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Autore: Callie_Stephanides    08/01/2012    9 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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14.
Per cosa si vive. Per cosa si muore

Disorientata.
Nel cercare un nome alla mia follia, non potrei che attingere a un aggettivo abusato, perché a tradurla in parole, cos’era accaduto?
Avevo perso l’Oriente; smarrito le coordinate che avrebbero potuto fare di me la bussola del Nuovo Evo. Il rabbioso magnete di quell’istinto viscerale che chiamano ‘giustizia’, quando era invece odio – cieco, per giunta – aveva falsato ogni prospettiva e menato l’ultimo colpo alla ruota.
Alla mia e a quella di Vinus.
 
“Hanno abbandonato Trier.”
 
La voce del Generale era asciutta; illuminato dalle braci, il suo volto ricordava più che mai una gargolla di pietra.
 
“Ebbene?”
 
Stentavo a contenere la rabbia. Le emozioni correvano sotto la pelle e mi pareva quasi che vi aprissero infinite crepe.
Il tradimento di Rael mi aveva sbriciolato, ma non potevo concedere alla pietà della mia gente di soffiare via quelle minuscole schegge di me.
 
“Potrei organizzare una squadra di cavalieri che si pongano sulle loro tracce, ma non sarebbe una scelta conveniente.”
 
Accucciata davanti all’imponente camino del Gymnasium, non mossi un muscolo.
Fiutavo l’incertezza dei toni, come la nettezza sgradevole del giudizio che non osava formulare: stavo sbagliando tutto, con ammirevole lucidità.
 
“Credo d’intuire quel che volete dirmi: non possiamo impiegare uomini oltre la cinta della città.” La mia voce era ferma e controllata. “Non con l’esercito di Koiros a qualche miglio.”
Nephyl annuì; dei pochi presenti, non uno osava respirare.
“… Voi credete, dunque, che quanto accaduto possa restare impunito?”
 
Le parole erano aghi e mi ferivano la lingua, perché dire dava sostanza al fallimento. Tacendo, forse, m’illudevo di emendare la memoria di quell’ultima, terribile immagine: gli occhi senza sguardo di Rael, mentre mi preferiva il nemico.
 
“Siamo in pieno stato di guerra e, in guerra, le leggi sono…” “La legge sono io!”
Mi alzai di scatto e mi volsi. La mia treccia rossa gli sferzò il viso come uno schiaffo.
“Io sono la Makemagistra ed io dispongo dell’esercito di Trier.”
“Sbagliate, perché è a me che rispondono i soldati.”
Dischiusi le labbra, incredula.
“Ci fidiamo di voi, Magistra,” riprese il Generale – la mascella tesa, occhi freddi e duri e giudici. “Il destino di un uomo, tuttavia, ne vale mille solo nel Mito.”
 
La furia di una donna, però, poteva essere il calamo di una nuova Era: lo sapevamo entrambi.
Sorrisi sprezzante. Il mio viso spigoloso e brutto dovette sembrargli più sgradevole che mai. Mi cercavo nell’oscurità dei suoi occhi e quasi mi pareva di sfogliarlo come il più accessibile dei codici.
 
Una donna?
Chiami ‘donna’ una maligna strega tutt’ossa?
Quando sorride, è una lupa e, se stride i suoi ordini, un falchetto assassino.
Le femmine sono curva e gentilezza e pazienza; non buio e spigoli.
Donna?
Donna come la Mietitrice cui Dendre ha ceduto la tiara, riparando nelle Terre del Ricordo; donna come Madama Falce e donna come una spada.
Un’impostura, ecco cos’è, perché donna è vulva e fodero della lama, non il fallo che la riempirà.
 
Conoscevo quei pregiudizi, perché avevano cresciuto la Leya di un altro tempo; perché erano la voce del buonsenso e dell’equilibrio, memorie di una Trier che non c’era più.
Lukas era morto e mi aveva trascinato nel suo rogo.
Leya era morta e gli spettri non hanno sesso: sono solo l’ombra di un rancore che avvelena quanto rimane.
 
“Sapete, Nephyl…”
 
Rinunciai a usare il suo titolo; era una violazione dell’etichetta, ma, soprattutto, la manifestazione di un disprezzo che vinceva i ruoli. Per la prima volta nella storia di Eleutheria, era una donna a disporre della Guerra e della Pace.
Per la prima volta da che il Consiglio era stato fondato, tuttavia, una delle sue più alte cariche si mostrava del tutto inadeguata al compito che le era stato rimesso.
Avrebbero potuto insinuare che tanto accadeva proprio perché ero donna – femmina, fragile – ma chiunque avesse posseduto la lucidità dell’intelletto avrebbe detto che no, il problema, se mai, stava nel fatto che non ero più una donna.
Forse non ero nemmeno più un essere umano.
 
“La verità è che avete paura. Voi, come i vostri uomini, temete i dracomanni come temete le vostre ombre. Al solo pensiero di sfidarli in campo aperto…”
 
Il Generale contrasse la mascella e mi scoccò un’occhiata carica, in eguale misura, di scherno e di disgusto. Aveva scelto di fidarsi di me e come l’avevo ripagato?
Sul ciglio di un baratro sempre più fondo e oscuro, ancora berciavo d’onore e vendetta.
 
“I dracomanni sono la vostra ossessione, non quella della mia gente.”
 
Furono le sue ultime parole, prima del congedo: mi diede le spalle e si accomiatò con quel suo sparuto drappello di fedelissimi.
Se ero giunta a chiedere la testa di mio padre, quale altro ordine avrei vomitato?
Non voleva saperlo, perché era un uomo giusto.

*

Nell’ampio camino del Gymnasium, le braci crepitavano come mille cuori pulsanti. Il mio, incancrenito dalla solitudine e dal rancore, batteva più rapido che mai.
 
“Leonar…”
 
Masticavo rabbiosa il nome di chi, più d’ogni altro, aveva ispirato Rael. Saggio, visionario, mite, idealista: quello era Leonar di Trier. Ai miei occhi, un altro che aveva preferito versare il proprio sangue per non spendere quello del nemico.
Strinsi i pugni, finché la mandorla dell’unghia non incontrò la carne. Mi tremavano le mani ed io no, non volevo più tremare.
 
“Lui sa. Lui sa sempre tutto.”
 
Il sollievo durò un battito di ciglia, vinto dalla consapevolezza: come Nephyl si era premurato di riferirmi, nella mia vecchia, amata casa, non avrei trovato nessuno.
Dei tanti che mi avevano cresciuta e voluta così forte e così intelligente, tanto caparbia e risoluta, non uno era rimasto dalla mia parte.
Avevano avuto pietà di un assassino. Avevano protetto l’erede dei Draghi.
Fu allora che accadde; fu in quel momento che fiutai la pista di Vinus, perché richiamare alla mente la Bestia risvegliò nella mia memoria quanto avevo appreso in settimane di guerra e quotidiana frequentazione dei veterani: la Canzone del Norn e la sacra pergamena e la profezia e il candore immacolato di quelle chiome senza colore, bioccoli sfogliati con rabbia e dispersi ai miei piedi.
Mi strinsi nelle cocche del mantello e divorai l’erta che mi separava dalla casa di mio padre.
La nuda pietra, venata da possenti travi, accusava già i primi morsi del freddo: impegnata com’ero a latrare ordini, avevo lasciato che la clessidra piangesse i suoi grani senza darmene cura.
Posai il palmo sulla crepa muschiosa che sfregiava il telaio della porta; una vecchia ferita del legno cui, bambina, avevo domandato di misurare gli anni.
Avevo fretta di crescere, comprendere, esplorare; fissare negli occhi Leonar e sentirmi donna.
Ritrassi le dita, umide quasi avessero sfiorato una lacrima. Ero cresciuta, ma il tempo mi era sfuggito. L’estate stava morendo ancora una volta e il freddo non avrebbe mai portato la pace.
Koiros era là fuori: con o senza Vinus, ci avrebbe travolto.
Il pensiero della fine imminente non mi atterriva come avevo creduto: ero stanca di dibattermi nelle maglie di un rancore senza via d’uscita, e quell’ultimo abbandono aveva prosciugato le mie risorse. Aveva ragione Nephyl: non ero padrona di nulla, se non del mio destino.
Entrai. La casa era fredda e puzzava d’assenza. Era un guscio vuoto, che raccontava di Leonar più dei suoi libri.
 
“Sei stato migliore di me ancora una volta,” sussurrai. “Sapevi che il sangue non mi avrebbe fermato, vero?”
 
Mi strofinai gli occhi con un gesto rabbioso. Avevo voglia di urlare al silenzio e lasciarmi schiaffeggiare dall’eco.
Avevo voglia di addormentarmi e svegliarmi tra le braccia di Lukas.
 
“Eppure non mi conosci come credi, padre.”
 
E quel padre era il cigolio rugginoso di un cardine mal oliato.
 
“Perché a te preme la vita. A me…”
 
Mi muovevo tentoni, nel buio. I soldati di Nephyl avevano lasciato poche tracce del loro passaggio, perché il prestigio di un Decano era tale da pesare persino sull’efficacia di una perquisizione.
Io, tuttavia, non ero un soldato.
Io sapevo cosa cercare.
 
“Perché vedi, padre… C’è solo un desiderio che tiene in vita un condannato…”
 
Parlavo da sola.
Vomitavo quelle parole sprezzanti tra un grugnito e l’altro, come una pazza.
 
Lo studiolo di Leonar puzzava di chiuso. Non c’era olio nelle lampade, ma un raggio di luna filtrava dalle imposte semichiuse e illuminava l’imponente tavolo di quercia.
Ovunque pergamene arricciate e larghe asole d’inchiostro rappreso.
Ovunque tracce di una fuga meditata ma precipitosa.
Non avevo nemmeno bisogno di frugare per avere quella certezza: non avrei mai trovato la Nornika.
 
“L’hai data a Rael… E Rael…”
 
Se Vinus si era salvato, senz’altro era già in caccia.
In caccia della Bestia.
 
“Quanto desidera un condannato, è qualcuno che lo preceda!” urlai e sferzai con il palmo quella catasta di vecchi studi. “Io non posso morire prima di quel cane; non senza averlo ammazzato!”
 
Avevo visto la pergamena sacra una sola volta: anche se avessi posseduto un qualche talento da cartografo (e no, non ne avevo), troppo poco per memorizzarla.
Era un vicolo cieco? No, una sfida.
Ero la donna uccello, in fondo; avrei spiegato le ali e divorato le solitudini del Nord.
Non avevo altra scelta, perché non me la concedevo.
Fu proprio bruciando ogni alternativa, tuttavia, che riscoprii l’amore: di tutti i sentimenti, il più ingordo e feroce.

*

Vinus prese la via del Nord una notte di pioggia battente.
Le sue ferite non si erano ancora rimarginate, ma non si aspettava di sopravvivere, dunque la guarigione era una precauzione inutile.
 
“I lupi gradiranno lo stesso: non li ho mai sentiti lagnarsi di una carogna solo perché qualcuno l’aveva già intaccata.”
 
Rael non rise: gli fiutava addosso la paura, ne percepiva le mille ragioni e se ne lasciava contagiare.
All’improvviso, l’illuminazione disperata che l’aveva portato a tradire Trier non gli pareva più così buona.
Guardava Melian e il bambino tra le sue braccia.
Pensava a me, al mio teschio allucinato.
 
“Forse posso accompagnarti per un tratto. Se mia sorella…”
 
Vinus accarezzò il muso di Niktos, prima di salirgli in groppa. Una fitta lancinante gli strappò una sorda imprecazione, ma la inghiottì a denti stretti.
C’erano giorni in cui l’unica scelta era valutare come morire: lagnarsi non avrebbe piegato la libra. Non a tuo vantaggio, almeno.
 
“Se tua sorella fosse pazza sino a quel punto, avresti una ragione in più per restare.”
 
Rael schiuse le labbra. Vinus, però, l’anticipò, offrendogli la mano.
“Sei un grande soldato, figlio di Freil. Se incontrerò tuo padre nelle Terre del Ricordo, glielo dirò.”
 
E mio fratello, che non aveva mai conosciuto altro padrone se non l’istinto, s’inginocchiò davanti al suo principe, come il primo e il più leale dei sudditi.
 
“Tu ritornerai. Io lo so.”
Vinus distolse lo sguardo per cercare un futuro che non vedeva. “E tu resisterai.”
“Sì, io resisterò.”
 
A quel punto, le redini strette in pugno, l’erede di Lepthys sferzò i fianchi del liocorno e svanì inghiottito dal buio.
Dal cielo, Dendre piangeva come mai prima: pena per i suoi poveri figli condannati e sollievo per due cuori cui non mancava il coraggio di morire, né, soprattutto, quello di vivere.

   
 
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