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Autore: ASPEN    15/01/2012    1 recensioni
Anni dopo un mostruoso incidente capitato sull'isola che non c'è, un vecchio componente di una nota ciurma si reca a far visita ad una persona,volontariamente murata viva tra le mura legnose del suo vascello pirata
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi feci strada con una lanterna in mezzo alla coltre di nebbia per raggiungere il pontile di legno. La scialuppa era legata con una gassa alla bitta; la sciolsi con un gesto meccanico e balzai sulla barchetta a remi, allontanandomi vogando con fatica. Gli acciacchi della vecchiaia iniziavano a farsi sempre più intensi.

Non avrei mai pensato di invecchiare. Nessuno si sarebbe mai immaginato di invecchiare, qui. Ma da quel giorno, ogni cosa era cambiata.

Mi feci strada nel banco di nebbia. Da tempo non si vedeva il sole; non c’era più distinzione tra notte e giorno, era il nostro corpo a dirci quando avevamo bisogno di dormire, mangiare o bere. L’isola era avvolta dalla nebbia, una nebbia densa, ma non fredda, no. Non c’era più nemmeno un clima. Non si poteva dire che facesse caldo, però, non sembrava di essere su un’isola circondata dal mare. Sospirai… mi mancava il sole, il profumo del legno del pontile impregnato dell’acqua salata, l’inconfondibile suono dello sciabordio delle onde che s’infrangevano contro la chiglia del vascello quando salpavamo e prendevamo il largo alla ricerca di qualche tesoro da spendere in vizi e dolci compagnie; provavo nostalgia perfino del sudore che ci annebbiava la vista dopo un combattimento, dopo un’ava scoperta, dopo un arrembaggio o al termine di qualche lavoro o una qualunque sfacchinata ordinata dal Capitano.

Il capitano…

Mi stavo recando da lui, come sempre. Lo andavo a visitare di frequente. Durante il giorno (quando potevo ma sempre volentieri), pulivo la nave, sistemavo le cime, tiravo a lucido il pontile, ricucivo se necessario la bandiera (vietato cambiare il nostro Jolly Roger, piuttosto la morte) e gli portavo i viveri necessari nella stiva. Poi lo andavo a trovare.

Gli parlavo, gli raccontavo delle mie monotone giornate, di quel che facevo o di quel che avevo fatto o se semplicemente c’erano novità… anche se non penso che al Capitano interessasse più di tanto di come la sua vecchia ciurma passi la vita.

Aveva perso la voglia di fare qualunque cosa, il Capitano. Non tramava più, non leggeva più, aveva perfino smesso di suonare. Passava il tempo sdraiato nel suo letto, sottocoperta, o seduto nella sua poltrona di legno dai cuscini di velluto rosso, lo sguardo distante e gli occhi spenti.

Anche quando parlavo con lui e gli portavo da mangiare restava in un muto e vuoto silenzio. Penso che se non ci fossi stato io non avrebbe nemmeno mangiato. Non gli interessava più nemmeno vivere.

Avevo raggiunto la nave; attraccai e mi arrampicai su per la scaletta. La nebbia era talmente fitta, sul pontile, che dovetti proseguire a tentoni per non andare a sbattere contro l’albero maestro.

Trovai la porta per raggiungere la stiva e recuperai una bottiglia di buon vino. Magari questa volta l’avrebbe bevuto. Il Capitano non aveva rinunciato all’alcol; beveva rhum, rhum e ancora rhum. Non lo aveva mai bevuto prima, si asteneva dalle sere in cui cantavamo e ballavamo sul pontile ubriacandoci come dannati; lui sedeva a prua, un calice di vino in mano e lo sguardo fisso sulle increspature delle onde. Qualche volta lo avevo visto scrutare la volta del cielo, ammirando le stelle che si riflettevano nei suoi occhi.

 

- Capitano! – si annunciò come ogni volta scendendo gli scalini scricchiolanti. Quando aprì la porta si levò il cappello (da bravo irlandese qual era) e salutò con calore: – Buonasera Capitano! -

Come ogni volta che i suoi occhi s’imbattevano nella figura del Capitano, non poté evitare di rimanere a osservare per qualche istante la sua figura distinta: i suoi occhi, azzurri come i nontiscordardime e da sempre velati di una profonda malinconia, erano cerchiati da violacee occhiaie, con una sfumatura grigiastra ad intristirli; il volto cadaverico e aggrondato, le profonde rughe che si ramificavano sulla fronte alta e regale, quei lunghi capelli arricciati (un tempo neri come gli abissi del mare in cui gettava i suoi prigionieri con un masso legato alla gola) si erano leggermente ingrigiti, addirittura spuntavano qua e là delle ciocche candide... non potevano mancare i lunghi baffi e le folte sopracciglia e quella sua caratteristica aria nobile in qualunque cosa facesse (che fosse sgozzare un uomo o reggersi il volto con una mano mentre si lisciava i baffi con l’uncino)

- Spugna… - mormorò Giacomo Uncino con quella voce roca e ammaliante, che ricordava in un qualche modo il canto delle sirene… ma anche l’urlo del profondo abisso. Mortale e attraente allo stesso tempo.

- Non sei venuto per quattro sere, Spugna. – osservò il pirata scrutando qualcosa nel riflesso del suo uncino. Il suo volto era più cinereo del solito, e le sue occhiaie sempre più profonde… ma quella sfumatura aristocratica che rimaneva ancora nelle sue maniere e la figura dell’affascinante e crudele pirata non lo avevano abbandonato.

- Vi rivolgo le mie risentite scuse, Capitano, ma all’accampamento non è tempo di festa ultimamente – si scusò in tono ligio - e non ho potuto lasciarlo… ma oggi ho pulito per tutto il giorno la barca, Signore. – aggiunse posando la lanterna su un mobile e accendendo qualche candela. Il Capitano non accendeva mai le luci.

- Ti ho sentito Spugna, ho sentito…

Spugna iniziò a riordinare qua e là (non che il Capitano disordinasse molto col suo malinconico far niente, ma era una semplice abitudine) e a spolverare i mobili e i candelabri, quando raggiunse il clavicembalo.

Il leggio era sollevato e la tastiera aperta.

- Capitano… avete suonato di recente? – domandò con stupore.

Giacomo Uncino non distolse gli occhi dall’oblio in cui si erano immersi, quando rispose di sì.

- Oh davvero? Sono contento, Capitano. – si compiacque Spugna spolverando anche i tasti bianchi e neri. Poi proseguì con una spolveratina alla scrivania. Il Capitano si alzò con lentezza e raggiunse il seggiolino, si sedette elegantemente e osservò la tastiera lucida. – Mi era venuta voglia, come un attacco di… di…

- Malinconia? – suggerì il vecchio mozzo dando un’occhiata critica alla libreria. Uncino annuì fissando i tasti.

- Vedo che ha anche letto, Capitano.

- Sì. Una carta nautica… e il vecchio diario di bordo.

Spugna s’irrigidì fingendo il contrario e raccogliendo una bussola da terra, quando Uncino iniziò a suonare.

Riconobbe immediatamente la melodia: era quella che il Capitano aveva composto quella notte di tanto tempo precedente, la notte che aveva rapito Campanellino.

Una fitta di dolore al petto lo costrinse a socchiudere gli occhi mentre il Capitano proseguiva quella lieve armonia capace di stregare anche il più impassibile degl’uomini.

Altri ricordi gli guizzarono con tenerezza in mente, rendendolo consapevole di quanto tempo fosse passato.

La voce del Capitano lo distolse dai suoi pensieri: - Cosa accade all’accampamento? – domandò distrattamente.

- Oh, Giglio Tigrato è gravemente malata… - rispose fingendo noncuranza.

Gli accordi scordati del Capitano si fecero più lievi: era attento. – Quale disgrazia?

- Si teme il Tifo.

Il Capitano si volse senza smettere di suonare per cogliere lo sguardo inevitabilmente addolorato di Spugna. – Quanto ha?

- Lo stregone ha detto qualche giorno, se avremo fortuna.

Il Capitano continuò a fissarlo, ma non aggiunse altro.

Iniziò una nuova melodia, e Spugna seppe che la stava suonando per lui, e per Giglio Tigrato. La sua Giglio Tigrato.

Il vecchio pirata trattenne una lacrima e preparò la cena.

La musica continuò a lungo con toni malinconici ma in un qualche modo caldi per la loro armonia, come la situazione che Spugna stava vivendo all’accampamento a causa della malattia della propria compagna.

- Stasera berrò il vino, Spugna. – Spugna avrebbe voluto ringraziarlo, ma non l’aveva mai fatto e sapeva che il Capitano non avrebbe gradito.

Uncino si alzò intanto che gli veniva servito il cibo in un piatto e mentre il suo fidato mozzo sistemava le posate d’argento.

- Spugna… - il Capitano reggeva nella mano sinistra due calici - …ti aggraderebbe cenare con me, questa sera? – domandò con la sua voce vellutata.

Spugna, sinceramente sorpreso dalla richiesta del pirata, venne preso in contropiede, e non seppe cosa rispondere.

- Mi piacerebbe molto Spugna. – ammise con sincerità il suo affezionato superiore.

- Ho già desinato, Capitano. Ma le farò compagnia con immenso piacere.

Così entrambi si sedettero al tavolo in mogano della cabina, e il Capitano iniziò a consumare lentamente il suo pasto.

- Che fine hanno fatto i Bambini Smarriti, Spugna? – chiese dopo un po’ il pirata osservando il liquido rossastro colmarsi della luce tenue della candela. – Non me l’hai mai raccontato.

- N-non me l’avevate mai chiesto, signore. – si strabiliò Spugna sistemandosi gli occhialetti tondi sul grosso naso. Il Capitano attendeva ancora una risposta. Spugna si leccò le labbra.

- Ne è rimasto uno solo, Signore.

Giacomo Uncino alzò le sopracciglia, meravigliato. – Perché mai?
- I Bambini Smarriti, Signore non hanno… retto la situazione, tempo fa. D’altra parte erano ancora… dei bambini, intendo, lo sono sempre stati.

- Anche Peter lo era. – lo apostrofò Uncino strizzando gli occhi. – Lo chiamavano “Il Grande Padre Bianco”. – aggiunse. Aveva terminato di mangiare.

Spugna rimase sbigottito dalla sua freddezza, dalla sua lucidità riguardo all’argomento. Non seppe come continuare.

- E quale di loro è rimasto?

- Zufolo, Capitano.

- Il più allocco di tutti? – si sorprese Uncino.

- Alla fine si è rivelato il più saggio… ha seguito l’insegnamento di Peter e dimora ancora nel vecchio albero, la loro Casa Sotterranea, quella che avevamo scovato. Si è preso lui cura di Campanellino quando… - aggiunse fermandosi all’improvviso. Aveva paura che i troppi ricordi avrebbero frustrato il Capitano, ma quello parve impassibile e imperturbabile come sempre. Sembrava aver riacquistato un po’ di colore, forse grazie al vino, e la screziatura grigiastra che gli velava gli occhi era scomparsa, ora brillavano come la lama di una spada.

- Campanellino… è ancora viva? – domandò il Capitano trasudando ansia da tutti i pori.

- Sì. Ha passato tempi peggiori. Zufolo è riuscito a tenerla in vita quando perse il suo padroncino. – spiegò cercando di avere un minimo di tatto.

Uncino si alzò e raggiunse la libreria, estraendone un tomo di cuoio rilegato da grosse borchie sul dorso e frontespizio. Non vi era alcun titolo e Spugna non capì di cosa si trattasse pur stringendo gli occhi. Il Capitano lo sfogliò furiosamente, fino a trovare la pagina che gl’interessava, leggendola avidamente.

- Pensi che accetterebbe di tenere un colloquio con me, qui, a bordo?

Spugna storse le labbra circondate dalla candida barba: - Non penso si spingerebbe fin qui, Signore. D’altra parte è molto debole, è già un miracolo se…

- Non importa, potrei recarmi io da lei! – disse con un gesto di noncuranza delle mani. – Pensi che sarebbe possibile? Potresti contattarla?

- Penso di sì, signore. – ci rifletté un attimo il povero, Spugna, confuso più che mai.

- Bene. Ti ricompenserò per questo Spugna, se riuscirai ad ottenere quel colloquio il prima possibile.

- Non si preoccupi Capitano, cercherò di…

- Grazie Spugna, ora va.

E così dicendo lo spinse fuori dalla cabina.

Mentre remava verso la via del ritorno, Spugna pensò a tre cose: Giacomo Uncino lo aveva appena ringraziato, dopo una vita sotto il suo comando e si era reso disponibile ad abbandonare la nave per andare a parlare con Campanellino!

Ma ciò che l’aveva più colpito era stato lo sguardo del Capitano, animato da un fuoco interiore che da tempo non gli zampillava negli occhi.

 

Per la prima volta dopo molto, molto tempo, Uncino quella notte dormì a lungo, sognando di Peter. Il suo subconscio riportò a galla i ricordi che ogni giorno richiamava alla mente e di cui sentiva un’irrazionale e lacerante nostalgia.

Ricordò di quando lui stesso aveva rapito Giglio Tigrato, portandola alla Roccia del Teschio, ove il suo acerrimo nemico, quello spavaldo e arrogante ragazzino dalla zazzera fulva, si era preso gioco di lui sfruttando l’eco della cava per farla liberare, imitando la sua voce alla perfezione per confondere i suoi pirati. Avevano duellato lì, lui con la sua spada e Peter con il suo pugnale.

Duello, pugnale… il sogno mutò: un altro duello ma le stesse armi, molto tempo prima, quando si chiamava ancora Capitan Giacomo.

Peter Pan lo aveva costretto tra l’albero maestro e il vuoto e, tentando di farlo sbilanciare, Uncino aveva rischiato di cadere. Peter ne aveva così approfittato e gli aveva reciso una mano, la sua mano destra. Urla di dolore, grida di sconfitta e umiliazione mentre l’altro gli dava del baccalà e gettava il suo arto in pasto al coccodrillo.

Il coccodrillo…

Tic, tac, tic, tac, tic, tac, tic, tac.

Un altro duello, tempo dopo. Peter stava vincendo ancora una volta, lo aveva spinto verso l’estremità dello scoglio, nella Laguna Nera. Peter aveva il suo tesoro, gliel’aveva sottratto grazie ai suoi mocciosi e a quella stramaledetta polvere di fata.

Tic, tac, tic, tac…

Il coccodrillo era nei dintorni, Capitan Uncino lo sentiva… e una paura viscerale gli raggelò le interiora.

Tictactictactictactictactictactictac…

Le lame s’incontrarono ancora una volta con violenza, Uncino barcollò all’indietro a causa del contraccolpo e avendo una mano impegnata e dal momento che nell’altra possedeva un uncino, non poté appigliarsi da nessuna parte, se non alla casacca di Peter.

TICTACTICTACTICTACTIC…!

Il coccodrillo sbucò fuori dall’acqua, spalancando le sue enormi fauci e cercando di afferrarlo al petto. Stava per riuscire nel suo intento quando qualcosa gli fece mollare la presa, qualcosa che Uncino, senza accorgersi, stava trascinando con sé nella bocca del Coccodrillo.

Cadde sullo scoglio, reggendosi il braccio ferito procurandosi un’altra ferita: si era toccato con l’uncino. Ma lo spettacolo che si presentò davanti ai suoi occhi fu più lacerante di qualsiasi altra ferita: Peter si stava battendo col Coccodrillo, ma non riusciva a volare: nessun pensiero felice era nella sua mente, ora come ora. Peter sapeva che non ce l’avrebbe fatta, ma non si arrese, combatté fino all’ultimo, fino a quando le fauci dell’enorme rettile si chiusero su di lui, inghiottendolo per sempre.

Poi il coccodrillo s’inabissò, e Uncino, con gli occhi pieni di orrore, rimase col cuore squarciato da una sconvolgente consapevolezza, e da una dura realtà: Peter Pan era morto. Non c’era più, e non ci sarebbe più stato.

 

Si svegliò di soprassalto, e la stanza vorticò. Il capogiro durò alcuni secondi, poi tornò ad avvolgerlo l’oscurità.

Nella sua mente vi era ancora impressa l’ultima immagine del sogno, del ricordo atroce che da tempo lo tormentava impedendogli di dormire: gli occhi del ragazzo prima di essere ingoiato, divorato; gli occhi di Peter che andavano incontro alla morte rivolgendogli un ultimo, atterrito sguardo. Non aveva mai visto la paura nei suoi occhi, ma quella volta sì. Erano più angosciati però. E non erano preoccupati per quello che gli stava accadendo, no, era come se… fosse preoccupato per quello che stava lasciando. Uncino lo capì in quel momento. Peter aveva pensato ai suoi ragazzi, ai Bambini Smarriti, a Campanellino, all’uccellochenonc’è, all’accampamento indiano, alla baia delle sirene… quell’angoscia che aveva visto nei suoi occhi era rivolta al dolore che stava lasciando all’isola che non c’è, non a quello a cui sarebbe andato incontro.

Peter aveva un animo troppo nobile, per pensare a sé stesso pensò il Capitano prendendosi la testa tra le mani. Anni prima non avrebbe neanche lontanamente immaginato di poter formulare un pensiero simile, non l’avrebbe nemmeno considerato, e invece…

Dopo la sua morte, l’isola che non c’è era davvero scomparsa: era scomparsa per come la conoscevano tutti prima.

Dopo che il coccodrillo aveva inghiottito Peter, l’acqua si era illuminata d’oro all’improvviso e il coccodrillo si era librato in aria innanzi agli occhi dello sconvolto Uncino, esplodendo in mille pezzi e travolgendolo.

L’eco della risata del nemico si trasformò in un urlo di dolore, l’urlo della sua fata.

Le fate sono profondamente legate ai loro padroni, anche a livello fisico, e di conseguenza Campanellino aveva risentito fortemente della grave perdita, istantaneamente.

La Laguna Nera, che oramai era stata nominata “Laguna del Padre Bianco” distava molto dall’Isola che non c’è, più della Roccia del Teschio.

Sta di fatto che Uncino impiegò diverse lune a tornare. Forse per il fatto che furono le onde a trasportarlo o perché il tempo, all’isola che non c’è, era infinto.

Ebbene, con la morte di Peter, anche l’incanto dell’isola si era frantumato. Quando Uncino tornò, il tempo era trascorso a velocità multipla anziché rallentata; le sirene sono creature immortali, ma i Bambini Smarriti, gli indiani e i membri della sua ciurma che non erano andati con lui alla Laguna Nera erano invecchiati. I Bambini Smarriti erano morti o si erano tolti la vita (da come gli aveva raccontato Spugna).

Capitan Uncino, al suo ritorno all’isola che non c’è, si era rinchiuso nella sua stiva, senza più uscirne.

La ciurma, man mano che il clima cambiava, che la situazione degenerava e l’isola che non c’è s’incupiva, avevano lasciato la nave, accampandosi da qualche parte in un fortino o nei pressi della Laguna delle Sirene per sfruttare la loro compagnia. Ma le Sirene erano diventate dei mostri spietati del mare, che annegavano con lo sguardo le loro vittime lasciandole poi morire sul fondo della laguna.

Uncino senza Peter Pan non era più Uncino. L’isola che non c’è non c’era veramente più e la vita dello spietato Pirata non aveva avuto più alcun senso.

Perché cercare un tesoro, se poi non doveva escogitare un piano per far sì che Peter non glielo sottraesse?
Perché suonare, se ogni sua singola emozione era attutita e soffocata da quel profondo senso d’impotenza che aveva avvertito davanti alla morte del suo nemico e per la miseria che gli dilaniava il petto?

Perché fare qualsiasi cosa se non c’era più un motivo per indispettirsi, sfogarsi, divertirsi o sentirsi quello che realmente era: un pirata, lo spietato Giacomo Uncino?

Non era niente, senza Peter, non era null’altro che un buffone vestito da bucaniere con un pezzo di ferro a rimpiazzargli la mano, e poco importava che l’avesse utilizzato per squartare qualcuno.

Ma in quella notte, in quella notte di rivelazioni, di ricordi e tormenti, Uncino capì perché fosse rimasto ancora vivo, o almeno: cosa poteva fare per riuscire nel suo desiderio più profondo: rincontrare Peter, tornare alla sua vita di prima. Mentre indossava le sue vesti e il tricorno piumato, si convinse che stava andando, per l’appunto, da Campanellino solo perché tra Peter e lui non era finita né lealmente né giustamente: la morte di Peter Pan non aveva decretato la vincita di Uncino, non lo aveva sconfitto, e lui bramava un vero duello finale (d’altronde era pur sempre un pirata, era pur sempre Uncino).

 

 

 

Giglio Tigrato morì. Sedevo al suo capezzale quando spirò.

La tribù ha celebrato il rituale e Toro Seduto, suo padre, mi ha consegnato lo spirito e l’anima di sua figlia, affidandomelo e chiedendomi di farne tesoro. Giglio Tigrato è stato il tesoro più prezioso, la fanciulla più bella, il liquore più sopraffino, la lama più affilata, il doblone più pesante, il gioiello più splendente e raffinato che io abbia posseduto e custodirò dentro di me la sua anima per sempre.

Il giorno seguente, di buon mattino, mi sono recato alla scialuppa dopo che Zufolo mi aveva annunciato che il Capitano Uncino aveva discusso per l’intera nottata con una Campanellino che lo aveva seguito senza alcuna titubanza fino al vascello.

Erano salpati, la nave non c’era più, la scorsi in lontananza. Non feci in tempo ad accorgermi che ero riuscito a vederla a causa della mancanza di nebbia che un bagliore dorato si propagò per tutto l’orizzonte, disperdendosi in un’onda di polvere dorata energetica che mi travolse, scaraventandomi sulle travi di legno del vecchio pontile.

Quando rialzai il volto, un po’ acciaccato, la nave all’orizzonte era scomparsa, ma attorno a me qualcosa d’indescrivibilmente magnifico era accaduto: l’isola che non c’è… era tornata, c’era.

Le piante multicolori erano rifiorite, gli alberi avvizziti si erano eretti nella loro altezza tutto d’un tratto… la nebbia si era diradata e… all’orizzonte sorgeva il sole. Il sole! Una palla infuocata scarlatta stava sorgendo donando al cielo le più belle sfumature di colore, rendendolo simile a uno stravagante acquarello dalle tinte esagerate.

L’acqua non era più nera e sul fondale si vedevano pesci colorati. Una leggera brezza arrivava dal mare, impiastricciando i capelli d’aria salata e stuzzicando le narici con la salsedine.

Era successo qualcosa… Spugna vide una zattera avvicinarsi, una zattera… con dei bambini! si avvicinarono al molo, e Spugna gli aiutò ad attraccare, visibilmente attonito. – E voi chi siete? –

- Siamo Bimbi Sperduti. – rispose uno di loro.

- Vorrai dire Bambini Smarriti. – lo corresse Spugna.

- No, Bimbi Sperduti. Dove siamo?

- A-all’isola che non c’è. Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino. – recitò il pirata.

- Ah…

- Potrebbe aiutarci? Non sapremmo dove andare. – piagnucolò uno di loro, aggrappandosi ai suoi calzoni.

- Penso che ci sia un ragazzo dell’isola che potrebbe aiutarvi. – pensò Spugna ad alta voce. – Vi porterò da lui.

Li aiutò a scendere uno ad uno, poi fece per incamminarsi quando uno di loro lo fermò. Era più grande degli altri, i capelli del color dell’ebano e gli occhi di un blu cobalto.

Venendo qui, ho trovato questa. – disse porgendogli una bottiglia di vetro. – Ho la sensazione che sia per lei. – il bambino sorrise con aria furbesca e Spugna notò che la ceralacca che chiudeva la pergamena al suo interno era stata rimossa in precedenza. – Spugna, giusto? – disse mostrando una dentatura sgangherata.

- Davvero sei il capo dei pirati? Io voglio diventare un pirata.

Spugna lesse la lettera del Capitano trattenendo il respiro.

 

Fidato Spugna,

Peter non è morto. Non può esserlo. L’ho appreso da un antico testo che trafugai anni or sono.

Le nostre anime sono legate in base al nostro riscatto si sangue: quando mi mozzò la mano giurai vendetta a costo della vita, ma non ho mai soddisfatto il mio giuramento. Grazie a quest’ultimo ho scoperto che Peter può morire solo per mano mia, come io posso solo decedere per la sua, e se fosse morto davvero, io non potrei essere qui, vivo e vegeto a vergare questo parole.

Peter Pan non è morto, Spugna, è prigioniero tra l’isola che non c’è e la miglior vita, per questo non sono morto con lui.

Lo raggiungo per sfidarlo all’ultimo duello e liberarlo dalla sua prigionia; solo in questo modo l’isola che non c’è tornerà ad essere com’è sempre stata e io potrò finalmente a tornare alle origini: saremo di nuovo acerrimi rivali. La nostra lotta eterna riprenderà e potremo entrambi passare alla miglior vita.

Tu Spugna devi rimanere all’isola che non c’è.

Non sei più un semplice mozzo, ti nomino capitano.

Ossequi,

Giacomo Uncino

  
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