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Autore: Graine    15/12/2011    4 recensioni
Una normale mattina di metà aprile, sesta ora.
Ian Baker non riesce a seguire la lezione, al contrario di Faith Morgan, la ragazza nuova giunta a metà dell'anno scolastico.
Faith non parla mai con nessuno. E' un tipo schivo, lei, ma ascolta e vede tutto. Nulla sfugge al suo occhio attento. Ian l'ha osservata spesso dal primo giorno in cui è arrivata in classe. Lo incuriosisce quel suo atteggiamento freddo e distaccato.
Ma quella giornata è destinata a mutare il corso della sua vita per sempre: la musica di un flauto che si propaga per l’aula, durante la lezione, e nulla sarà più come prima.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I Figli del Tempo'
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https://www.youtube.com/watch?v=kLL5mvXn_Gw
http://www.youtube.com/watch?v=nCxTssn7kSU&feature=related

Queste sono le due canzoni che, nell'ultima settimana, sono riuscite sbloccare la mia ispirazione così da terminare la OS. Consiglio a tutti di ascoltarle durante la lettura, solo solo perché sono stupende.




Lo Spartito del Tempo



Una normale mattina di metà aprile, il sole fuori dalla finestra che picchiava sui vetri dell'aula, il cielo terso e sereno oltre di essi. Il professore di storia intento a spiegare le fasi della Guerra Civile a una classe assonnata, durante la sesta ora.
Era così che Ian Baker pensava avrebbe ricordato quella giornata.
Anzi, a dire la verità non supponeva nemmeno ci sarebbe stato granché da ricordare, in effetti. Di certo non valutava affatto l’ipotesi che qualcosa potesse svolgersi in maniera differente dall’ordinario; che, col tempo, magari parecchi anni dopo, quella giornata potesse tornargli alla mente ammantata di una qualche aura particolare. Che potesse avvenire qualcosa tale da impedire al ricordo di quella tarda mattina di disperdersi nella mischia, di essere solo uno dei tanti, vaghi frammenti degli anni di liceo, spesso così simili fra loro.
Ian Baker, in effetti, semplicemente non pensava a nulla fuorché al tepore del sole che gli scaldava il lato sinistro del corpo, mentre tentava di non cedere alla tentazione di afflosciarsi stancamente sul banco, e al torpore di quasi le tre del pomeriggio, che era calato su di una classe come tante al penultimo anno di liceo.
Ah, certo, poi c’erano Gettysburg e il Generale Lee a cui tentava di prestare la dovuta attenzione.
La storia non gli era mai dispiaciuta, a dire la verità. Soprattutto, non gli erano mai dispiaciute le spiegazioni del professor Davis, che riusciva a rendere ogni argomento interessante e accattivante, in un modo o nell'altro, e la Guerra Civile era senza dubbio una tematica già di per sé densa di fascino. Seguire la lezione dell'ultima ora, però, era sempre difficile, soprattutto dopo aver affrontato un test di Algebra durante la mattina e con quello di Spagnolo in programma per il giorno seguente. Faticava a restare concentrato sulle parole dell'insegnante, dopo quella notte passata sveglio a ripassare e a svolgere esercizi su esercizi, troppo nervoso per dormire.
Esattamente l'opposto di Faith Morgan, la ragazza nuova giunta a scuola e in città, dalla fredda Seattle, a metà dell'anno scolastico.
Faith non parlava mai con nessuno. Era un tipo schivo lei, ma ascoltava e vedeva tutto. Nulla sfuggiva al suo occhio attento, anche mentre, diligente, prendeva appunti sul suo quaderno. L'unica che sembrasse riuscire a seguire la lezione senza problemi. L'unica che sembrasse non portare i segni della stanchezza che quelle ore avevano lasciato, ben marcati, sul resto della classe.
Ian l'aveva osservata spesso, dal primo giorno in cui è arrivata in classe. Lo incuriosiva quel suo atteggiamento freddo e distaccato, come se nulla potesse minimamente interessarle; come se nulla, di quanto la circondasse, potesse toccarla. Più volte aveva desiderato che anche lei lo guardasse, vederla voltare il viso verso di lui e incontrare così il suo sguardo. Ma non era mai successo, in quei mesi. Per quanto Ian lo avesse sperato – a volte anche disperatamente, quasi quelle iridi celassero la chiave di un segreto di cui nemmeno lui, in realtà, conosceva l’esistenza – nulla era mai cambiato.
Tutto ciò che vedeva ogni volta, dal suo banco una fila avanti e a sinistra rispetto a quello della ragazza, erano la massa di capelli biondi che lei portava di lato sulla spalla durante le lezioni, come una barriera alzata per lasciare il resto del mondo al di fuori del piccolo spazio del suo banco, e il fiocco blu elettrico del cerchietto che usava e che spiccava su quella setosa chioma d’oro.
Soltanto quando suonavano la campanella dell’ora di pranzo o quella che decretava la fine delle lezioni i capelli di Faith cadevano lunghi sulla schiena minuta. Soltanto quando erano nel cortile della scuola Ian poteva osservare liberamente il suo viso. E lo faceva tutte le volte che poteva, perché anche il viso, in Faith, emanava qualcosa di diverso, di misterioso. Di magnetico.
Ian lo avvertiva, che c’era qualcosa di strano, qualcosa che proprio non sapeva spiegarsi. Lo sentiva a pelle, con quel sesto senso che le persone ascoltano sempre meno di quanto invece dovrebbero. Quel sesto senso che mette, silenziosamente, gli altri cinque in allerta in modo inconfondibile, come una sorta di lieve formicolio sulla pelle.
Ian non riusciva a capacitarsi di come potesse provare una curiosità simile verso qualcuno che non aveva mai fatto nulla per accrescerla, quella curiosità.
Faith trascorreva le ore di scuola seguendo attenta le spiegazioni, la testa piegata leggermente di lato e la penna che correva veloce sulle righe del quaderno, o l’evidenziatore che tracciava linee sottili e perfette sui paragrafi dei libri. Non saltava mai una lezione, non era mai in ritardo, non era mai impreparata, non frequentava mai nessuno, era sempre educata con gli insegnanti, parlava solo lo stretto indispensabile. Nemmeno a ora di pranzo scambiava una parola con qualcuno; stava seduta da sola al tavolo all’angolo ovest della mensa, mangiando mentre leggeva ogni giorno un libro diverso, gli auricolari sempre nelle orecchie a isolarla, ancora una volta, dal resto del mondo. La maggior parte dei loro compagni di scuola era intimorita da lei, ma Ian no; lui aveva quell’insolita e strana curiosità, che lo spingeva sempre più verso di lei.
Il sole che picchiava sui vetri dell’aula, il professor Davis intento a spiegare la sua lezione, la stanchezza che attendeva di sopraffarlo come una belva acquattata nell’ombra e Faith che prendeva appunti, concentrata e composta sulla sedia, le gambe sottili accavallate sotto il banco, lungi dal degnare nient’altro – e nessun altro – della più totale considerazione, proprio come sempre. Già, Ian Baker non pensava affatto che qualcosa, di quel quadretto, potesse andare diversamente, che qualcosa potesse mai stravolgere quella monotona quotidianità.
Ovviamente, Ian ancora ignorava che – come nelle migliori tradizioni – non avrebbe potuto sbagliarsi di più, perché, nella vita, non bisogna mai dare nulla per scontato.
È proprio questo tipo di ingenuità a rendere le persone come cieche di fronte a ciò che sta per capitare loro; questo aspettarsi che le cose vadano sempre in uno stesso, immutabile modo, che le cose vadano sempre nel modo in cui si è abituati a vederle andare. È questa cecità autoimposta a impedire alle persone di vedere davvero la realtà che li circonda.
E questo, Faith Morgan lo sapeva bene.
Da quando Ian era nato, per quanto ne sapeva, nulla era mai andato in maniera differente dall’ordinario. Non era mai accaduto nulla di particolarmente eclatante, nulla che potesse farlo sentire diverso dai suoi coetanei si era mai verificato.
Fino a quella normale tarda mattina di metà aprile.
Perché Ian avrebbe dovuto saperlo.
Avrebbe dovuto immaginare che, se mai qualcosa fosse cambiato nella sua vita, sarebbe stato a causa degli occhi di Faith.
Avrebbe dovuto capirlo dal salto che fece il suo cuore finendogli in gola, nel momento in cui la ragazza sollevò lo sguardo dal suo quaderno, sentendosi osservata, e lo puntò su di lui, per la prima volta da quando era arrivata a scuola. Fissandolo di rimando, con sicurezza e calma in quegli occhi dello stesso colore dell’ambra rossa che portava incastonata in un braccialetto al polso. Avrebbe dovuto intuirlo dal nervosismo che aveva iniziato a scorrergli nelle vene e a irrigidirgli i muscoli, nel momento in cui distolse il proprio, di sguardo, imbarazzato per essere stato colto sul fatto. E perché non era solo imbarazzo, quello che provava; c’era di più. Avrebbe dovuto capirlo dalla maniera in cui stringeva il pugno attorno allo spigolo del proprio banco, come vi si fosse aggrappato. Avrebbe dovuto riconoscerla in quel momento, l’adrenalina. Era la promessa di qualcosa, un’aspettativa che sentiva bruciargli dentro, causata da una singola e breve occhiata.
Avrebbe dovuto immaginarselo, dopotutto sua nonna glielo diceva spesso, quando era bambino: Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo.
La saggezza degli anziani, che sanno sempre qualcosa in più dei giovani, perché loro conoscono il mondo da prima, perché loro hanno visto più cose. E perché loro sanno che, nonostante gli anni passino, certe cose sono sempre le stesse.
Si sentiva un idiota, perché mai avrebbe dovuto essere così nervoso solo perché lei si era accorta che lui la fissava? Non aveva fatto nulla di male, accidenti. Si era solo distratto dalla lezione, finendo col puntare casualmente lo sguardo su una compagna di classe, almeno per quanto poteva saperne Faith. Non aveva alcun motivo razionale per cui dovesse sentirsi così in imbarazzo, Faith non poteva certo immaginare che, in pochi mesi, era diventata quasi un’ossessione, per lui.
Eppure non aveva il coraggio di voltarsi di nuovo per controllare se lei lo stesse ancora fissando, si sentiva come paralizzato e si diede per la seconda volta dell’idiota. Cercò, allora, di concentrarsi sulla lezione.
Afferrò la penna, deciso a prendere appunti, ma dopo aver buttato giù nemmeno due righe la mente gli tornò alla ragazza seduta una fila dietro e a destra di lui.
Chissà se lo osservava ancora, chissà se l’aveva sorpresa scoprire che lui la stava osservando, chissà se…
E poi un suono, chiaro e basso, distrasse lo scorrere dei suoi pensieri: era la musica di un flauto.
Ed era strana, quella musica.
All’inizio, Ian la credette giungere da lontano, da qualche parte fuori dall’istituto, ma poi ne distinse meglio le note e comprese che erano troppo nitide, troppo vicine. Comprese che quella musica così strana proveniva proprio dalla sua aula, pochi banchi o forse uno dietro il suo.
Si voltò e ciò che vide fece tornare il suo cuore a battere forte, a corrergli nella cassa toracica e l’adrenalina a scorrergli di nuovo nelle vene.
Vide Faith, in piedi davanti al proprio posto, che suonava il flauto da cui proveniva quella melodia così particolare.
Ed era strana, quella musica.
Carezzevole e ipnotica, sembrava quasi che lo stesse… chiamando.
Una nota dopo l’altra e il resto fu come avvolto da una nebbia; una nota dopo l’altra e il resto parve non contare più. Una nota dopo l’altra… e fu come se quelle note cantassero il suo nome.
Era strana, quella musica, ma la cosa più strana era che nessuno, a parte lui, mostrava di accorgersi di quanto stesse accadendo. Ian osservò i suoi compagni di classe e nulla, in loro, era cambiato: le stesse facce assonnate, gli stessi corpi poggiati mollemente sulle sedie o semidistesi sui banchi. Nessun altro sembrava far caso a Faith, nell’aula; nemmeno il professor Davis, che continuava a spiegare la sua lezione.
Com’era possibile? Come potevano non accorgersi di nulla? Una ragazza in piedi che suonava un flauto – dalla foggia particolare e antica, differente rispetto ai pifferi di plastica della banda della scuola – nel bel mezzo di una lezione non era certo qualcosa che potesse passare inosservata.
E poi c’era quella musica… Possibile che nessuno udisse nemmeno quella, a parte lui?
Ian tornò a fissare la ragazza, gli occhi nascosti dietro le palpebre chiuse, la schiena dritta e le dita che si muovevano leggere sui fori del flauto.
Non era solo quella melodia a essere ipnotica: osservare Faith che suonava era il tassello mancante che rendeva quella visione una trappola per chiunque l’avesse di fronte; c’era qualcosa, in lei intenta a suonare quel flauto, che ammaliava. Era come… osservare qualcuno che danzasse pur rimanendo fermo. Non sapeva se fosse una cosa possibile, ma era l’unico paragone che gli era venuto in mente, l’unico che gli era sembrato calzante.
Rapiva gli occhi, tanto da far sembrare impossibile poter distogliere lo sguardo – tanto da far sembrare impossibile aver mai fissato qualcos’altro, prima.
Ian si chiese cosa sarebbe successo se si fosse alzato in piedi in quel momento, se qualcuno – magari il professore – in classe se ne sarebbe accorto, se se ne sarebbe accorta Faith. L’intera aula sembrava caduta sotto un sortilegio e si domandò se quello stesso sortilegio avrebbe impedito anche che gli altri notassero cosa faceva lui.
E poi c’era quella musica…
Dio, non aveva mai udito nulla di simile prima di allora. Le sue orecchie non avevano mai udito una melodia più densa di… potere, com’era quella. Eppure, al contempo, era come se la sua mente, in qualche modo, la riconoscesse, come se dentro di sé serbasse un’antica memoria di quelle note che, Ian ne era certo, invece non aveva mai sentito prima.  Come un ricordo a lungo represso e non ancora del tutto riportato alla luce. Non sapeva come spiegarlo razionalmente, era mero istinto; una consapevolezza che gli veniva dall’interno, dal profondo delle viscere o, forse, da ancora più in dentro: una consapevolezza che portava nell’anima.
Forse, si disse, il sortilegio di Faith, quello con cui aveva colpito la classe, stava in realtà avendo il suo effetto anche su di lui. Non avrebbe potuto spiegarsi altrimenti tutte quelle sensazioni così confuse e contrastanti fra loro.
E l’adrenalina
Dio, i suoi muscoli fremevano per il desiderio di muoversi, per il desiderio di compiere quei pochi passi, di annullare quella breve distanza… E quando, alla fine, cedette e si alzò per avvicinarsi alla giovane, un bagliore, intravisto con la coda dell’occhio, attirò la sua attenzione.
Ian si voltò e vide una fiamma, grande quanto il suo pugno e sospesa a mezz’aria, proprio sopra il suo banco, davanti a lui. Una fiamma che sembrava danzare al ritmo della melodia suonata da Faith.
La osservò muoversi, sinuosa; ingrandirsi e poi dividersi in lingue serpentine che fluttuarono davanti al suo viso accarezzato dal loro calore. Le osservò vorticare e danzare e ricongiungersi nell’unica fiamma iniziale, rapito dai loro movimenti. Fissò la fiamma rossa, incantato dalla sua eleganza, del tutto ipnotizzato dall’energia che emanava; finché qualcosa si ruppe e la fiamma si immobilizzò di colpo.
Ian si voltò verso Faith – consapevole di cosa fosse cambiato: il flauto aveva smesso di suonare – e la trovò a guardarlo, per la seconda volta, e fu in quel momento che comprese.
Lei lo fissava di rimando, le iridi puntate dritto nelle sue, impassibile, il riflesso della fiamma nei suoi occhi d’ambra – avrebbe dovuto immaginare che, se mai qualcosa fosse cambiato nella sua vita, sarebbe stato a causa degli occhi di Faith –; lo fissava – e fu in quel momento che comprese – e poi gli sorrise. Un sorriso furbo, compiaciuto, un sorriso complice e divertito – pericoloso. Gli occhi ridenti lo scrutavano arroganti, da sotto la frangetta bionda.
La consapevolezza si fece così strada nella mente di Ian con l’immediatezza di un lampo: Nulla sarà più come prima, fu il suo pensiero.
Il respiro gli si fermò in gola.
Nulla sarebbe stato più come prima.
«Sapevo di non essermi sbagliata».
Poche parole pronunciate da una voce che mai si era rivolta a lui.
Per la prima volta da quando si era trasferita lì, Faith Morgan gli aveva parlato.
«Come?», domandò Ian con voce incerta, frastornato.
«Anche tu possiedi il Dono», disse soltanto la giovane, come se quello spiegasse ogni cosa, ma per Ian non spiegava proprio nulla.
«Dono? Ma di che cosa…».
«Guarda», lo interruppe lei.
Faith prese di nuovo il flauto con ambo le mani, poggiò le dita sui fori con destrezza ed eleganza e, con un cenno del capo, indicò a Ian di osservare di nuovo la fiamma; poi riprese a suonare. Solo poche note a delineare una melodia differente da quella di prima; una manciata di suoni caldi e bassi e poi uno più acuto. Ian tenne gli occhi sulla fiamma e la vide tornare a prendere vita. Stavolta, però, essa non danzò; vorticò, sempre più velocemente, e nel mentre diveniva via via più piccola, finché non raggiunse le dimensioni di una sfera di fuoco che Ian avrebbe potuto nascondere nel palmo della mano.
E roteava, quella piccola sfera, veloce… veloce… ancora più veloce…
E poi esplose, con un lampo di luce rossa.
Ian non distolse lo sguardo, non voltò il viso per ripararsi da quel bagliore improvviso; non aveva potuto: la fiamma aveva voluto che restasse a guardare. E non appena i suoi occhi, dopo pochi istanti, tornarono a distinguere di nuovo ciò che avevano di fronte, Ian mise a fuoco i contorni di un oggetto, sospeso anch’esso a mezz’aria e avvolto da lingue di fuoco che lo accarezzavano sinuose. Il ragazzo allungò la mano, mosso da una forza che gli scaturiva da dentro, consapevole che il fuoco non lo avrebbe scottato, e afferrò l’oggetto: era un altro flauto, anch’esso all’apparenza antico, proprio come quello di Faith; non era un piffero, bensì un flauto traverso.
Ian non aveva preso una sola lezione di musica in tutta la sua vita, eppure gli era bastato fissare quello strumento per avere la certezza che anche in quel momento, se avesse voluto, avrebbe saputo suonarlo.
«Perché so come suonarlo?», domandò stringendo lo strumento fra le dita.
«Perché è tuo», fu la risposta.
«Perché ho l’impressione di riconoscerlo?».
«Perché è sempre stato tuo».
«Ma tu chi sei?», chiese infine il ragazzo, sollevando finalmente gli occhi su Faith.
La giovane sorrise di nuovo, in quel modo furbo e sfrontato. «Lo sai chi sono, Ian Baker», rispose. Il ragazzo corrugò la fronte ma non disse nulla, l’espressione del suo viso parlava per lui: no che non lo sapeva.
«So che non fai altro che osservarmi, da quando sono arrivata», dichiarò allora Faith e Ian sgranò gli occhi, sorpreso. Faith non poteva certo immaginare che, in pochi mesi, era diventata quasi un’ossessione, per lui, ovviamente non avrebbe potuto sbagliarsi di più.
«Come lo sai?», ma la risposta se la diede da solo: era un tipo schivo, lei, ma ascoltava e vedeva tutto. Nulla sfuggiva al suo occhio attento, anche mentre, diligente, prendeva appunti sul suo quaderno, Ian lo aveva sempre saputo.
Faith intanto continuava a sorridere, sicura di sé e di ciò che sapeva. «Mi hai riconosciuta prima ancora di sapere il mio nome», continuò. «Lo hai avvertito senza esserne consapevole, hai avvertito che io ero come te», disse mentre l’altro la fissava sempre più confuso. «Hai riconosciuto una del tuo stesso sangue», concluse in fine.
«È impossibile», rispose allora Ian, scuotendo appena il capo. «È impossibile», ribadì una seconda volta. «Non ci somigliamo neanche. Siamo completamente diversi, come facciamo ad avere lo stesso sangue?», affermò convinto, ma non appena quelle parole abbandonarono le sue labbra risultarono sciocche alle sue stesse orecchie, come fosse stato un bambino che non comprendeva i discorsi degli adulti.
Come qualcuno che poneva le domande sbagliate.
Faith rise – per la prima volta da quando l’aveva conosciuta. «È questo il nostro legame», disse sollevando il flauto che teneva stretto in mano. «Questa musica è il nostro sangue, ciò che ci scorre nelle vene, ciò che ci rende uguali. E il Tempo è il nostro signore e, al contempo, siamo noi che lo governiamo».
«Il Tempo?», fece confuso Ian «Cosa… Perché ora parli del tempo?».
Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a capire. Stava accadendo tutto troppo in fretta e Faith era così criptica. Come poteva credere che lui avrebbe capito all’istante tutti quei discorsi che sembravano solo non avere senso?
«Il Tempo governa ogni cosa, noi compresi, ma io e te, Ian, e quelli come noi, siamo anche sue creature. Siamo i suoi figli diretti e per questo abbiamo la capacità di controllarlo a nostro piacimento, mentre questi strumenti sono ciò che ci permette di manifestare i nostri poteri», spiegò la giovane.
Ian abbassò gli occhi sul flauto che teneva fra le mani. «Come? Come possiamo? Io non conosco la musica per farlo».
Un altro sorriso, poi Faith sollevò il volto verso l’alto. «Se chiudi gli occhi le vedrai anche tu, le Note. Quello…», aggiunse poi, sorridendo ancora dietro le palpebre chiuse. «Quello, è lo Spartito del Tempo».
«Vuoi dire che conosco le note nello stesso modo in cui so come suonare questo flauto?», le domandò. Qualcosa si stava facendo strada dentro di lui; non era comprensione, no, ma la voglia di provare. Una voglia improvvisa e tanto forte da essere più simile a una necessità. Una voglia che, ancora una volta, non sapeva come spiegarsi.
«Sei nato con la Musica nell’anima, Ian Baker, proprio come me», rispose Faith aprendo di nuovo gli occhi e puntandoli su di lui.
«È questo che hai fatto alla classe? Per questo motivo nessuno di loro vede cosa in realtà sta succedendo?».
«Sì, ho manipolato il Tempo. Io e te siamo come dentro una bolla e ciò che succede al suo interno non viene toccato da ciò che sta all’esterno e vice versa».
«Grazie alla Musica».
«La Melodia permette di dilatare ogni istante, di condizionarne lo scorrimento in base alle nostre necessità. Possiamo andare avanti o indietro, anche di giorni, mesi, di interi anni e poi tornare al punto di partenza come se nulla sia mai accaduto».
«E tutto questo perché conosciamo lo Spartito».
«Ma conoscere la Musica non vuol dire sapere come usarla. Per quello avrai bisogno di imparare, scavare dentro te stesso per conoscerlo a fondo, lo Spartito; conoscere le varianti che esso assume in te. C’è una melodia diversa dentro ognuno di noi, nessuno è in grado di suonare la Musica dell’altro».
«Mi insegnerai tu?».
«Dipende».
«Da cosa?».
«Da quanto vorrai imparare. Ci sono delle regole che non possono essere infrante».
«Regole?».
«Ogni cosa ha le sue regole. Ti insegnerò solo se sarai disposto a rispettarle».
Ian abbassò di nuovo lo sguardo sullo strumento, valutando il peso di quelle parole. Adesso qualcosa era cambiato dentro di lui; non sapeva cosa fosse, ma finalmente sentiva che, forse, cominciava a capire. «E se io accettassi?», disse quindi, tornando a posare gli occhi sulla ragazza che aveva di fronte.
Quella sorrise un’altra volta, era come se Faith sapesse in anticipo che cosa lui avrebbe chiesto. Possibile che riuscisse a leggergli dentro in quel modo? Oppure era lui a essere così limpido, all’esterno?
«Devo avvisarti, però: è pericoloso», affermò a un certo punto lei. «E richiederà molte delle tue energie. Una nota sbagliata, una singola nota suonata col dubbio nel cuore e rischierai di finire nel luogo che ti ha sempre terrorizzato fin da bambino, il luogo che ha sempre rappresentato il peggiore di tutti i tuoi incubi».
Ian sbarrò gli occhi, stupito e di colpo sulla difensiva – spaventato. «E tu, questo, come lo sai?», disse. Non aveva mai detto a nessuno di quel sogno, nemmeno da bambino. Lo faceva ancora e la paura che provava era la stessa di quando era piccolo, anzi no, era peggiore. Crescendo era come se tutto fosse diventato più nitido e reale, il buio, le ombre… il nulla. E la paura era talmente forte da metterlo in allarme col solo ricordo.
«Perché lo faccio anche io», dichiarò Faith, improvvisamente seria, e Ian riconobbe senza fatica la stessa paura nei suoi occhi d’ambra, perché quel terrore non era qualcosa che si potesse camuffare.
«È lo stesso incubo per ognuno di noi», spiegò la ragazza. «La nostra paura più grande. Il Nulla è l’unica cosa in grado di annullarne ogni altra, persino il Tempo. Per questo devi imparare come suonare le note, senza sbagliare».
«E se io non volessi imparare? Se io non volessi avere niente a che fare con tutto questo?». Un moto di codardia che non aveva saputo controllare, troppo forte era la paura ridestata dal ricordo di quel sogno.
Faith sorrise di nuovo, divertita da quell’ingenuità. «Fa parte di te, Ian, non è qualcosa da cui puoi scappare. Non puoi cambiare ciò che sei».
Il ragazzo deglutì, sapeva che lei aveva ragione: non poteva cambiare ciò che era, non adesso che aveva visto – nulla sarebbe stato più come prima.
Rimasero in silenzio per parecchi minuti, fissandosi soltanto, occhi negli occhi, e minuto dopo minuto, Ian acquistò sicurezza grazie a quelle iridi d’ambra. Avrebbe accettato, non perché sapesse di non avere alternativa, ma perché voleva che fosse Faith a insegnargli. Doveva essere lei.
Qualcosa era cambiato nella sua vita ed era stato a causa degli occhi di Faith Morgan. E Ian Baker sapeva che, qualunque cosa fosse successa, quegli occhi avrebbero sempre fatto la differenza per lui, che quegli occhi avrebbero sempre cambiato ogni cosa.
«Ti porterò da loro».
La voce di Faith ruppe il silenzio che era calato rispondendo a una domanda che lui non aveva ancora posto. Hai parlato di altri come noi. Dove sono?, laveva solo pensato. Lei era riuscita a leggergli dentro, ancora una volta.
«Quando?», domandò quindi lui. Stava imparando che per avere le risposte che voleva, doveva solo fare le domande giuste.
«Presto», sorrise la ragazza.
Poi sollevò il flauto, dispose i polpastrelli sui fori e suonò.
La melodia che uscì dallo strumento era la prima che la ragazza aveva intonato e Ian si lasciò cullare dalle sue dolci e ipnotiche note; chiuse gli occhi, abbandonando a esse l’udito e ogni altro senso. Finché Faith non ne suonò una differente, una nota che prima non c’era stata. Acuta, vibrante, quasi ronzante; essa divenne, in breve, un suono fastidioso.
Ian riaprì gli occhi.
Era la campanella della scuola, le lezioni erano finite.
«Bene, ragazzi, per il test di mercoledì ripassate i capitoli sei, sette, otto e nove», disse il professor Davis, suscitando le proteste generali. «Non lamentatevi o potrei aggiungere il capitolo dieci con la lezione di oggi, d’altro canto avrete una settimana per studiare», concluse e i mormorii di dissenso si spensero di colpo.
Ian si mise dritto sulla sedia e si voltò, confuso e frastornato, a osservare i suoi compagni di classe che afferravano la propria roba e si affrettavano fuori dall’aula, diretti alle auto o agli autobus che li avrebbero ricondotti a casa.
Un sogno.
Possibile che fosse stato tutto soltanto un sogno?
Faith.
Volse il capo – una fila indietro e a destra rispetto alla sua – in cerca della ragazza, ma trovò il suo banco già vuoto. Spostò lo sguardo sulla porta e intravide una chioma bionda sparire oltre la soglia.
Fece in fretta: arraffò le proprie cose e si precipitò fuori dall’aula, nella calca degli studenti che uscivano dalle classi per tornare a casa. Vide la testa bionda che cercava, coronata dall’inconfondibile cerchietto col fiocco blu elettrico, diretta verso l’uscita. Doveva raggiungerla, doveva sapere se quanto era successo era stato reale o se aveva davvero solo sognato – a come le avrebbe spiegato, in quel caso, il suo strano comportamento nemmeno pensava. Ian doveva sapere, doveva parlare con Faith, doveva riuscire a raggiungerla; ma, a quanto pareva, i suoi compagni di scuola non volevano collaborare e, anzi, gli intralciavano la strada, rallentandolo e frapponendosi fra lui e il suo obiettivo. Quando, finalmente, riuscì a raggiungere l’uscita, di Faith non vi era traccia. Si guardò in giro, l’ansia che gli cresceva nel petto, ma senza trovarla.
No. Per favore, non essertene andata… Per favore, aspetta!
Non poteva essere già andata via, non prima che lui le avesse parlato. Doveva essere ancora lì, a scuola.
Il parcheggio.
Sì, forse si era andata di lì, forse non se n’era ancora andata.
E forse lui aveva ancora una speranza.
Ian corse, dribblando gruppi di ragazzi e urtando più di una persona senza nemmeno farvi caso, troppo concentrato a controllare l’ansia che sentiva stringergli il cuore. Giunse al parcheggio ma, a parte le ultime macchine che se ne andavano, lo trovò deserto. C’era ancora la fermata dell’autobus, ma ormai era troppo tardi; se lei si era diretta lì, sicuramente a quell’ora era già sulla strada di casa.
No…
E fu disperazione.
Forse aveva davvero sognato ogni cosa e nulla era stato reale. In caso contrario, Faith lo avrebbe senza dubbio aspettato. Eppure non riusciva a crederlo, non poteva… Ciò che aveva provato, le sensazioni, la fiamma, la Musica, tutto era stato talmente reale! Se lo sentiva dentro, lo sentiva nell’anima che quello non era stato mero frutto della sua immaginazione.
Il flauto!
L’ultima volta lo teneva stretto fra le mani, che lo avesse dimenticato in classe? Quel flauto era la chiave, lo sapeva; se lo avesse trovato allora avrebbe avuto la conferma che cercava. Se solo avesse saputo dove… Ma poi trasalì: la mano. Sentiva l’inconfondibile sensazione data dallo stringere qualcosa nel palmo e quando abbassò lo sguardo, finalmente, l’ansia scomparve.
Il flauto traverso che era apparso dall’esplosione della fiamma era lì, stretto fra le sue dita; comparso dal nulla nel momento stesso in cui aveva iniziato a pensare ad esso. Prima non c’era, lo sapeva.
«Adesso puoi anche calmarti, Baker. È successo per davvero, non l’hai sognato», commentò una voce ironica alle sue spalle. «Non possiedi una fantasia tanto fervida da immaginare una cosa del genere e puoi anche smettere di andare in giro con quell’aria da cane abbandonato, dal momento che sono proprio qui».
Ian si volse e trovò Faith, la schiena poggiata al muro e le braccia incrociate al petto, che lo fissava con lo stesso sorriso sfrontato e arrogante di prima.
«Da quanto sei lì?», le domandò.
«Da quando sono uscita. Ti stavo aspettando».
«Perché non hai detto una parola, in classe, e te ne sei andata?», l’irritazione, nella voce del ragazzo, era palese. Se lei lo avesse solo aspettato un minuto in più si sarebbe risparmiato tutta quella ricerca disperata.
«Certo e parlare dello Spartito davanti ai nostri compagni come se nulla fosse. Una delle regole più importanti è che nessuno può venire a conoscenza di ciò che sappiamo, a parte noi».
«E come potevo saperlo se tu non ti sei degnata di dirmelo?», replicò Ian stizzito.
«Lo sto facendo ora», affermò Faith scostandosi dal muro. «Oh andiamo, togliti quel broncio dalla faccia», aggiunse superandolo.
«E ora dove stai andando?», domandò Ian, sempre più irritato. Doveva ancora dargli delle spiegazioni e lei, invece, se ne andava via così?
«Non volevi conoscere altri come noi?», rispose la ragazza. Qualche altro passo e si voltò verso di lui. «Allora», disse. «Vieni o no?».
Ian borbottò un’imprecazione a denti stretti e la raggiunse.
«Ah, e prima che tu me lo chieda», riprese quella, tornando a camminare. «Solo chi è come noi può sentire la Musica. Se io mi fossi sbagliata – cosa che capita di rado – tu non mi avresti mai vista suonare in classe. Il sortilegio dello Spartito avrebbe avuto effetto anche su di te».
«Ma si può sapere come diavolo fai?», sbottò allora Ian, che ormai non sapeva se essere seccato o sconsolato: Faith aveva risposto, di nuovo, a una domanda che lui aveva solo pensato.
«Ti si legge tutto in faccia», ridacchiò l’altra.
Poi Ian rammentò una cosa, ma Faith lo anticipò ancora una volta: «Tranquillo, Baker: avrai tutto il tempo per ripassare per il compito di Spagnolo di domani».




FINE



Angolo autrice:
Saaaalve, gente!
Allora, innanzitutto comincio col ringraziare la mia adorata Emily (Alexandre), che ha avuto la pazienza di leggere il racconto in anteprima e mi ha dato la sua opinione. Grazie, tesoro bello, era da tanto che non scrivevo con calma e mi hai fatto passare l'ansia :*
Bene, per il resto non ho molto da spiegare sulla storia in sé, spero solo che tutto sia risultato chiaro. Ci tenevo però a dire una cosa: se qualcuno - lo dico molto ipoteticamente - avesse avuto la sensazione di aver già letto l'introduzione alla OS da qualche parte, è perché, effettivamente, è già comparsa qui su efp xD ai tempi la postai come traccia durante il famoso concorso fatto qui, sul sito, quello che poi ha portato alla pubblicazione di quella raccolta di racconti (perdonate la cacofonia). Insomma, l'idea era mia e in questi mesi l'ho ripresa e finalmente, adesso, è conclusa. Ian e Faith mi hanno supplicata per tanto tempo, quindi eccoli qui xD
Un bacio.

Graine
 

   
 
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