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Autore: Callie_Stephanides    11/02/2012    10 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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P A R T E T E R Z A
(GIORNI DI GUERRA)
1.
Rovine e polvere

Le genti delle Midlands chiamavano il Norn vetta incoronata. Il nome, romantico e allusivo, diceva della natura del luogo più di qualunque mappa.
Nessuno, tra i viaggiatori di Eleutheria, si era spinto sino alle pendici di quello che molti credevano il pilastro del cielo.
Alto, tanto da svanire tra bruma e nembi, era un massiccio mitico e un monito ancestrale. Era la bandiera di quel Nord inesplorato da cui sarebbe disceso tutto il male del tempo.
Le leggende, tuttavia, sono la voce saggia e poetica della Storia: se spendevano versi a celebrarne l’asperità e le ombre, allora il Sacro Monte esisteva ed io l’avrei trovato, perché lì – era già scritto – avrei affrontato Vinus.
Era la farneticazione di un’illusa: non riuscivo nemmeno a oppormi al rinculo di una balestra e pensavo di uccidere il più forte dei dracomanni? A quel punto, perché non sfidare Koiros in campo aperto?
Il fuoco dell’odio, però, restava monocolo e fisso, unica luce nelle tenebre in cui ero precipitata.
Ero sola come mai ero stata: sola perché egoista era il mio obiettivo. Sola perché non fidavo più nella comprensione e nella lealtà di Eleutheria.
Non c’erano loro ad aspettare Lukas dall’alto del dongione.
Non erano stati loro a bruciare anche le stoppie di una felicità irripetibile.

*

Scelsi un robusto cavallo da guerra e un mantello di lana. Il tessuto era grossolano e, a tirartelo sul capo, avevi la sgradevole sensazione d’essere soffocato da un animale morto. L’autunno, tuttavia, che era a Trier appena un vento più freddo, una peculiare brillantezza del cielo, nelle lande del Settentrione avrebbe affondato i suoi artigli e morso la carne che non ricordavo di avere.
Non gliel’avrei concesso comunque.
Aggiunsi a quel magro bagaglio della carne affumicata per il viaggio, alcuni campioni di erbe medicinali e il pugnale da cui non mi separavo mai. L’ambizione era di cogliere il nemico di sorpresa e sgozzarlo.
A volte mi pareva quasi di sentirla, quell’umida, straordinaria sensazione di vittoria: la viscosità del sangue, il suo torbido calore si era sostituito alle notti d’amore perdute, quando bastava una carezza a sciogliermi.
Ora ero fredda come il ghiaccio e, tra faglie e nevai, inseguivo la mia vendetta.
Non avevo mappe, né tracce da seguire: solo la determinazione dei pazzi.
Nella testa, incoerenti e disordinate, si agitavano le parole che gli avrei detto, appena prima di rubargli la vita.
 
Mi hai trasformato in un mostro.
Mi hai distrutto ed espugnato e bruciato.
Mi hai saccheggiato, rendendo sterile la mia vita.
Hai ucciso l’amore che avevo dentro e disperso la mia famiglia.
Ai tuoi occhi sono patetica, perché voglio la tua morte?
Lo sarei ai miei, se rinunciassi per paura. Invece no, cane: io non ho più paura di nulla.
 
C’era qualcosa di profetico nell’accanimento con cui quel nome mi rotolava sulla lingua: nella corsa solitaria verso il Nord, era già allora il compagno che mi ero scelta.
Vinus lo immaginava? È difficile rispondere, perché i suoi occhi non si lasciavano leggere, pieni com’erano della torbida bellezza che viene solo dalle ombre.
Ci sono uomini che sono bravi a mentire; bari scaltri, che simulano le emozioni senza fatica o pudore.
Ci sono anche uomini che sanno recidere da soli il filo di un pensiero molesto, perché quella trama è la tela che ne impastoierà le scelte.
Vinus era tra questi.
Il suo rancore, la sua disperazione erano anche un formidabile attaccamento alla vita: alle sue spalle, in fondo, c’era un mondo di morti. Poteva fermarsi e raccoglierne i pezzi – ed essere così contaminato dalla rovina – o dar loro le spalle, inventandosi quotidianamente una storia.
Non so quale tenesse impegnato il suo cuore, quel giorno, ma so cosa l’interruppe: nella faticosa cavalcata per il Nord, lungo piste dimenticate e, soprattutto, lontane dai presidi di Koiros, si era ritrovato, infine, ad attraversare le terre di Venusya – o quel che ne restava.
Se non avessi sfidato quei luoghi, forse non potrei ora dire cosa provò lui, primo e ultimo dei draghi. Non potrei dirlo, perché i luoghi sono ricordi solidi: dovevo toccare con mano il mausoleo della sua infelicità per comprendere che sì, il mio lutto non poteva sfiorarla.
E lo vedo, Vinus, sotto quella pioggia battente, cavalcare sferzato da un’acqua che punge quasi fosse vetro. Il mantello lo protegge, ma lascia scoperto il viso. Lungo gli zigomi affilati non corrono lacrime ma gocce gelate.
I suoi occhi si perdono tra muschio e pietre nere. Là stava Lephtys – la Grande. L’Onorata.
Là era la cinta dell’aristheia, ove si schierava l’esercito.
Là stava invece il palazzo dei Principi, anticipato dalla Porta del Drago.
Della chimera che lo intimoriva da bambino, resta la spirale di una coda scagliosa e una cuspide che era forse un’unghia.
Vinus chiude gli occhi. “Non ricordavo più.”
 
Non ricordavo più: non mi stupirei se avesse liquidato un’emozione di pancia e di cuore con queste parole. Sarebbe stato degno di lui, della loquacità dei suoi silenzi.
Direbbe molto, tuttavia, del miracolo di Rael, poiché era stato mio fratello a ricordargli cosa significasse il titolo di Signore della Guerra.
 
Quelle rovine sferzate dalla furia degli elementi erano tutto quello da cui era fuggito: combattendo come un soldato, senz’altro, ma non per Venusya, né per se stesso.
 
Non ricordavo.
 
Non ricordava d’essere stato un principe, d’essere stato libero, d’essere stato protetto.
Non ricordava nemmeno il dettaglio più atroce: che era stato Koiros a trascinarlo fuori, per la prima volta in dieci anni di vita; Koiros, a esporlo ai raggi di una stella che, sino a quel momento, gli era stata solo raccontata.
 
La libertà puzzava del sangue della mia gente, deve aver pensato. Ma la libertà, che odore mai può avere?
 
Strinse le redini e le strattonò con rabbia, per arrestare la corsa di Niktos. I suoi occhi aspettavano un filo di fumo, una traccia di vita, ma non trovarono niente; dunque, con lentezza, cercò la terra – la sua terra – e s’inginocchiò.
Sotto un cielo nero, orbo di stelle, leccò la rena rugginosa e salsa, quasi fosse la carne dei suoi avi. Masticò fango e polvere, solitudine e vendetta.
Li inghiottì perché il ricordo acquistasse sostanza e peso. E giurò: giurò sulla corona di Lephtys che solo un drago avrebbe avuto il suo cuore, che lo sbranasse o ne fosse sbranato.
Pianse asciutto, questa volta, e fu una liberazione.
 
Decise infine di accamparsi nella foresta che lambiva la città morta, finché il tempo non fosse migliorato; prima di costruire un riparo per sé e il liocorno, tuttavia, predispose un sistema di trappole, retaggio dei giorni da mercenario e della saggezza dell’istinto: poteva cogliere di sorpresa un nemico o guadagnare un pasto che non sapesse di cuoio stagionato.
Nei suoi lacci, invece, cadde l’unico uccello che mai avrebbe voluto incontrare: caddi nella sua vita e lì rimasi, finché durarono i suoi giorni da uomo.

*

Il limite di chi vive tra inchiostro e pergamene, schiavo di suggestioni muffite, è che dimentica la pelle e l’effetto che fa la vita quando ti sfiora. Dimentica il freddo e la fatica e il dolore.
I libri crocchiano tra le dita o sussurrano canzoni mute, ma non ti schiaffeggiano con il fango e con la neve.
Chi vive solo di libri sogna un’esistenza immacolata, per superbia o vigliaccheria, e dovrebbe rassegnarsi a vivere da codardo, perché, come evade dalla pagina, precipita tra le mille ombre del vero.
Me ne accorsi come superai la piana ai confini nord-occidentali di Trier, ultimo baluardo della civiltà fiorita tra le barbarie di un mondo ferino.
Quelle terre, un tempo occupate da frutteti, pascoli e bionde distese di grano, apparivano ora ai miei occhi come un monotono manto bruno.
Chiusa in una fortezza che era, al contempo, fisica ed emotiva, avevo perso una realistica percezione della realtà. Ora, movendo verso le regioni che per prime avevano saggiato la ferocia di Koiros, sentivo brividi di terrore corrermi lungo la schiena.
Non erano conquiste, quelle, ma morsi.
Eleutheria, la regione che celebrava nel nome la vita, la bellezza e la libertà, era una carogna spolpata.

*

Sebbene mio padre fosse stato negli anni della giovinezza un viaggiatore instancabile e curioso, la mia conoscenza di Elithia era ridicola. Avrei saputo recitare a memoria i nomi dei principali borghi delle Midlands, ma non mi ero mai spinta oltre la cinta di Trier.
Bambina, mi accontentavo di uno spazio che pareva già troppo vasto. Giovane donna, fuggivo lontano con il cuore e me lo facevo bastare. Adulta – l’ho detto – avevo perso l’Oriente e chiuso gli occhi.
Quello, dunque, era il mio primo viaggio: divoravo lo spazio, ma opponevo, soprattutto, una nuova distanza alla Leya abbrutita dalle invincibili solitudini di un carcere autoimposto.
 
Una pioggia gelata e insistente cominciò a rallentarmi che ero ormai nei pressi di Thula. Come me, tuttavia, aveva interrotto la marcia di Vinus, che era un soldato esperto, dunque poco incline a mettere all’asta quell’unica, disperata (amatissima) vita.
 
L’ho lasciato, nelle mie memorie, accampato poco oltre le rovine di Lepthys: fu lì, dunque, che ci trovammo, macerie tra le macerie.
 
A differenza del mio nemico, non ero stata né prudente, né saggia. Lo Shire era fradicio e schiumava sangue, ma pretendevo di andare avanti. Guardavo i suoi enormi zoccoli scalfire la terra e sollevare con difficoltà crescente grasse zolle fangose; spruzzi di quella malta di sabbia e pietrisco s’incollavano ai fianchi del cavallo, lordavano i miei stivali e appesantivano i lembi estremi del mantello.
Non ero mai stata tanto sporca in tutta la mia vita, eppure non mi pareva un dettaglio rilevante: quando il buio cala in te, tutto si livella.
A tratti mi domandavo ancora se a Trier avessero già notato la mia assenza e mi rimpiangessero. In fondo, però, non m’importava: come Vinus al pensiero del drago, non mi facevo illusioni sul futuro.
Sapevo che avrei avuto il suo cuore, tuttavia: il cuore del Drago Nero.

*

Arrivai a Venusya in un’alba spettrale: nembi nerastri assediavano una stella di un grigio smorto, malaticcio.
Aveva smesso di piovere, ma, a guardare quella terra di fantasmi, era naturale pensare che la dea si fosse asciugata del tutto. C’era troppa miseria.
C’era, soprattutto, qualcosa d’inaccettabile nel pensiero che, da un giorno all’altro, un intero mondo potesse essere cancellato.
Raccolsi un pugno di quella rena rugginosa, ancora intrisa d’acqua.
I miei palmi sanguinarono le memorie di una gente perduta, mille speranze abortite, l’infanzia di un Rael diverso da quello che avevo conosciuto: il Rael figlio di Freil. Il Rael dracomanno.
“Tanto mi hai tradito comunque,” dissi a denti stretti.
Fissai un orizzonte senza futuro e scoprii che il vuoto mi faceva paura. Quei ruderi erano orbite cave e teschi e dita adunche. Erano la voce del vento, quando stormisce nell’ombra e ti maledice.
Serrai le palpebre e i pugni per recuperare il controllo. Quando ebbi il coraggio di sollevarle di nuovo, la luce era scomparsa e la pioggia cadeva con rinnovata violenza.
Montai in sella allo Shire e ne sferzai i fianchi perché seguisse un sentiero che si addentrava nella foresta. Ne avevo abbastanza di morti: desideravo perdermi in qualcosa di vivo.
 
La trappola che mai avrei potuto anticipare era una buca profonda, coperta di foglie, sterpi e muschio, e armata di pali aguzzi.
Il mio cavallo v’affondò di peso, spezzandosi i garretti tra quelle punte letali e sgranandosi quasi fosse un melograno. Emise appena un flebile nitrito, che mi raggiunse come un rimprovero. Non avevo orecchie per ascoltarlo, tuttavia, perché quanto rimbombava nella mia testa, sino a farmi perdere il senno, era il battito irregolare di un cuore folle di paura.
Per un puro caso ero rimasta incolume ma quella buca era troppo fonda e ripida perché potessi risalirne i fianchi scoscesi. Credevo.
 
“Caccia grossa, Niktos!”
 
Poi, nel silenzio assoluto, la sua voce.

   
 
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