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Autore: Lady Vibeke    13/02/2012    5 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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26. TUTTO CIÒ CHE RESTA

 

I've never been the praying kind
But lately I've been down upon my knees
Not looking for a miracle
Just a reason to believe

– Hold Me, Savage Garden –

 

 

– Quando conobbi Jarlath e Hel, sapevo che non potevano essere chi dicevano. Ma li accolsi comunque, perché avevano un’anima buona e l’unica cosa di cui li si sarebbe potuti incolpare era che si amavano troppo. Sono solo una popolana, ma so come vanno le cose negli alti ranghi e di sicuro loro non erano né i primi né gli ultimi ad essere costretti a fuggire per stare insieme. Fecero fatica ad abituarsi alla vita frugale che conduciamo qui, ma non li sentii mai lamentarsi di nulla. Erano felici, e tanto bastava. Impararono in fretta ad amare la vitalità del villaggio. Alle feste, le sere d’estate, danzavano per ore in mezzo agli altri ragazzi, cantavano e ridevano con loro… era come se fossero sempre stati qui. Quando nascesti tu, entrambi piansero di gioia. –

Verle fece una pausa per lasciare a Regan il tempo di assimilare il tutto. Lei era confusa­, perché le sembrava di riconoscere parti di quella storia, ma faticava a immaginare di essere mai stata felice. Nei suoi sogni, non aveva visto o sentito gioia o sentimenti simili; c’erano stati solo la paura e la sofferenza, l’impotenza di quelli che lei non aveva mai potuto chiamare mamma e papà, di fronte all’incombenza di una scelta troppo crudele.

“Datemi la bambina.”

Serrò gli occhi, scrollandosi di dosso la visione, la sensazione delle braccia di sua madre che si allentavano attorno a lei, come abbandonandola.

– Ricordate che giorno era? – chiese, e lo sforzo di mantenersi composta le costò otto solchi rossi scavati dalle unghie nella carne dei palmi. Aveva caldo, anche se il mantello giaceva dimenticato da qualche parte lì nella cucina, e i capelli, raccolti nella solita treccia, le lasciavano il collo e le spalle nudi. Ma conosceva quel tipo di caldo: era la sensazione che lasciavano le emozioni trattenute, le lacrime rinnegate, i pensieri reclusi per impedire alla ragione di soccombervi inevitabilmente. Non era ancora il momento di cedere alla disperazione che, pur deliberatamente ignorata, si faceva strada in lei: aveva sostenuto la notizia della morte di Derian, la sola persona che in un’intera esistenza di prigionia le era stato consentito di avere accanto, e che aveva amato con tutta sé stessa, come una sorella può amare un fratello, o un assetato un ruscello d’acqua fresca; ora avrebbe sopportato anche quell’ennesima ferita. Avrebbe lasciato colare il sangue e stretto i denti, perché non era ancora ora di abbandonarsi alle debolezze. Prima, doveva completare la ricerca che con Lucius e Shin aveva intrapreso, e quella – lo aveva saputo fin da quando aveva inavvertitamente origliato la conversazione tra Soile e Malice – non era l’ultima tappa.

Verle aveva gli occhi chiusi e l’espressione serenamente assorta.

– Oh, non dimenticherei quel giorno nemmeno se me lo strappassero dalla memoria: il ventitré di settembre del 1015. Sei nata proprio alla soglia dell’Equinozio. –

Era una piccolezza insignificante, in confronto a tutto il resto, ma Regan fu finalmente felice di conoscere la data esatta del suo compleanno.

– Non avevi un solo capello in testa, quando ti misi in braccio a tua madre per la prima volta – rievocò la vecchia, sorridente. Subito dopo, però, si rabbuiò. – Ma non appena iniziarono a spuntarti i primi ciuffetti rossi, fu chiaro che non eri una neonata come gli altri. Ti ricamai personalmente delle bellissime cuffiette, per celare ciò che al resto del villaggio sarebbe apparso come un pessimo e pericoloso presagio. –

Regan si sentì esattamente come si era sentita quando, quella prima volta alla Sede Centrale della Lega, la guardia la aveva additata in quel modo terrorizzato, chiamandola Pahavehr.

Sangue cattivo.

– Ma ero… solo una bambina… – balbettò. Non voleva credere che un intero villaggio si sarebbe lasciato turbare da una bimba che a stento aveva imparato a camminare.

Eppure il volto solenne di Verle diceva che le cose stavano proprio così.

– Ti sei vista, ragazza? Sei il ritratto vivente di ciò che le leggende hanno insegnato a temere: occhi di smeraldo e capelli di rubino… Lucifero era così, non lo sapevi? Forse la vostra gente di città non dà peso agli antichi racconti, ma nei piccoli villaggi come questo la superstizione domina incontrastata e una fanciulla dai tuoi colori di certo non sarebbe accolta a braccia aperte – Verle fece una breve pausa per riprendere fiato, e quando riprese si era addolcita, come se si fosse resa conto di essere stata troppo brusca: – Eri piccola e tutte le bambine della tua età portavano cuffiette come la tua… nessuno si è mai posto domande in merito. I problemi sarebbero iniziati quando tu fossi cresciuta, ma di questo, purtroppo, né io né i tuoi genitori abbiamo avuto modo di preoccuparcene. –

Regan annuì debolmente, il mento chino, lo sguardo basso. Non avrebbe saputo che altro fare. Un destino già trascorso le stava scorrendo addosso senza lasciarle possibilità di contestarlo, lasciandola impotente ad ascoltare quella che, in un’altra vita, era stata la sua storia.

– Erano brave persone, bambina – le disse Verle, posandole una mano raggrinzita sulla sua. – Li amavo come i figli che non ho mai avuto, e la mattina che li ritrovai senza vita persi con loro una parte di me. Ti cercai ovunque, pregando che chiunque avesse compiuto quella crudeltà avesse almeno risparmiato il mio piccolo raggio di sole, ma tu non c’eri. In cuor mio, pregai la Madre che tu fossi sana e salva, ovunque ti trovassi. In tutti questi anni, non ho mai smesso di sperare che, da qualche parte, la mia piccola Regan fosse ancora viva… e non credo che tu possa immaginare quanto io sia lieta che le mie preghiere sono stata ascoltate. –

Regan non era sicura di potersi dire d’accordo con lei, ma non esternò quel dubbio. La sincera commozione di quella donna la toccava, tuttavia non alleviava il peso che si sentiva crescere dentro. In fin dei conti era sopravvissuta solo per finire rinchiusa in una gabbia inespugnabile, come i fiori di Malice.

Sulla scia di quel pensiero, gli occhi di Shin si sollevarono su di lei con uno scatto improvviso. Neri e impenetrabili, eppure straordinariamente limpidi, specchi di un sorriso che le labbra non esibivano, ma che volle comunque rivolgerle, e qualcosa in lei, come per incanto, si placò.

Tornò quindi a Verle, inibita da una timidezza che non sentiva sua, e prese un respiro profondo.

– C’è un’ultima cosa che vorrei sapere… –

 

 

Una lapide di umile pietra grigia e due nomi fasulli incisi sopra una data: 17 Marzo 1019 N.E.

Era tutto ciò che restava dei suoi genitori.

Nessun volto impresso nel cristallo, come nelle tombe delle grandi città, né vasi lavorati per accogliere fastose composizioni floreali. C’erano solo cespi inspiegabilmente verdi e floridi a decorare quel misero monumento di memoria, adorni di boccioli e fiori maturi di colori che andavano dal bianco al fucsia intenso. Erano belli, a vedersi, ma erano anche una nota stonata nella bigia tristezza del piccolo cimitero, una macchia di insopportabile vita attorno a culle di morte.

Le sembrava secoli fa quando pensava che la cosa più vicina alla disperazione che avesse mai provato era un bustino troppo stretto.

– Perpetuini. Dicono che la Madre li mandi a crescere dove riposano coloro che le sono stati cari. –

La voce morbida di Shin scese ad accarezzare le spalle di Regan, inginocchiata sull’erba selvaggia al cospetto della lapide, una mano allungata a sfiorarne la superficie ruvida, rovinata dall’inclemenza del tempo e degli elementi. Aveva un doloroso groppo alla gola, e non perché si trovasse sulla tomba dei propri genitori, ma perché di loro non riusciva a rammentare altro che l’ultimo dei loro giorni… il peggiore. Quello, e pochi istanti di sua madre che danzava allegra attorno a un falò con altre ragazze: l’unico spiraglio di felicità.

Avrebbe voluto essere sola, in quel momento di raccoglimento personale, ma non le era stato permesso, e dopotutto Shin era il migliore dei compagni, in un frangente del genere, perché sembrava sapere sempre cosa fare o non fare, cosa dire e quando, in che modo, e come rassicurarla senza nemmeno toccarla o aprir bocca. Non era una spalla su cui piangere che le serviva, adesso, ma solo che qualcuno le ricordasse che la vita non finiva lì.

Lucius e Soile aspettavano pazienti all’ingresso del cimitero, sorvegliandoli da lontano. Per una volta, a Regan non importava di lasciarli soli.

Fissò i fiori, stranamente fulgidi in quella giornata così uggiosa, e non la rincuorò pensare che la Madre aveva lasciato su quella tomba il segno del suo favore. Era uno strano tipo di solitudine, quello che stava provando, e aveva il tragico sapore dolceamaro della caducità di tutte le cose belle.

– A te manca? Tua madre, voglio dire – domandò laconica.

Shin, alle sue spalle, gettava su di lei un’ombra pallida che la avvolgeva come un manto impalpabile.

– Non l’ho mai conosciuta – le rispose, dopo un momento di incertezza. – Non posso dire che mi manchi lei in sé. Forse sarebbe più giusto dire che mi manca quello che sarebbe stata per me. –

Gli erano bastate poche parole per esprimere un concetto che in lei non riusciva ad essere più che un sentimento astratto, ineffabile.

– E tuo padre? – chiese ancora, deglutendo il groppo alla gola. – Non ti ho mai sentito parlare di lui. –

Un dolce alito di vento scosse l’erba incolta e i loro capelli, portando con sé odore di pioggia.

– Tra me e mio padre non c’è mai stato un vero e proprio rapporto – ammise Shin, in un tono forzatamente neutro che trasmise più cose di quante non intendesse coprirne. – Amava molto mia madre, sai… credo non mi abbia mai perdonato di avergliela portata via. –

– Non può ritenerti responsabile della sua morte… –

– No, suppongo di no – replicò lui, atono. – Ma questo non ha comunque reso i nostri rapporti meno rigidi. –

Regan si voltò e si alzò lentamente. Per un figlio, l’unica cosa più triste dell’essere orfani era avere un genitore incapace di amare.

Davanti a lei, Shin insisteva a mantenere un pallido sorriso sulle labbra e lei avrebbe davvero voluto poterlo odiare per quel contegno ostentato, ma lui era quel raro genere di persona che, per quanto irritante potesse apparire nella sua irreprensibile bontà d’animo, non si poteva fare a meno di apprezzare. Regan, anzi, aveva spesso l’impressione che quello che Shin lasciasse trasparire di sé non fosse che una piccolissima parte di lui, e che il suo aspetto fragile, quella sua bellezza delicata e abbacinante ingannassero l’occhio tanto quanto la sua affabilità ingannava la mente.

Regan si sentiva più vicina a lui di quanto non lo fosse mai stata.

Era a un passo dal precipitare in un baratro di sconforto che la avrebbe distrutta e non poteva permetterselo, dunque fece quello che facevano tutte le persone che avevano bisogno di essere salvate: domò l’orgoglio e chiuse gli occhi, e le sue mani si mossero da sole, fino a che non si ritrovò aggrappata alla vita sottile dell’amico, le sue braccia ad avvolgerle le spalle, il viso premuto contro il suo petto. Non ci furono né lacrime né singhiozzi, e il silenzio che rimase sospeso attorno a loro era il suono più straziante che entrambi avessero mai udito.

 

 

L’impulso di andare da Regan e stringerla in un abbraccio consolatorio che sicuramente sarebbe stato tanto forte da farle del male era un prurito intrappolato sotto alla pelle di Lucius che non poteva trovare sollievo. Non era mai stato bravo a dare conforto alle persone e quel che era peggio era che, anche in caso contrario, non c’era conforto che si potesse fornire in un momento come quello. C’era Shin accanto a lei, e ciò che c’era tra loro era una comunione di cordoglio, la condivisione di una perdita che, in modi e tempi diversi, aveva colpito entrambi. Se non poteva lenire il suo dolore, almeno lui poteva capirla.

Soile faceva da spettatrice silenziosa a quella scena malinconica, le braccia che la avvolgevano sotto al mantello che le svolazzava attorno alle caviglie. Anche lei capiva.

Sua madre, una gentildonna che aveva sposato colui che sarebbe poi diventato uno dei Coordinatori Generali più stimati della storia, era morta di parto, e suo padre era stato ucciso solo un anno dopo che Lucius aveva ricevuto la grazia da ogni sua colpa, ottenendo come pena alternativa l’obbligo di servire la Lega. Obbligo che lui aveva giurato senza remore di adempiere fino alla fine dei suoi giorni, votandosi non alla Lega direttamente, ma a colei che lo aveva sottratto alla pena di morte.

Soile.

Erano cambiate tante cose, da allora.

Qualcuno riteneva che i tragici avvenimenti intercorsi tra quel giorno lontano e il presente avessero ristretto le infinite distanze che dividevano Lucius da lei, ma la realtà era un’altra: legami che il fato avverso aveva tentato di distruggere sembravano essersi solo rinsaldati attraverso la perdita, la separazione eterna, la nostalgia senza ritorno. Qualunque cosa a cui Lucius anelasse nel profondo, e rinnegasse con altrettanto ardore, non avrebbe mai visto altro che l’oscurità dei recessi in cui la teneva serenamente – o così si sforzava di credere – relegata.

– È una ragazza coraggiosa. –

Lucius si volse a guardare Soile, chiusa in quella solitudine che lei stessa si era scelta, un muro solido ma non del tutto inespugnabile, perché a lui, attraverso sottili spiragli, era stato concesso di vedere molto più di quanto l’apparenza avesse da offrire.

Vide Regan separarsi da Shin e tornare a guardare una tomba uguale a tante altre in cui era stata seppellita ogni sua speranza. Non piangeva, e questo non lo stupiva: la conosceva abbastanza bene da sapere che non sarebbe stato da lei.

– È sventata, orgogliosa e testarda – mormorò, quasi sorridendo. – Il che non è proprio la stessa cosa. –

– Nonostante questo, ti sta molto a cuore. –

– O forse proprio per questo… chissà. –

Anche Soile quasi sorrise.

– È forte, per sua fortuna, anche se ancora non lo sa. –

– Mi domando quale sarà la sua reazione quando scoprirà chi sono i parenti che le restano – mormorò lui. Si abbandonò con la schiena contro uno dei due pilastri che sosteneva l’arcata di ferro dell’ingresso del cimitero e si infilò le mani in tasca. Almeno su quel versante, c’era qualcosa di buono.

Lei annuì meditabonda.

– Certo è una fortunata coincidenza – rifletté.

– Io non credo alla coincidenze, lo sai. –

– Diciamo allora che, nella sua sventura, la Madre ha mostrato clemenza verso di lei. –

Lucius sollevò le spalle.

– Anche se così non fosse, avrebbe un’importanza solo relativa. I legami di sangue non significano niente e non le manca certo chi si preoccuperebbe di lei. –

Soile tacque e lo considerò di sottecchi. Come sempre, lui si sentì riscaldato da quel semplice sguardo.

– Adesso che non può sentirci, mi dirai ciò che stai tacendo? –

Luscius scosse la testa e rise sommessamente. Tutti i libri aperti del mondo non si potevano paragonare a ciò che diventava lui davanti a lei. I suoi occhi scesero su di lei, sprazzi cielo che trovavano frammenti di ghiaccio, e il quasi sorriso divenne un sorriso vero.

– Non riuscirò mai a nasconderti niente, vero? –

Non era una lamentela, né un rimprovero, solo un dato di fatto che nonostante tutto lo aveva sempre divertito.

Lusingato?

Calpestò il peccato di vanità che quel pensiero gli aveva indotto concentrandosi sulla risposta da dare:

– Quando io e Shin ci siamo nascosti, fuggendo dai sotterranei… c’era un simbolo inciso sulla porta che abbiamo trovato. Il simbolo del nostro nemico senza nome. –

– Pensi che abbiano lì il quartier generale? –

– Se la loro trappola ci ha mandati là, verrebbe da ipotizzare che sia così. E forse sono lì da più tempo di quel che crediamo. Una volta andava di moda tra le sette riunirsi là sotto, no? Almeno fino a che non sono state sgominate anche da lì. Mi sono ricordato che la dimora della mia amica Angina un tempo era sede di una setta sfuggita alle persecuzioni. C’è un fregio sul portale d’ingresso, due parole le cui iniziali sono scolpite in maniera singolare. Unite insieme, quelle due iniziali formano il simbolo del nemico. –

– Pare che ancora una volta tu ti sia rivelato indispensabile. –

– Mai quanto vorrei. –

Lasciò il sottinteso ad aleggiare tra loro, attendendo che lei, paziente, ne lasciasse dissolvere l’eco, o lo raccogliesse come una foglia morente che scivolava via dal suo albero, un desiderio espresso senza avere una stella a cui affidarlo. Ma lui non aveva mai avuto né la presunzione né l’ingenuità di desiderare, con lei. Come un albero, cedeva le sue foglie al vento, guardandole fluttuare via da sé fino a che lei, con un sorriso triste o uno sguardo distante, le raccoglieva delicatamente tra le mani, guardandole svanire.

– Lucius… –

Foglie perse che non si stancavano mai di rinascere.

Senza mai rimpiangere di essere cadute invano.

Risparmiò a Soile il fastidio di rispondergli:

– Andrò personalmente da Angina e vedrò cosa riesco a scoprire, ma solo in un secondo momento. Prima vorrei portare Regan al sicuro... a casa. La priorità è affidarla alla sua legittima famiglia. –

– Sarà un duro trauma, e non solo per lei. –

– Sì, nel bene e nel male – convenne lui. Confidava che per Regan sarebbe stato di qualche sollievo sapere che aveva ancora dei parenti in vita e che questi al di fuori di ogni dubbio sarebbero stati più che lieti di accoglierla in casa propria come una figlia.

– Anche i Dresden dovranno sapere di lei, prima o poi – sottolineò Soile a bassa voce, rimarcando così quanto quel particolare costituisse quasi un intoppo, più che un fattore positivo.

I Dresden, e con loro una dozzina di altre famiglie, godevano di pessima reputazione presso gli altri esponenti dell’antica nobiltà, eredi di disonori di cui i loro antenati si erano macchiati un millennio prima, durante la Grande Rivolta, accusati di esserne i fautori e cospiratori contro la Corona. Storicamente la caduta della Monarchia era imputata direttamente a loro, benché altri fattori avessero influito sulla catastrofe. Tra questi le leggende annoveravano Lucifero, spauracchio per eccellenza e capro espiatorio – non sempre a ragione – di tutte le disgrazie dell’epoca.

Dopo tanti secoli, non vi era più motivo di serbare rancore verso coloro che un tempo erano stati bollati come traditori, ma in tutte le Sette Terre la tradizione era radicata molto più a fondo di quel che certe persone, come Castalia Reis, volevano credere e spesso e volentieri vecchi rancori sopravvivevano, nitidi e indelebili, assieme a vecchie lealtà.

Lucius sospirò, massaggiandosi la fronte tra due dita.

– Lo so. Ora come ora, però, ritengo che Regan trarrà maggior beneficio a stare con i parenti di suo padre, non pensi? –

Soile assentì.

– Contatterò Persefone appena saremo rientrati. –

Regan e Shin stavano tornando verso di loro. Lucius osservò Regan attentamente, cercando di riconoscere qualcosa nell’assoluta neutralità del suo viso, ma non ci riuscì. Lui era scappato dai propri genitori senza mai un singolo momento di rimorso, mai un giorno in cui, per quanto solo e abbandonato si fosse sentito, avesse rimpianto la loro presenza accanto a sé. Tuttora non sapeva cosa ne fosse stato di loro né ci teneva a scoprirlo. Non era in grado nemmeno di immaginare cosa si provasse a soffrire per la morte dei propri genitori. Regan praticamente non li aveva neanche conosciuti, i suoi, eppure in lei si poteva distintamente avvertire, intenso, il senso di perdita, di vuoto, lo smarrimento vertiginoso che poteva solo scaturire dall’ineluttabile presa di coscienza che uno dei capisaldi della propria esistenza era irrimediabilmente venuto meno.

Ci aveva creduto fino all’ultimo che si sarebbe ricongiunta a loro…

– Sto bene – disse subito Regan non appena gli fu di fronte. Sforzò addirittura un sorriso stentato. – Adesso possiamo andare. –

Non disse altro per tutto il tempo fino al rientro a Kauneus.

Lucius provò per puro scrupolo ad attraversare il Portale della piazza di Aurin da solo e solo quando fu tornato, confermando che era tutto a posto, passarono tutti quanti. Una volta arrivati a destinazione, Soile si congedò in fretta da loro e un attimo più tardi si era letteralmente dissolta nell’aria. Una volta tanto, Lucius non si soffermò a rimpiangere il vuoto che si era lasciata dietro.

 

 

I maestosi cancelli della residenza degli Edelberg, anche da spalancati, erano più neri e minacciosi che mai alla luce spettrale che filtrava appena tra i gonfi nuvoloni grigi. Quando si richiusero alle sue spalle, Regan ancora non era riuscita a capire perché si fossero recati lì, né qualcuno si era degnato di spiegarglielo in seguito a una delle svariate volte che lo aveva chiesto.

– Entrate e dite a Lord Edelberg che è un’emergenza e che tu, Regan, hai bisogno di stare al sicuro. Io vado a prendere i ragazzi. –

Perplessa, Regan si volse indietro: Lucius era rimasto dall’altra parte del cancello e, dopo un cenno veloce, aveva appena voltato le spalle a lei e a Shin. Lei aprì la bocca per richiamarlo ed esigere spiegazioni, ma la mano di Shin salì con stupefacente prontezza a tappargliela.

– Non adesso. –

Nonostante il guanto che gli copriva la mano, un lembo di polso nudo le premette sulla guancia, provocandole quel sentore di ustione che credeva di aver dimenticato del tutto.

Si ritrasse d’istinto, sfiorandosi con le dita il punto esatto in cui si era sentita bruciare; appena interrotto il contatto, la sensazione era svanita. Si pentì di quel gesto inconsulto, però, perché vide come questo aveva intristito Shin.

– Scusami. –

– No, scusami tu – mormorò lui. – Avevo dimenticato… –

Regan si morse il labbro. Detestava vedere quella serenità perfetta intaccata dal senso di colpa, soprattutto se ingiustificato.

– Faremmo meglio ad entrare, adesso. Non è prudente indugiare troppo qua fuori. –

Shin la sospinse in avanti lungo il vialetto, verso il portone d’ingresso già aperto, al di là del quale Donna Melyor già li attendeva con un raggiante sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

– Cara bambina! – esclamò, correndole incontro per baciarla su tutte e due le guance. – Oh, che sorpresa meravigliosa! Venite, venite dentro! –

Li scortò in casa, dove c’era un calore gradevole e un buon profumo di dolci freschi che si fondeva a quello dei superbi mazzi di rose orlate di nero sparsi in tutta la casa.

– Mettetevi comodi – disse, introducendoli nel salotto dove Regan aveva incontrato tutta la famiglia la prima volta. Sembravano passati secoli, da allora. – Vado a chiamare milady. Torno subito. –

La casa era insolitamente silenziosa. I ragazzi erano tornati alla Domus Aurea e senza di loro – e soprattutto senza la vivacità dei gemelli – il maniero, per quanto lindo e lustro, sembrava quasi abbandonato.

Shin non era affatto a suo agio, ed era strano che fosse così evidente, perché di rado lo si vedeva  scomporsi. Ma adesso era visibilmente agitato: camminava avanti e indietro, osservando con piccole, rapide occhiate i particolari del vasto salotto. Regan intuì che non era mai stato lì, prima di allora. Si ricordò anche lo strano atteggiamento che Aeden e Anneli avevano avuto verso di lui quel giorno nella foresta, e si chiese se ciò avesse a che fare con quanto Shin le aveva detto una volta, e cioè che i ragazzi dell’Accademia nutrivano delle ostilità verso di lui – invidia? – a causa delle sue doti fuori dal comune.

Regan, dal canto suo, invece, si sentiva rassicurata da quell’ambiente che ormai le era diventato familiare. L’odore secco del legno e quello setoso dello zucchero si univano al profumo di fiori che dai giardini e dalle serre trapelava attraverso le finestre, una carezza di petali che le faceva quasi rimpiangere i giorni in cui non era nessuno e la sua routine di esauriva entro le mura domestiche, aiutando Eleonora con le faccende.

– Buon pomeriggio! –

Lady Arista era apparsa sulla soglia, vestita in modo decisamente poco sontuoso e sporca di farina, un po’ sorpresa ma con un gran sorriso sulle labbra. La piccola Luce, in braccio, aveva tutto il visetto paffuto impiastricciato di pastella color biscotto.

– Scusateci – aggiunse Arista, accorgendosi di Shin. – Stavamo preparando qualche dolcetto e non siamo molto presentabili. –

Regan sapeva che non era una nobildonna come tutte le altre. Una volta la aveva addirittura vista impegnata a rincorrere una palla sui prati del giardino assieme ai figli, sudata e scarmigliata, scalza e con le gonne distrattamente raccolte tra le mani. Era stato allora, sentendoli ridere tutti insieme a crepapelle, che aveva per la prima volta compreso veramente cosa significasse essere una famiglia, e ora più che mai ne sentiva la mancanza.

Arista mise Luce a terra e la bimba, senza fare complimenti, trotterellò da Regan felice, le manine grassocce e incrostate di zucchero tese in avanti verso di lei. Regan se la strinse tra le braccia e trasse qualche conforto dal profumo di vaniglia della sua pelle di pesca, dal bacio appiccicoso che le stampò sul viso.

Shin, invece, rimase impalato al suo fianco, ritto e rigido come non mai, e quando Arista li raggiunse, le rivolse un inchino formale.

– Lady Edelberg. Permettete che mi presenti: sono… –

– So chi sei: il ragazzo del Duca – lo precedette lei gentilmente. – Lucius dice meraviglie di te e i miei figli grazie a te hanno imparato a ridimensionare i loro ego. –

Lui abbassò lo sguardo a mo’ di scuse, ma la donna rise.

– È una cosa positiva, devi credermi. Ad ogni modo, a cosa devo l’onore di questa visita? –

Shin prese la parola prima che Regan potesse pensare a cosa rispondere e di conseguenza rendersi conto di non possedere alcuna risposta.

– Forse sarebbe meglio aspettare Lucius. Sarà qui tra pochi minuti. –

La vaghezza insospettì Arista:

– È successo qualcosa? – chiese, ora vagamente allarmata.

– Nulla di cui voi dobbiate preoccuparvi, non temete. –

La donna stava per dire qualcosa, quando uno scalpiccio proveniente dall’ingresso attirò l’attenzione di tutti e tre. Non fu difficile riconoscere le voci sommesse che parlottavano tra loro e lo stupore di Arista aumentò.

Uno a uno, in fila, entrarono Lucius, Anneli, Aeden e i gemelli. Mariek aveva il mantello tutto storto allacciato su una spalla e i capelli scarmigliati, ed Ember teneva in una mano una mela sbocconcellata a metà e nell’altra un boccale schiumoso.

– Be’, che c’è? Stavo facendo merenda! –

Due minuti più tardi anche Prince e Lord Edelberg si presentarono, con un’aria non meno sbigottita del resto della famiglia, e altri cinque minuti dopo Soile giunse accompagnata da Persefone, vistosamente più rotonda e appesantita dell’ultima volta che Regan l’aveva vista. Non doveva mancare molto al parto, ormai.

– Non ho mai visto questa sala così affollata – commentò Mariek sottovoce.

– Tranne quando abbiamo organizzato quella specie di concorso per la futura sposa di Aeden – lo corresse Ember, e il chiamato in causa gli rifilò un calcio negli stinchi che lo mise a tacere.

Quando tutti i numerosi posti a sedere offerti da divani e poltrone furono occupati, in piedi restavano solo Lucius, Prince e Lord Tristan, padre e figlio accanto alla poltrona occupata da Persefone, l’altro di fronte al camino, il ritratto di famiglia incompleto a incombere su di lui dall’alto.

La curiosità dominava su tutti: fremeva nelle mani, guizzava negli occhi, faceva mordere la lingua per trattenere raffiche di domande inopportune. A Lucius non servì nemmeno richiedere attenzione, perché tutti stavano già pendendo dalle sue labbra.

– Mi devo scusare per avervi fatti precipitare tutti qui in questo modo, ma ho ritenuto giusto che foste tutti presenti. –

Regan era sempre più confusa, e con lei anche tutti gli altri. I soli a non apparire turbati erano Lucius, Shin e Soile, che, anziché ascoltare, preferivano scrutare le reazioni degli altri.

– Suppongo che nessuno, qui dentro, sia all’oscuro del fatto che mi sono assunto l’incarico di scoprire chi sia veramente Regan. Con il prezioso ausilio di Shin e Lady Leljen, naturalmente. – aggiunse, come per ovviare un increscioso sgarbo.

Cenni di assenso scossero un paio di teste.

– Ebbene, di recente la memoria di Regan ha avuto qualche piccolo miglioramento e questo ci ha condotti ad Aurin. –

Tralasciò la disavventura causata dal Portale manomesso e si focalizzò invece sulla parte fondamentale, ossia l’incontro con la vecchia Verle.

– Questa donna ci ha raccontato che i genitori di Regan hanno vissuto da lei fin dal loro arrivo. Erano due giovani di origine presumibilmente benestante. –

Erano? – fece Arista, rammaricata.

– Morirono quando lei era ancora molto piccola. –

Una decina di sguardi commiserevoli si spostarono su Regan, la quale avrebbe ardentemente preferito essere ignorata. La pietà le dava la nausea. Dal divano di fronte, Shin le gettava occhiatine esitanti, apparentemente agitato quanto lei, anche se a modo suo.

– Regan mi ha parlato di certi suoi incubi, nei quali rivive il momento in cui sua madre e suo padre morirono, e suo padre ha il volto di… – proseguì Lucius, e i suoi occhi si sollevarono su un altro paio d’occhi ben precisi. – Prince. –

Sbalordito, Prince arretrò di un passo come se questo potesse mettere distanza tra lui e l’idea imbarazzante di apparire nei sogni di una ragazzina in veste di suo genitore.

– Suvvia, è solo un sogno! Tristan è troppo giovane, non potrebbe mai… E comunque cosa c’entra, adesso? – protestò Lord Edelberg.

– Non ti viene in mente nessuno che possa corrispondere alla descrizione? – gli disse Lucius, le sopracciglia inarcate. – Qualcuno che somigli a Prince abbastanza da poter essere scambiato per lui, ma anche abbastanza adulto da poter essere il padre di una ragazza dell’età di Regan? Non voglio credere che tu non possa arrivarci, amico mio. –

Regan guardava Prince, sbigottito e a disagio, e si chiedeva dove volesse arrivare Lucius. Che cosa c’entravano gli Edelberg con i suoi genitori?

– Padre, di cosa sta parlando? – si intromise Anneli, ma Lord Edelberg la interruppe con un gesto brusco.

– Sto parlando, Anneli – le rispose Lucius, compassato, gettando un’occhiata in su, al dipinto che pendeva sopra di lui. – Di un giovane che un tempo amò una fanciulla di nome Aranel Dresden, e che per lei rinunciò a tutto ciò che possedeva, compresa la sua famiglia. –

Lord Edelberg sobbalzò come se fosse stato colpito in pieno viso da un pugno particolarmente violento.

– Non può essere… –

Sua moglie si portò entrambe le mani alla bocca, sbiancando all’istante. I loro figli, invece, si guardavano tra loro senza capire. Persefone sembrava impietrita nella sua poltrona, gli occhi lucidi, ma tranquilla.

Rassegnata, forse.

– Non puoi esserne sicuro, Lucius! – insisté Lord Edelberg con voce roca.

– Mettila alla prova, se credi! – esplose Lucius, tracciando con la mano spalancata un arco nervoso verso Regan. – Pensi che mi sarei dato la pena di convocarvi tutti se non ne fossi stato sicuro? –

– Adesso basta! – strepitò Regan, scattando in piedi. – Sono stanca di essere manovrata come una marionetta! Qui è di me che si tratta, quindi, se non è di troppo disturbo, basta con gli indovinelli! – si voltò verso Lucius, le guance in fiamme per la collera. – Dimmi tutto chiaro e tondo, e spiegami perché diavolo siamo qui! –

Discese un silenzio così sepolcrale che per un attimo si riuscirono a sentire i virtuosismi di Donna Melyor, che stava canticchiando al piano di sopra, ma smise subito, forse preoccupata dagli strilli.

Lucius le rivolse uno sguardo duro, ma malgrado ciò pieno di affetto.

– I tuoi genitori non ci sono più, Regan, ma hai ancora una famiglia su cui contare – i suoi occhi percorsero la stanza e i presenti. – In senso più letterale di quanto tu possa pensare. –

– Non capisco – biascicò lei, e fu lieta di vedere che non era la sola ad essere estremamente confusa: i fratelli Edelberg lo erano almeno quanto lei. Ma non lo era Lord Edelberg, il cui volto già segnato dai vistosi sfregi appariva ancora più sciupato. Si alzò con un movimento lento e affaticato, come se un peso invisibile gli gravasse sulle spalle, e le si avvicinò con un dolore strano a opacizzargli gli occhi, qualcosa che a lungo era stato covato senza trovare sfogo e che ora sfociava silenzioso nel tremore quasi impercettibile delle sue mani. Regan le sentì posarsi si di lei con insospettabile delicatezza, le dita che affondavano nelle braccia e gli occhi negli occhi, e tutti trattennero il fiato. Poteva quasi essere paragonato all’amore di un padre il sentimento con cui quell’uomo si presentava davanti a lei.

– Me la ricordo, quella ragazza – esordì, la voce arrochita da un’emozione faticosamente domata, fissando Regan con un’attenzione che sconfinava nella perizia, come se la vedesse per la prima volta. – Una carnagione color miele, rara da queste parti, e capelli come oro pallido, e quei grandi occhi blu da bambina… – Delle rughe di dolore emersero al di sotto della cicatrice che gli sfigurava il volto. Nella mente di Regan le sue parole tratteggiarono un volto preciso, quella che, nei suoi sogni, le era apparsa come una versione di sé stessa colorata nei toni sbagliati.

Mia madre.

– Faticavo a ricordare il suo volto, fino a un attimo fa, ma ora che so, riesco a vederlo: è come se un pittore la avesse ritratta in te, modificandone i colori a suo piacimento. –

La sincera commozione che metteva alla prova il volto duro dell’uomo si avventò a tradimento su Regan, incrinando quella cosa indistinta che – qualsiasi cosa fosse – aveva finora tenuto insieme in un fragile equilibrio tutta la sua emotività. Senza che lei se ne accorgesse, i suoi occhi si inumidirono.

Le mani di Lord Edelberg la stringevano convulsamente e tremavano di un’emozione abbastanza forte da soverchiare il ferreo autocontrollo di un uomo che a lei era sempre parso imperturbabile.

– Mi spiace che tu non assomigli un po’ anche a lui… in tutti questi anni ho sempre voluto convincermi che avesse sbagliato a fuggire, ma credo che, dopotutto, non gli sia stata lasciata altra scelta. –

E si voltò, solo per un istante, in direzione del ritratto appeso sopra il grande camino, e là, nel punto di vuoto che squilibrava il dipinto, le ombre parvero ritirarsi e schiarirsi per lasciare spazio a una figura dai contorni sfocati che stava emergendo lentamente dalle tenebre, un fantasma a lungo dimenticato che, per incanto, tornava a vivere nella tela di un quadro. Era un ragazzo. I suoi tratti si fecero gradualmente più nitidi e Regan fece appena in tempo a domandarsi cosa ci facesse Prince in un ritratto che lo precedeva di un generazione, quando la razionalità le rammentò che quello non poteva essere Prince, perché lei sapeva che quel posto prima vuoto non apparteneva a lui.

– Ho sempre sperato che stesse bene, nonostante tutto – sospirò Lord Edelberg, e un singhiozzo risuonò per la stanza: china su sé stessa nella sua poltrona, Persefone piangeva sommessamente e Lord Edelberg la guardò con tutta la comprensione che un qualsiasi fratello maggiore avrebbe riservato alla sorella. – Se non altro sappiamo che Ardal visse e morì felice. –

Regan d’un tratto comprese, un fulmine a ciel sereno, quanto la situazione fosse triste: lei aveva perso un padre mai conosciuto, Lord Tristan e Persefone avevano perso un fratello con cui erano cresciuti, e che avevano profondamente amato. E c’era lo stesso orrore sui volti esangui dei ragazzi Edelberg, che si guardavano l’un l’altro atterriti, e Regan sapeva che nei loro pensieri si stavano sforzando di non pensare a cosa avrebbero potuto provare se uno di loro fosse venuto a mancare.

E poi, senza nemmeno sapere come, si ritrovò immersa nelle sue braccia possenti, avvolta da un abbraccio che a stento avvertiva, ma senza il quale il suo corpo, le gambe improvvisamente molli come fili d’erba, si sarebbe accasciato a terra come un guscio vuoto.

Perdere tutto e ritrovare qualche ultimo frammento di sé in poche ore… era davvero troppo.

Ed era lì. Era tutto lì, dove era sempre stato, sotto al suo naso. Era lì, in quella casa, adesso, tutto ciò che restava a unirla a una vita che, ancor prima che lei nascesse, aveva subito già fin troppe deviazioni.

Di quel momento, in seguito, avrebbe nitidamente ricordato solo l’insopportabile profumo asprigno e perfetto delle rose. Un profumo che solo un erede di sangue Edelberg avrebbe potuto sentire.

 

 

La stanza che le era stata fatta preparare non sarebbe stata fuori luogo tra gli splendori del palazzo di Soile. Tappezzerie scure, legno di mogano e tappeti pregiati la rendevano buia, ma conferivano anche un certo tepore all’atmosfera ovattata che la luce ambrata del camino diffondeva. Un letto a baldacchino come non ne aveva mai visti, massiccio e ricco, occupava quasi un terzo della camera, così alto che a Regan era occorsa una fatica non trascurabile per arrampicarvisi sopra, e ora sedeva lì, sul copriletto che aveva il colore dei suoi capelli, e guardava la porta chiusa senza riuscire a pensare a nient’altro che alle venature del legno, ai riflessi opachi delle fiamme lontane sulle maniglie in ottone. I piedi le penzolavano inerti nel vuoto, così come ogni pensiero coerente rimasto nella sua testa.

Era sola.

Dopo che Lucius aveva rivelato che era la figlia di Ardal Edelberg, tutto era accaduto molto rapidamente: lo stupore della famiglia, la comprensibile incredulità, e poi le felicitazioni, un brindisi improvvisato, e infine una cena sontuosa che Arista si era personalmente occupata di predisporre. Tutto questo era scivolato addosso a Regan come l’acqua di un fiume in piena, impetuoso e inarrestabile, e benché fosse stata costantemente al centro di ogni attenzione, si era sentita come una spettatrice esterna, ingarbugliata in riflessioni apatiche che tuttora non la lasciavano in pace. Aveva mangiucchiato qualcosa solo per non sembrare irriconoscente o maleducata, poi si era dichiarata troppo stanca per restare e Donna Melyor la aveva accompagnata in quella stanza sotto agli sguardi comprensivi di tutti gli Edelberg.

Più ci rifletteva su, più le appariva incredibile che, di tutte le persone del mondo, fosse stato proprio Lucius a trarla in salvo e prenderla con sé. Lui, che era così legato a coloro che lei aveva appena scoperto essere i suoi zii e cugini, e a proprio a loro spesso la aveva affidata, permettendole di prendere confidenza con un mondo che fin dalla più tenera età le era stato negato.

Fin troppo fortuita, per essere una coincidenza.

– Io non credo alle coincidenze.  Forse la Madre ti ha voluta aiutare a ritornare a ciò che legittimamente ti spettava. –

Così le aveva detto Lucius, prima di andarsene. A nulla erano servite le insistenze dei padroni di casa affinché rimanesse per cena: qualcosa di urgente lo chiamava altrove.

Un casto bacio sulla guancia, una carezza che aveva un che di nostalgico, e poi l’aveva lasciata con un sorriso che le sue labbra a stento avevano sostenuto per un paio di secondi, il tempo di voltarle le spalle e allontanarsi lungo il viale senza mai guardarsi indietro.

Shin si era trattenuto una manciata di minuti in più, e Regan sospettava che lo avesse fatto solamente perché aveva udito la muta preghiera dei suoi occhi di non lasciarla sola a vedersela con quel frastornante turbine di novità. Alla fine, però, all’annuncio della cena, anche lui aveva dovuto lasciarla: quando Soile si era alzata per congedarsi, Shin se n’era andato via con lei.

Qualcuno bussò, e Regan, che stava attendendo che Donna Meloyr ritornasse a portarle degli indumenti puliti per la notte, rispose “Avanti!” senza pensarci. Non era l’anziana balia, però.

Persefone entrò e richiuse la porta dietro di sé. Si avvicinò piano e le sedette accanto sul letto.

– Sono solo venuta a vedere come stai. Non ti disturberò a lungo, te lo prometto. Non deve essere facile sopportare tutto quello che sta succedendo – aggiunse subito, prima che Regan potesse smentirla. La sua voce era così dolce e musicale che solo starla ad ascoltare l’aveva fatta sentire più tranquilla.

– So che probabilmente ti sentirai soffocata da tutte queste novità così improvvise, ma tutti noi non desideriamo altro che vederti serena e a tuo agio, quindi voglio che tu ricordi che puoi contare su di noi, anche se spero che questo tu lo sapessi già. –

Il sorriso materno di Persefone le infuse un calore che il fuoco nel camino non era riuscito a trasmetterle. Regan non riuscì a rispondere, ma la osservò: la bellissima donna che aveva davanti, una delle figure politiche di maggior rilievo delle Sette Terre, era sua zia, ed era lì con lei per farla stare meglio, ed era quanto di più simile a una madre avrebbe mai potuto avere.

Persefone emise un piccolo gemito e si portò entrambe le mani sul grosso ventre rotondo, socchiudendo gli occhi, ma senza smettere di sorridere.

– Tuo cugino è un po’ agitato, stasera. Avverte il fermento intorno a sé. –

– Quando dovrebbe nascere? –

– A giorni, ormai. Mio marito non era molto contento che mi allontanassi dal palazzo, ma ne valeva la pena, non credi? –

Era un pezzo di lei. Persefone era un pezzo di lei, una persona a cui era indissolubilmente legata dallo stesso sangue che a legava a Lord Tristan e i suoi figli, e a Malice, esiliata lontano per sempre. Ma un legame di sangue, per quanto potesse significare, non bastava a colmare il vuoto, a supplire a tutte le altre mancanze. Voleva bene a quelle persone già da prima di riscoprirli parenti e il termine gratitudine era ridicolmente riduttivo per esprimere quello che lei provava nei confronti di tutti loro. Aveva una famiglia e ne era contenta, ma non poteva fermarsi lì. C’era ancora la sua natura ambigua da risolvere, le stranezze di cui era stata protagonista e che ancora non aveva avuto il coraggio di rivelare a nessuno, temendo il loro giudizio. Che in lei ci fosse qualcosa che non andasse era ormai la risaputo; ciò che la preoccupava era scoprire cosa fosse.

E poi voleva sapere chi era stato a uccidere i suoi genitori.

– Come lo chiamerete? –

Persefone arricciò le labbra, quasi con disappunto, ma si ammorbidì subito:

– Shedar, se è un maschio, e Emlyn, se è una femmina. –

Regan annuì. Il suo nome era l’unica cosa che i suoi genitori fossero riusciti a lasciarle, prima che lei venisse rapita e loro uccisi.

– Siete molto fortunata. –

– Stai dando del Voi a tua zia? – la prese in giro Persefone, benevola.

– Devo abituarmi – si schermì lei.

– Sei reduce da un terremoto emotivo molto violento, Regan. Ti servirà parecchio tempo per riassestarti, ma quando lo avrai fatto, tutto andrà meglio, vedrai. –

Lei annuì, la gola secca le impediva di parlare. Non ne era del tutto convinta, ma lo tenne per sé.

Mi basterebbe che niente andasse peggio.

– Mio fratello Tristan sarebbe più che lieto se tu volessi venire a stare qui e facessi come fossi casa tua, e altrettanto lieto sarebbe di offrirti tutte le prospettive che ha concesso ai suoi figli. –

– Ne sono commossa. –

– Questo non significa che tu debba sentirti in qualche modo obbligata a farlo – La mano di Persefone si posò sulla sua e la strinse piano. – Sei libera di scegliere, Regan, e io ti prometto che nessuno ti costringerà a fare niente. Hai trovato la tua famiglia, ed è un gran passo in avanti. Adesso è te stessa che devi trovare. –

Con un notevole sforzo, si alzò e lasciò Regan con un piccolissimo sorriso. Appena prima di uscire, si voltò e le disse:

– Non dimenticare mai che non sono quattro mura a fare di un luogo la nostra casa, ma le persone di cui ci circondiamo. –

Poco più tardi passò una cameriera a lasciarle una pila di indumenti per la notte e degli asciugamani puliti assieme a una brocca di acqua per rinfrescarsi. Nessun altro venne a disturbarla, e lei trascorse la notte sola tra le sue quattro pareti.

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A/N: dunque ci siamo, direi. Come qualcuno aveva saggiamente intuito, Regan è una Edelberg. Siamo ormai a pochi capitoli dalla fine e presto anche gli ultimi interrogativi saranno almeno in parte svelati. Vorrei anche giustificare le lunghe tempistiche di aggiornamento: vorrei dare a tutti la possibilità di leggere un capitolo alla volta senza restare indietro, perchè io per prima sono una lettrice e so quanto è difficile aspettare un aggiornamento, ma ancora di più  è difficile mettersi in pari quando si ha tanto da fare e magari due o tre capitoli in arretrato. Insomma, mi perdonerà chi ha la possibilità di leggere subito ed è poi costretto ad aspettare, spero non me ne vogliate. :)
Intanto ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo:
Ariana_Silente: non sei stata affatto prolissa, anzi! Hai fatto molte osservazioni di cui andare fiera, perchè hai colto decisamente nel segno! Verle la rivedremo, più avanti, e in effetti aiuterà Regan a capirsi un po' meglio e capire un po' meglio anche il mondo. Per quanto riguarda l'invio del manoscritto... lo so, non dovrei avere paura, anche perchè Harry Potter, la mia saga preferita, è stato rifiutato un sacco di volte prima di essere pubblicato, quindi l'importante è non scoraggiarsi e non arrendersi mai... basta trovare la forza di cominciare! ^^
OdeToSolitude: arriverà  tutto quello che ti aspetti, anche se non tutto subito. ;) Grazie mille per i complimenti, sei sempre presente e attiva! <3
jame_love: ti faccio i miei complimenti per l'ottimo intuito per quel che riguarda "LEI", perchè credo che tu abbia capito molto, anche se forse scoprirai che Soile ha perso molto di più di quel che possa sembrare. E anche Anneli, poverina, non è cattiva davvero, è solo un po' infelice e quindi questa infelicità la porta a comportarsi in un certo modo con le persone, ma quando vuole bene a qualcuno, per quanto distaccata possa apparire, è una persona devota e leale. nonostante il suo brutto carattere. :) Spero che tu non pensi davvero di disturbarmi, con i tuoi commenti, perchè invece per me sono come una "paga" in parole anzichè in soldi! Pubblicare su EFP è una sorta di ricerca di comuonione tra lo scrittore e il pubblico: l'uno dà all'altro senza aspettarsi altro che parole in cambio. Quindi direi che ti devo più che altro ringraziare di tutto, a partire dai complimenti e dagli incoraggiamenti! :)
Ci sono poi altre persone che speravo davvero di risentire, perché il loro commenti o messaggi privati mi hanno molto colpita e affascinata, quindi, voi sapete chi siete, fatevi vivi, mi piacerebbe! :)

Per stavolta basta così, vi lascio con un abbraccio e la speranza che lascerete un segno del vostro passaggio, anche solo poche righe, a me fa piacere. :)

Dal prossimo capitolo:

Regan sedeva sul letto – il suo letto, nella sua stanza.

Erano stati il suo letto e la sua stanza anche quelli a casa di Lucius, ma ormai sembravano un ricordo lontano, anche se solo pochi giorni la separavano dall’ultima volta che vi aveva dormito. Non che le dispiacesse abitare nel maniero degli zii – anzi, le sembrava quasi di essere quasi tornata bambina, rifugiata in un’infanzia ovattata fatta di coccole e premure – ma il distacco da Lucius non era stato semplice. Si sentiva come una barca abbandonata in un porto senza una cima di sicurezza che la tenesse a riva. Senza di lui, aveva l’impressione di essere in balia del destino.

   
 
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