levarci di qui.» Disse solamente, asciugandosi gli occhi dall’acqua che lo aveva inzuppato fin dentro le ossa.
«Che cazzo era quello?» Sbottò Federico, in preda al panico.
«Cazzo, Fe’» ringhiò Gabriele, prendendo Mirko sotto un braccio e abbandonando tutte le loro cose sulla strada. «Guarda laggiù!»
Gli occhi chiari di Federico si spalancarono non appena vide una macchia informe che si muoveva in cima alla strada. Sembravano persone all’apparenza, ma si muovevano in maniera meccanica, quasi sbilenca.
«Non ci hanno ancora visiti! Dobbiamo andarcene di qui!» sbraitò Gabriele, sempre più convinto di stare facendo la cosa giusta. Avevano poco tempo a disposizione e non si potevano permettere il lusso di temporeggiare.
Federico comprese bene quale fosse il rischio che correvano, perciò afferrò Mirko sotto l’altro braccio e cominciarono a correre verso qualunque edificio li avrebbe accolti in tutta sicurezza. C’erano laboratori con porte blindate, uffici chiusi a chiave. I nascondigli non mancavano di certo, il problema era: quanto tempo avrebbero resistito?
Come se non bastasse, il cadavere del professore si rianimò e li fissò con la mascella del tutto penzolante. Gabriele non avrebbe mai dimenticato quegli occhi rossi, non avrebbe mai dimenticato nulla di quelle sei ore maledette.
Il professore riversò il capo all’indietro e spalancò quella bocca malandata, per poi emettere un grido lamentoso verso il cielo. Si trattò di un rantolo, quasi come il grido di un maiale sgozzato, ma ebbe l’effetto di far accapponare la pelle dei tre ragazzi.
Gabriele e Federico si voltarono quel tanto da scoprire che si trattava di un richiamo. Ben presto la macchia di corpi informe che avevano visto in cima alla strada, si voltò verso di loro e iniziò ad avanzare come un muro di corpi compatto. Il terrore si fece più intenso, quasi palpabile, e l’istinto di sopravvivenza prese possesso degli ultimi sopravvissuti.
«Gabe!» disse Federico, specchiando l’azzurro dei suoi occhi nel nero di quelli dell’altro. «Corri!» E non parlarono più, fino a quando non sentirono l’aria bruciare nei polmoni.

The fifth hour: 16.35
Erano bagnati fradici e non soltanto di pioggia. Si erano precipitati giù per la discesa, con il corpo quasi inerme di Mirko sulle spalle, senza fermarsi un attimo. C’era in ballo la vita di tutti e questo Gabriele lo sapeva.
Svoltarono in un vicolo, poi scavalcarono una siepe, sentendo ancora dei sospiri e dei rantolii alle loro spalle.
Erano dietro di loro – si ritrovò a pensare con il cuore in gola – ed erano affamati.
Non ci voleva certo un genio laureato in genetica per capire che quelle cose erano cadaveri tornati in vita, o meglio, c’era qualcosa che li aveva uccisi e poi trasformati in zombie. Ormai stavano gelando. Il tempo di Dicembre non li avrebbe risparmiati, così come la pioggia che continuava a picchiare incessante sulle loro teste. Dovevano trovare un riparo sicuro, e alla svelta.
«Se andassimo in Aula Magna?» Sospirò Fede, praticamente esausto.
Gabriele continuò a correre, valutando le ipotesi. L’Aula Magna era grande, con porte d’acciaio, ma si entrava e si usciva da una sola parte e sarebbero stati in trappola.
«No» tagliò corto, beccandosi un’occhiataccia dall’amico.
«Non ce la faccio più!» Si lamentò, accorgendosi solo in quel momento che Mirko era svenuto.
La testa ciondolava da una parte all’altra, lasciando a Gabe una buona visuale della ferita inferta dal professore. Il morso era diventato più gonfio, quasi violaceo, e il ragazzo poté distinguere l’assenza di canini allungati in questa impronta.
Cicchetti era stato morso dalla cavia, probabilmente una scimmia, mentre Mirko era stato ferito da un essere umano – o almeno quello che ne rimaneva.
«Di qua.» Suggerì, imboccando una via che conduceva al museo di fisica.
Federico lo seguì, senza porre domande. L’unico piano decente a cui potevano aggrapparsi era rimanere rintanati fino a quando qualcuno non si fosse sbarazzato di quei cosi.
Raggiunsero la porta grigia del museo del dipartimento di Fisica, quando una decina di quei mostri li avevano individuati. Il peso morto di Mirko sulle loro spalle li rallentava parecchio e se non avessero trovato al più presto un posto dove ripararsi, non ci sarebbe più stato alcun bisogno di scappare.
«Vai avanti e apri la porta!» Gli ordinò Fede, sobbarcandosi tutto il peso di Mirko sulle spalle.
«Ma tu…» tentò di farlo ragionare l’altro.
«Vai ho detto, intanto mi avvicino.» Disse risoluto.
Gabriele corse con tutte le forze che gli erano rimaste in corpo, salendo i gradini della facoltà a due a due e fiondandosi sulla maniglia della porta.
Chiusa.
Con sgomento crescente, Gabriele tentò di strattonarla, di prenderla a pugni, di colpirla fin quando il sangue non gli uscì dalle nocche serrate. Non era possibile, non quando erano così vicini. Alzò lo sguardo e lo fissò in quello del suo amico. Le parole erano superflue, perché entrambi avevano capito che il museo era solo un vicolo cieco. Sarebbe stata la loro tomba.
Una decina di corpi si avvicinavano sbilenchi, tendendo le braccia nella loro direzione. Soltanto un istinto li governava ed era quello primordiale: la fame. Gabriele rabbrividì, ma non si arrese. Corse di nuovo verso i suoi due amici e si passò un’altra volta il braccio di Mirko attorno alle spalle.
Tentò di fare mente locale, di trovare nel più breve tempo possibile un altro luogo sicuro, ma tutti sembravano non fare al caso loro. Doveva sbrigarsi, non c’era più molto tempo.
«Ehi!» disse una voce che a Gabriele parve un sogno. «Ehi, voi.»
All’unisono si voltarono e videro la porta del laboratorio spalancarsi, mentre la testolina riccioluta di una ragazza faceva capolino. Non sembrava infetta, i suoi occhi erano scuri ma limpidi, senza alcuna venatura di rosso.
«Andiamo!» Ordinò Gabe, cercando di cogliere al volo l’unica possibilità che gli si era presentata.
«Ma se…» ipotizzò Federico, divorato dai sospetti.
«Non c’è tempo!» Gridò l’altro, cominciando a camminare verso il museo. «Arriveranno!»
Dietro di loro i rantolii divennero più forti, mentre alcuni di loro lanciarono verso il cielo un grido roco, richiamo per altri di loro. Stavano comunicando, quasi come un branco, e questo fece inorridire Gabriele.
Salirono le scale con un po’ di difficoltà, visto che Mirko era ancora svenuto, ma spinti dalla voglia di sopravvivere riuscirono a raggiungere la porta grigia e a fiondarsi dentro cercando la salvezza.
Quando la porta si chiuse alle loro spalle, si lasciarono cadere a terra esausti e completamente zuppi. Non avevano nemmeno la forza di chiedere chi fosse la loro salvatrice. Gabriele chiuse gli occhi e tentò con tutte le forze di riaprirli, ma non ci riuscì.

Rinvenne dopo quelle che gli parvero ore, anche se puntando lo sguardo fuori dagli alti finestroni, vide che c’era ancora luce. Si trovò addosso una coperta e soltanto in quel momento si accorse che stava tremando per il freddo.
Portò le mani al viso e si stropicciò gli occhi, guardandosi intorno confuso e riconoscendo le forme familiari del museo di Fisica. C’erano diversi strumenti, delle beute e dei prismi, ma anche moltissime teche di legno scuro in cui erano esposti vecchissimi modelli. Quel posto odorava di vecchio ma Gabriele non si era mai sentito più felice di essere in un museo.
«Come ti senti?» Gli chiese una voce, che egli associò subito a quella della ragazza che li aveva salvati.
I suoi occhi erano color onice, proprio come li ricordava, e i capelli ricci e vaporosi le ricadevano in morbidi boccoli sulle spalle. Aveva una carnagione scura, quasi olivastra e se le circostanze fossero state diverse, Gabriele le avrebbe chiesto immediatamente di uscire.
«Una merda.» Risposte, tutto dolorante.
Si guardò intorno alla ricerca degli altri suoi due amici, vedendoli poco lontani da lui caduti in un profondo sonno. Non avrebbe mai finito di ringraziare il destino per aver dato loro una seconda opportunità, per averli salvati da quella situazione che sembrava davvero perduta.
La ragazza gli si sedette accanto, poi gli passò una mano sulla fronte. «Hai la febbre.» Constatò, alzandosi immediatamente e frugando in uno scatolone che teneva vicino ad un grosso tavolo. Gabriele si sentiva molto stanco, sicuramente infreddolito, ma non sapeva dire se avesse o meno la febbre. Era come se fosse appena stato centrifugato in un’enorme lavatrice e non avrebbe ripetuto l’esperienza per nulla al mondo.
«Prendi questa.» gli disse, porgendogli un bicchiere d’acqua che friggeva.
Lo accettò di buon grado ma si fermò prima di bere. «Cos’è?»
La moretta sorrise e quel gesto bastò a scaldargli il cuore. «Tachipirina, serve per abbassare la temperatura. La darò anche al tuo amico, laggiù.»
Rassicurato dall’espressione della ragazza, Gabriele buttò giù tutto il contenuto del bicchiere e fece un’espressione disgustata quando si accorse che la medicina era amara. Tutto sommato gli avrebbe fatto bene, questo era l’importante.
«Come ti chiami?» le chiese, instaurando un po’ di conversazione.
La ragazza prese il bicchiere e lo posò in uno dei lavelli del museo. Si sedette agilmente sull’enorme scrivania e incrociò le gambe, portandosi una mano ai voluminosi capelli ricci.
«Anna,» sospirò. «Annamaria, tanto piacere.»
«Gabriele.» Rispose lui. Avrebbe voluto alzarsi per stringerle la mano, ma non aveva le forze nemmeno per respirare.
Mirko si lamentò nel sonno e si scostò la coperta, lasciando visibile l’orrenda ferita che quel mostro gli aveva lasciato. A Gabe non sfuggì lo sguardo che Anna lanciò al suo amico.
«Sai cosa sta succedendo?» le chiese, sperando potesse dargli maggiori informazioni.
La ragazza tornò a guardarlo negli occhi, poi sospirò. «Spero avrai capito che quelli sono morti che camminano, vero?» gli domandò di rimando.
Gabe annuì sconsolato, anche perché non ci voleva un genio per capirlo. «Dopo l’incidente nel laboratorio è andato tutto peggiorando…»
«L’incidente è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso,» ringhiò lei, scendendo dal tavolo e cominciando a fare avanti e indietro. «Già da tempo stavano facendo esperimenti per estrapolare la sequenza finale dei telomeri di cellule cancerose, sai, di quelle che riescono a risequenziarsi rendendo la cellula immortale.»
Gabriele aveva sentito qualcosa del genere a lezione, perciò annuì. «Beh, sono riusciti ad impiantarle nel corpo di un primate dichiarato deceduto e l’hanno… come dire…»
«Riportato in vita.» Concluse lui.
«Esatto,» mormorò afflitta. «Il problema è che non hanno considerato la diffusione di questa mutazione forzata. Grazie alla saliva oppure al sangue, il genoma del proprio corpo si modifica e si diventa uno di quelli
«Che merda.» Commentò lui, incapace di esprimersi in altro modo.
All’improvviso si sentì un tonfo tremendo, seguito da altri due praticamente identici. La porta vibrò con forza e i due ragazzi sussultarono all’unisono.
«Li avete attirati qui?! Perfetto!» sbuffò Anna, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
Cercò in tutti i modi di spostare una grossa teca di legno, all’apparenza molto antica, stracolma di modellini di ogni genere. Gabriele intuì subito cosa la ragazza volesse fare, così, con le sue ultime forze, si alzò ad aiutarla.
Insieme si disposero ad un lato della teca e cominciarono a spingere, puntando i piedi contro il muro e facendo forza. Era dannatamente pesante, stracolma dei più svariati oggetti, ma se fossero riusciti a trascinarla fin davanti alla porta, sarebbe stata una buona barriera contro quei mostri.
«Ci siamo quasi!» strillò la ragazza, stringendo i denti.
Continuarono a spingere fino a quando la teca di legno non strisciò sul pavimento e si posizionò perfettamente di fronte alla porta. Al di là del mobile, i colpi che si udivano rimbombare nel museo sembravano più lievi e i due ragazzi si fissarono sollevati.
Un mugolio provenne da Federico che si ridestò dal sonno e li guardò confusi, con quegli occhi spalancati e azzurri. «Dove cazzo siamo?»

The sixth hour: 18.00
Il resto del tempo Gabe lo impiegò a spiegare a Fede quello che Anna gli aveva raccontato.
«Quindi siamo bloccati qui?» Chiese Federico, guardandoli dal basso verso l’alto.
«Se vuoi uscire là fuori, prego.» Rispose Anna con acidità.
«Dobbiamo rimanere al sicuro fino a quando non si risolverà questa situazione.» Intervenne Gabe, dando la risposta più razionale.
«E se lì fuori stessero messi peggio di noi? Se i militari fossero stati contagiati?» Sparò a raffica il moro, sentendo il panico che dilagava nel suo cuore. «Pensateci,» li esortò. «Se fossimo gli unici sani qui dentro? Nessuno ci verrebbe a cercare.»
«Ma smettila, sono passate sei ore dall’incidente e la zona è sotto quarantena.» osservò Anna, fredda e glaciale come i suoi occhi neri.
Il silenzio calò nel museo, intervallato soltanto dal rimbombo dei colpi che quei mostri continuavano ad infliggere alla porta grigia. Sapere che soltanto una spessa teca di legno antico li separava da un’orda di creature immonde, non era certo rassicurante, ma dovevano continuare a sperare.
Già, la speranza. Forse l’unica cosa a cui potevano ancora aggrapparsi.
«Sentite,» sospirò Anna, fissando lo sguardo sul corpo di Mirko, scosso dai tremori. «Non so come dirvelo.»
A Gabriele non servivano parole in quel momento. Non ci voleva Einstein per capire che Mirko non stava bene. Il vero problema era che Gabe non voleva crederlo.
Era stanco, provato, stufo di tutto quello che gli era successo. Troppo veloce e in troppo poco tempo.
«Parla chiaro, riccioli d’oro.» La apostrofò Federico.
Lei lo fulminò con lo sguardo, poi si rivolse a Gabe che sembrava il più maturo del gruppo. «Il vostro amico non ce la farà, è stato morso,» sospirò amareggiata. «Il contagio è iniziato e a giudicare dalla ferita, morirà tra poco.»
«Cosa stai dicendo? È un fottuto morso, non si muore per quello!» Ringhiò il moro, non volendo crederci.
«È stato contagiato!» Ripeté lei, con più enfasi.
Gabriele rimase in silenzio tutto il tempo in cui i due ragazzi battibeccarono, incapace di mettere bocca. Se da una parte il suo istinto da scienziato gli diceva che quanto detto da Anna era più che logico, dall’altra si rifiutava di pensare a cosa ne avrebbero fatto di Mirko. Era un suo amico – forse il suo migliore amico – e non era quel tipo di persona insensibile che per anni aveva fatto credere al mondo.
«Cosa dobbiamo fare?» Chiese d’un tratto, interrompendo gli altri due.
Anna si portò nervosamente una mano nei folti capelli ricci, poi abbassò quegli occhi neri come la notte che avanzava lenta. «Ucciderlo.»
«Tu sei pazza!» sbraitò Federico, in preda ad una crisi isterica.
«Tra poco morirà e quando riaprirà gli occhi vorrà solo strapparti quella lingua biforcuta che ti ritrovi!» Gridò lei di rimando.
«Zitti!» S’impose Gabriele, cercando di stabilire la calma.
Ormai era il crepuscolo, ben presto l’oscurità li avrebbe avvolti e il mondo là fuori sarebbe stato ancora più inospitale. Se quello che Annamaria sosteneva fosse stato vero, erano tutti in pericolo.
«Faremo rimanere Mirko qui con noi,» sentenziò, zittendo subito le proteste della ragazza. «Fino a quando sarà in vita.» Concluse, abbassando il capo.
A lui non piaceva per niente quella soluzione, ma non c’era altro da fare. La legge della natura era chiara: sopravviveva il più forte.
«E che gli farai? Lo prenderai a sprangate come il professor Cicchetti?» lo provocò Federico, lapidandolo con quegli occhi azzurrissimi.
Gabriele sospirò e si accarezzò nuovamente la testa rasata. «Lo spingeremo in mezzo agli altri, è l’unica soluzione.»
Federico e Annamaria tacquero. Si voltarono quasi all’unisono per rivolgere uno sguardo a Mirko, rannicchiato su se stesso. Aveva gli occhi chiusi, sembrava dormisse, invece ognuno di loro sapeva a cosa sarebbe andato in contro.
È stata colpa mia, si ritrovò a pensare. Se non avessi temporeggiato, se avessi trascinato via Mirko dal professore, a quest’ora non diverrebbe… e non riuscì a terminare il pensiero.
Passarono il resto del tempo seduti, nella vana attesa che il ragazzo guarisse miracolosamente. La consapevolezza che mai nessuno sarebbe venuto a cercarli cominciava a farsi strada nei loro animi, così come la speranza di essere salvati pian piano svaniva. Si appisolarono, si svegliarono di nuovo, sbocconcellarono qualche merendina rubata dai distributori automatici e infine furono costretti ad accendere un fornelletto da laboratorio perché la corrente elettrica era stata staccata.
«Moriremo di freddo» Constatò Federico.
«Moriremo di fame.» Aggiunse Anna.
Gabriele non volle dir nulla, i suoi pensieri furono interrotti da un mugolio proveniente dal corpo di Mirko che non tremava più. Tutti e tre i ragazzi scattarono in piedi all’unisono e si tennero ben distanti dal ragazzo biondo riverso a terra.
«Tenetevi pronti.» Mormorò Annamaria.
Mirko fece per alzarsi, poi si fissò disorientato ma non appena i suoi occhi incontrarono quelli degli altri ragazzi, Gabe e Fede si accorsero che non era infetto.
Almeno, non ancora.
«Cosa è successo?» chiese e Gabriele sentì il cuore che pian piano si scioglieva dal ghiaccio che fino ad ora lo aveva avvolto.
Proprio quando quasi tutto sembrava essersi risolto, un tonfo più forte li fece sobbalzare. La teca di legno antico scricchiolò e dopo il secondo tonfo tremò. La consapevolezza di quello che stava per succedere pietrificò i ragazzi all’interno del museo e per un momento rimasero immobili senza sapere cosa fare.
«Presto!» gridò Anna, correndo verso il mobile e spingendolo contro la porta.
Gabriele si riscosse dal suo torpore e comprese che se non fossero intervenuti, un’orda di mostri sarebbe penetrata all’interno del museo. Imitato da Federico, corse verso la teca e ci si schiantò contro, spingendo con tutte le sue forze.
I colpi divennero più forti a mano a mano che il tempo passava, così come i rumori e i rantolii che si udivano al di là del legno. Gabe aprì gli occhi, stremato dal dolore, per vedere Mirko in piedi che probabilmente stava venendo ad aiutarli. La speranza non li aveva abbandonati, almeno lui non si sarebbe mai arreso.
«Aiutaci!» gridò Federico, in direzione del ragazzo biondo.
Gabriele puntò i suoi occhi in quelli del suo amico, avvertendo nuovamente quella bruttissima sensazione. Fu questione di un attimo e le iridi di Mirko si rovesciarono all’indietro, mentre il suo corpo si abbandonò al suolo con un tonfo.
«Lo sapevo!» strillò Annamaria, in preda al panico. «Si sta trasformando!»
Nessuno di loro poteva abbandonare quella posizione, altrimenti gli altri sarebbero entrati. Assistettero inermi al corpo di Mirko, apparentemente privo di vita, che veniva pian piano scosso da brividi per poi passare a spasmi più intensi.
Per la prima volta in tutta la sua vita, Gabriele ebbe paura.
Mirko smise di muoversi e ritornò riverso sul pavimento. Aveva le braccia e le gambe disposte in una strana angolatura, del tutto innaturale, e i ragazzi non potevano che essere terrorizzati. L’uscita era bloccata e non c’era modo di liberarsi del ragazzo.
Il biondo si mosse a scatti e con una certa difficoltà riuscì a mettersi in piedi. Teneva il collo piegato quasi a novanta gradi, mentre dalla bocca pendeva un rivolo di bava nerastra. Quando si voltò, Gabriele perse un battito.
Quegli occhi erano stati sostituiti da iridi vacue, completamente rosse, velate da una patina bianca caratteristica dei cadaveri. Mirko aprì la bocca e ne uscì un verso simile ad un lamento strozzato.
Avrebbero dovuto trovare una soluzione, e in fretta.
«Ce la fate a reggerla?» tuonò Anna, fissandoli con le saette al posto degli occhi.
Gabriele si sentì uno sciocco, lei aveva fatto di tutto per avvertirli ma loro non avevano voluto ascoltarla. Mirko non era più il suo migliore amico, era un mostro.
«Sì» Risposero quasi all’unisono i due ragazzi, facendo leva sulle gambe e piantandosi contro la teca di legno.
Annamaria si staccò e corse verso la massiccia scrivania, tirando fuori una grossa mazza di legno. La impugnò con entrambe le braccia e tentò di avvicinarsi al ragazzo con circospezione. Gabriele non voleva nemmeno immaginare cosa gli avrebbe fatto, ma non riusciva a distogliere lo sguardo. La mora caricò il colpo e fece qualche passo, mentre Mirko si voltò verso di lei e cominciò a tendere le braccia nella sua direzione.
Cercò il primo affondo e lo colpì in pieno, facendolo barcollare all’indietro, ma il corpo dello zombie sembrava molto resistente. Annamaria infierì lateralmente, mentre Gabe fissava la scena attonito. Dietro di lui continuavano a spingere e a grugnire. Non sapeva quanto tempo ancora avrebbero potuto resistere.
«Sono forti ‘sti bastardi.» Ringhiò Federico, tentando di allungarsi per poter avvicinare un grosso baule da mettere come rinforzo alla teca di legno.
«Dobbiamo resistere!» Sibilò Gabe, con il labbro stretto tra i denti.
Nel frattempo Annamaria tentava in tutti i modi di abbattere Mirko, ma quello sembrava rialzarsi ogni volta più forte di prima. La ragazza era stanca, provata, del tutto esausta come gli altri due.
«Bastardo!» ringhiò Anna, colpendolo in viso.
Finalmente sembrò che il colpo fosse andato a buon fine, almeno era quello che Gabriele pensò perché in men che non si dica, Mirko si rialzò con uno scatto e infierì su Anna, spingendola e facendole sbattere la testa contro lo spigolo della scrivania.
«No.» Riuscì solo a mormorare, sconvolto.
Il legno del tavolo si macchiò di rosso e il ragazzo, ormai morto, annusando l’odore del sangue nell’aria sembrò come impazzito. Si mosse sbilenco per avventarsi sul corpo inerme della ragazza, quando Federico si lanciò su di lui abbandonando la postazione.
Gabriele sentì il peso delle spinte che gravava completamente sulle sue spalle, ma non si arrese. Strinse i denti, mentre vedeva il suo amico lottare contro quel mostro e proteggere Anna anche a costo della sua vita. Dovevano resistere, almeno fino a nuovo giorno. Le grida di quei mostri divennero più intense, mentre la forza di Mirko sembrava aumentare anziché diminuire. Piantò entrambi i piedi a terra, facendo forza con i muscoli. Strinse gli occhi, serrò i denti e gridò mentre con forza resisteva all’orda di mostri che altrimenti li avrebbe invasi.
«Crepa!» gridò Federico, colpendo Mirko con la mazza, ma quello si rialzò.
Vide la speranza volare via dagli occhi del suo amico e quando i suoi occhi celesti visualizzarono una porta secondaria che lo avrebbe condotto lontano da quell’inferno, Gabe non riuscì a credere a cosa stesse per fare.
Lo vide stringere la mazza con forza, colpire per l’ennesima volta Mirko, poi abbandonarla a terra e fuggire in direzione dell’unica via di fuga che forse rimaneva loro. Spalancò la porta e guardò un’ultima volta nella sua direzione.
La legge della sopravvivenza: guarda a te stesso prima che agli altri.
Federico aveva interpretato alla lettera quella regola e forse sarebbe stato l’unico a salvarsi. Gabriele sentì le gambe cedere e vide con gli occhi spalancati Mirko che si rialzava da terra per l’ennesima volta, trascinandosi verso il corpo inerme di Anna. Era stato posto di fronte ad un altro bivio, forse l’ultimo ed era ancora in grado di fare la cosa giusta. In fondo sarebbe morto comunque.
Lasciò andare la teca e si precipitò verso il suo ex-amico, spintonandolo a terra. Quello tentò subito di morderlo e Gabe rimase terrorizzato da quegli occhi rossi. Si guardò in giro con attenzione, cercando in lungo e in largo qualcosa, fino a quando non individuò dei lacci metallici. Si precipitò ad afferrarli e li utilizzò come corde per immobilizzare quel mostro e lasciarlo sbollire di rabbia. Allontanò Mirko da Anna e si accasciò accanto a lei tenendola tra le braccia. Le passò una mano tra i capelli ricci e rimase sconvolto quando la vide macchiarsi di rosso. Strinse Anna al suo petto e pianse, aggrappandosi a lei come fosse l’ultima speranza che lo tenesse ancorato alla realtà. La sua pelle olivastra sembrava ancora più scura nella penombra della stanza, illuminata solamente dal fornelletto da laboratorio e Gabriele pensò che non aveva visto creatura più bella.
Inspirò il suo profumo e rimase a dondolarsi con lei in grembo, fissando lo sguardo appannato dalle lacrime negli occhi rossi e famelici del suo amico Mirko. I colpi alla porta divennero più forti, quasi assordanti, quando all’improvviso la teca venne buttata giù con un tonfo e i vetri s’infransero al suolo. Gabriele voltò lo sguardo verso la porta grigia: Sarebbe potuto fuggire, avrebbe potuto imboccare la stessa porta secondaria che aveva usato Federico per squagliarsela, ma non ce l’avrebbe mai fatta con Anna. Lei era svenuta tra le sue braccia, completamente inerme.
L’idea di lasciarsela alle spalle, però, non lo aveva mai sfiorato.
Dalle labbra morbide di Annamaria uscì un debole suono, poi i suoi occhi neri si aprirono debolmente e si specchiarono in quelli di Gabe.
«È finita?» Chiese lei, debolmente.
Gabriele le sorrise e la tranquillizzò con una carezza. «Chiudi gli occhi, Anna. È solo un brutto sogno.» Le disse, sperando non udisse i rantolii emessi da Mirko.
La ragazza gli regalò forse l’ultimo sorriso della sua vita, l’ultimo gesto che avrebbe ricevuto da un altro essere umano. Chiuse gli occhi e il loro contatto s’interruppe. Fu in quel momento che Gabriele si sentì completamente solo.
Non ebbe molto tempo per pensare, perché un altro colpo costrinse la porta grigia ad aprirsi con un lento ed interminabile cigolio. Fuori non si vedeva nulla, era tutto buio.
Adesso è veramente finita – pensò e chiuse gli occhi.
Tutto il resto fu solo buio.

Gabe si sdraiò sulla schiena, tirandosi su le maniche del maglione color ghiaccio, poi incrociò le mani dietro la nuca e sentì il calore del sole baciargli le guance ispide.
Si svegliò di soprassalto e si mise a sedere con un colpo di addominali, accorgendosi solo in ultimo di quanto il suo cuore battesse forte.
«Che hai amico?» Gli chiese Mirko, con gli occhi nocciola preoccupati.
Lo fissò come se non lo avesse mai visto, come se il ricordo di quegli occhi rossi non fosse esistito altro che nella sua mente.
«Vedi troppi film, bello» ridacchiò anche Fede.
Erano tutti lì, ancora vivi, ancora al suo fianco. Si ritrovò a socchiudere gli occhi per la luce intensa che gli colpiva il volto e fu sollevato che il sole era tornato a splendere di nuovo nel cielo.
Che fosse stato tutto un sogno? – si ritrovò a pensare, lasciandosi avvolgere da quel calore che lo aveva abbandonato durante quell’incubo orrendo.
«Davvero. Cosa ti è preso? Sembravi stravolto!» Insistette il biondino.
Gabriele inspirò ed espirò, calmando il suo cuore, poi sorrise all’amico. «Nulla, è stato soltanto un incubo.» Ammise a gran voce, quasi se potesse renderlo ancora più vero.
«Non ci far più prendere colpi del genere, intesi?» Sghignazzò Federico, dandogli un colpo sulla spalla.
Gabriele avrebbe voluto ridere, ma l’aria attorno a lui si seccò tutta insieme. L’annusò e un forte puzzo di naftalina gli riempì le narici, facendolo tremare da capo a piedi. I recettori impazzirono così come i suoi sensi fino a quando, non molto lontano da loro, si sentì il boato sordo di un’esplosione.


Note:
[1]  proiezioni a sedia e a barchetta.
[2]  pula = polizia
[3] abbiamo fatto trenta, facciamo anche trent'uno = tipico detto.

***

Ringrazio subitissimo la giudiciA Vienne che ha avuto la genialata di questo fantastico contest che scandisce il tempo e divide la shot nell'arco di sei ore. *_*
Premetto dicendo che è il primo contest cui partecipo e non appena ho letto il bando del contest, diciamo che la storia si è stesa davanti ai miei occhi, in attesa unicamente che le mie dita picchiettassero sulla tastiera per scriverla. Ammetto che l'idea degli zombie e della ''catastrofe'' in laboratorio è un po' scontata, ma desideravo da tempo cimentarmi in una storia horror in puro stile Stephen King *si inchina al Maestro*, ovviamente non sono riuscita a creare una delle sue opere, però sper almeno di avervi messo addosso un brividino!
Che altro dire?
Spero che Gabe sia stato all'altezza delle aspettative, perché personalmente adoro immaginarmi Mark Salling che lo intepreta *si asciuga la bava*, invece devo dedicare la shot alla mia Daugh Anna (_Caline) a cui ho dato un ruolo specialissimo all'interno della shot, ovvero il personaggio di Annamaria in tutta la sua splendida forma di Alicia Keys.
Okay, ho finito di tediarvi. Mi metto nelle vostre mani!
Baci,
Marty
   
 
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