26. TUTTO CIÒ CHE
RESTA
I've never been the
praying kind
But lately I've been down upon my knees
Not looking for a miracle
Just a reason to believe
– Hold Me,
Savage Garden –
–
Quando conobbi Jarlath e Hel,
sapevo che non potevano essere chi dicevano. Ma li accolsi comunque,
perché
avevano un’anima buona e l’unica cosa di cui li si
sarebbe potuti incolpare era
che si amavano troppo. Sono solo una popolana, ma so come vanno le cose
negli
alti ranghi e di sicuro loro non erano né i primi
né gli ultimi ad essere
costretti a fuggire per stare insieme. Fecero fatica ad abituarsi alla
vita
frugale che conduciamo qui, ma non li sentii mai lamentarsi di nulla.
Erano
felici, e tanto bastava. Impararono in fretta ad amare la
vitalità del
villaggio. Alle feste, le sere d’estate, danzavano per ore in
mezzo agli altri
ragazzi, cantavano e ridevano con loro… era come se fossero
sempre stati qui. Quando
nascesti tu, entrambi piansero di gioia. –
Verle
fece una pausa per lasciare
a Regan il tempo di assimilare il tutto. Lei era confusa,
perché le sembrava
di riconoscere parti di quella storia, ma faticava a immaginare di
essere mai
stata felice. Nei suoi sogni, non aveva visto o sentito gioia o
sentimenti
simili; c’erano stati solo la paura e la sofferenza,
l’impotenza di quelli che
lei non aveva mai potuto chiamare mamma
e papà, di fronte
all’incombenza di
una scelta troppo crudele.
“Datemi la bambina.”
Serrò
gli occhi, scrollandosi di
dosso la visione, la sensazione delle braccia di sua madre che si
allentavano
attorno a lei, come abbandonandola.
–
Ricordate che giorno era? –
chiese, e lo sforzo di mantenersi composta le costò otto
solchi rossi scavati
dalle unghie nella carne dei palmi. Aveva caldo, anche se il mantello
giaceva
dimenticato da qualche parte lì nella cucina, e i capelli,
raccolti nella
solita treccia, le lasciavano il collo e le spalle nudi. Ma conosceva
quel tipo
di caldo: era la sensazione che lasciavano le emozioni trattenute, le
lacrime
rinnegate, i pensieri reclusi per impedire alla ragione di soccombervi
inevitabilmente. Non era ancora il momento di cedere alla disperazione
che, pur
deliberatamente ignorata, si faceva strada in lei: aveva sostenuto la
notizia
della morte di Derian, la sola persona che in un’intera
esistenza di prigionia
le era stato consentito di avere accanto, e che aveva amato con tutta
sé
stessa, come una sorella può amare un fratello, o un
assetato un ruscello
d’acqua fresca; ora avrebbe sopportato anche
quell’ennesima ferita. Avrebbe
lasciato colare il sangue e stretto i denti, perché non era
ancora ora di
abbandonarsi alle debolezze. Prima, doveva completare la ricerca che
con Lucius
e Shin aveva intrapreso, e quella – lo aveva saputo fin da
quando aveva inavvertitamente
origliato la conversazione tra Soile e Malice – non era
l’ultima tappa.
Verle
aveva gli occhi chiusi e
l’espressione serenamente assorta.
–
Oh, non dimenticherei quel
giorno nemmeno se me lo strappassero dalla memoria: il
ventitré di settembre
del 1015. Sei nata proprio alla soglia dell’Equinozio.
–
Era
una piccolezza
insignificante, in confronto a tutto il resto, ma Regan fu finalmente
felice di
conoscere la data esatta del suo compleanno.
–
Non avevi un solo capello in
testa, quando ti misi in braccio a tua madre per la prima volta
– rievocò la
vecchia, sorridente. Subito dopo, però, si
rabbuiò. – Ma non appena iniziarono
a spuntarti i primi ciuffetti rossi, fu chiaro che non eri una neonata
come gli
altri. Ti ricamai personalmente delle bellissime cuffiette, per celare
ciò che
al resto del villaggio sarebbe apparso come un pessimo e pericoloso
presagio. –
Regan
si sentì esattamente come
si era sentita quando, quella prima volta alla Sede Centrale della
Lega, la
guardia la aveva additata in quel modo terrorizzato, chiamandola Pahavehr.
Sangue cattivo.
–
Ma ero… solo una bambina… –
balbettò. Non voleva credere che un intero villaggio si
sarebbe lasciato
turbare da una bimba che a stento aveva imparato a camminare.
Eppure
il volto solenne di Verle
diceva che le cose stavano proprio così.
–
Ti sei vista, ragazza? Sei il
ritratto vivente di ciò che le leggende hanno insegnato a
temere: occhi di
smeraldo e capelli di rubino… Lucifero era così,
non lo sapevi? Forse la vostra
gente di città non dà peso agli antichi racconti,
ma nei piccoli villaggi come
questo la superstizione domina incontrastata e una fanciulla dai tuoi
colori di
certo non sarebbe accolta a braccia aperte – Verle fece una
breve pausa per
riprendere fiato, e quando riprese si era addolcita, come se si fosse
resa
conto di essere stata troppo brusca: – Eri piccola e tutte le
bambine della tua
età portavano cuffiette come la tua… nessuno si
è mai posto domande in merito.
I problemi sarebbero iniziati quando tu fossi cresciuta, ma di questo,
purtroppo, né io né i tuoi genitori abbiamo avuto
modo di preoccuparcene. –
Regan
annuì debolmente, il mento
chino, lo sguardo basso. Non avrebbe saputo che altro fare. Un destino
già
trascorso le stava scorrendo addosso senza lasciarle
possibilità di
contestarlo, lasciandola impotente ad ascoltare quella che, in
un’altra vita,
era stata la sua storia.
–
Erano brave persone, bambina –
le disse Verle, posandole una mano raggrinzita sulla sua. –
Li amavo come i
figli che non ho mai avuto, e la mattina che li ritrovai senza vita
persi con
loro una parte di me. Ti cercai ovunque, pregando che chiunque avesse
compiuto
quella crudeltà avesse almeno risparmiato il mio piccolo
raggio di sole, ma tu
non c’eri. In cuor mio, pregai la Madre che tu fossi sana e
salva, ovunque ti
trovassi. In tutti questi anni, non ho mai smesso di sperare che, da
qualche
parte, la mia piccola Regan fosse ancora viva… e non credo
che tu possa
immaginare quanto io sia lieta che le mie preghiere sono stata
ascoltate. –
Regan
non era sicura di potersi
dire d’accordo con lei, ma non esternò quel
dubbio. La sincera commozione di
quella donna la toccava, tuttavia non alleviava il peso che si sentiva
crescere
dentro. In fin dei conti era sopravvissuta solo per finire rinchiusa in
una
gabbia inespugnabile, come i fiori di Malice.
Sulla
scia di quel pensiero, gli
occhi di Shin si sollevarono su di lei con uno scatto improvviso. Neri
e
impenetrabili, eppure straordinariamente limpidi, specchi di un sorriso
che le
labbra non esibivano, ma che volle comunque rivolgerle, e qualcosa in
lei, come
per incanto, si placò.
Tornò
quindi a Verle, inibita da
una timidezza che non sentiva sua, e prese un respiro profondo.
–
C’è un’ultima cosa che vorrei
sapere… –
Una
lapide di umile pietra grigia
e due nomi fasulli incisi sopra una data: 17
Marzo 1019 N.E.
Era
tutto ciò che restava dei
suoi genitori.
Nessun
volto impresso nel
cristallo, come nelle tombe delle grandi città,
né vasi lavorati per accogliere
fastose composizioni floreali. C’erano solo cespi
inspiegabilmente verdi e
floridi a decorare quel misero monumento di memoria, adorni di boccioli
e fiori
maturi di colori che andavano dal bianco al fucsia intenso. Erano
belli, a
vedersi, ma erano anche una nota stonata nella bigia tristezza del
piccolo cimitero,
una macchia di insopportabile vita attorno a culle di morte.
Le
sembrava secoli fa quando
pensava che la cosa più vicina alla disperazione che avesse
mai provato era un
bustino troppo stretto.
–
Perpetuini. Dicono che la Madre
li mandi a crescere dove riposano coloro che le sono stati cari.
–
La
voce morbida di Shin scese ad
accarezzare le spalle di Regan, inginocchiata sull’erba
selvaggia al cospetto
della lapide, una mano allungata a sfiorarne la superficie ruvida,
rovinata dall’inclemenza
del tempo e degli elementi. Aveva un doloroso groppo alla gola, e non
perché si
trovasse sulla tomba dei propri genitori, ma perché di loro
non riusciva a
rammentare altro che l’ultimo dei loro giorni… il
peggiore. Quello, e pochi
istanti di sua madre che danzava allegra attorno a un falò
con altre ragazze:
l’unico spiraglio di felicità.
Avrebbe
voluto essere sola, in
quel momento di raccoglimento personale, ma non le era stato permesso,
e
dopotutto Shin era il migliore dei compagni, in un frangente del
genere, perché
sembrava sapere sempre cosa fare o non fare, cosa dire e quando, in che
modo, e
come rassicurarla senza nemmeno toccarla o aprir bocca. Non era una
spalla su
cui piangere che le serviva, adesso, ma solo che qualcuno le ricordasse
che la
vita non finiva lì.
Lucius
e Soile aspettavano
pazienti all’ingresso del cimitero, sorvegliandoli da
lontano. Per una volta, a
Regan non importava di lasciarli soli.
Fissò
i fiori, stranamente
fulgidi in quella giornata così uggiosa, e non la
rincuorò pensare che la Madre
aveva lasciato su quella tomba il segno del suo favore. Era uno strano
tipo di
solitudine, quello che stava provando, e aveva il tragico sapore
dolceamaro
della caducità di tutte le cose belle.
–
A te manca? Tua madre, voglio
dire – domandò laconica.
Shin,
alle sue spalle, gettava su
di lei un’ombra pallida che la avvolgeva come un manto
impalpabile.
–
Non l’ho mai conosciuta – le
rispose, dopo un momento di incertezza. – Non posso dire che
mi manchi lei in
sé. Forse sarebbe più giusto dire che mi manca
quello che sarebbe stata per me.
–
Gli
erano bastate poche parole
per esprimere un concetto che in lei non riusciva ad essere
più che un
sentimento astratto, ineffabile.
–
E tuo padre? – chiese ancora,
deglutendo il groppo alla gola. – Non ti ho mai sentito
parlare di lui. –
Un
dolce alito di vento scosse
l’erba incolta e i loro capelli, portando con sé
odore di pioggia.
–
Tra me e mio padre non c’è mai
stato un vero e proprio rapporto – ammise Shin, in un tono
forzatamente neutro
che trasmise più cose di quante non intendesse coprirne.
– Amava molto mia
madre, sai… credo non mi abbia mai perdonato di avergliela
portata via. –
–
Non può ritenerti responsabile
della sua morte… –
–
No, suppongo di no – replicò
lui, atono. – Ma questo non ha comunque reso i nostri
rapporti meno rigidi. –
Regan
si voltò e si alzò
lentamente. Per un figlio, l’unica cosa più triste
dell’essere orfani era avere
un genitore incapace di amare.
Davanti
a lei, Shin insisteva a
mantenere un pallido sorriso sulle labbra e lei avrebbe davvero voluto
poterlo
odiare per quel contegno ostentato, ma lui era quel raro genere di
persona che,
per quanto irritante potesse apparire nella sua irreprensibile
bontà d’animo,
non si poteva fare a meno di apprezzare. Regan, anzi, aveva spesso
l’impressione che quello che Shin lasciasse trasparire di
sé non fosse che una
piccolissima parte di lui, e che il suo aspetto fragile, quella sua
bellezza
delicata e abbacinante ingannassero l’occhio tanto quanto la
sua affabilità
ingannava la mente.
Regan
si sentiva più vicina a lui
di quanto non lo fosse mai stata.
Era
a un passo dal precipitare in
un baratro di sconforto che la avrebbe distrutta e non poteva
permetterselo,
dunque fece quello che facevano tutte le persone che avevano bisogno di
essere
salvate: domò l’orgoglio e chiuse gli occhi, e le
sue mani si mossero da sole,
fino a che non si ritrovò aggrappata alla vita sottile
dell’amico, le sue
braccia ad avvolgerle le spalle, il viso premuto contro il suo petto.
Non ci
furono né lacrime né singhiozzi, e il silenzio
che rimase sospeso attorno a
loro era il suono più straziante che entrambi avessero mai
udito.
L’impulso
di andare da Regan e
stringerla in un abbraccio consolatorio che sicuramente sarebbe stato
tanto
forte da farle del male era un prurito intrappolato sotto alla pelle di
Lucius
che non poteva trovare sollievo. Non era mai stato bravo a dare
conforto alle
persone e quel che era peggio era che, anche in caso contrario, non
c’era
conforto che si potesse fornire in un momento come quello.
C’era Shin accanto a
lei, e ciò che c’era tra loro era una comunione di
cordoglio, la condivisione
di una perdita che, in modi e tempi diversi, aveva colpito entrambi. Se
non
poteva lenire il suo dolore, almeno lui poteva capirla.
Soile
faceva da spettatrice
silenziosa a quella scena malinconica, le braccia che la avvolgevano
sotto al
mantello che le svolazzava attorno alle caviglie. Anche lei capiva.
Sua
madre, una gentildonna che
aveva sposato colui che sarebbe poi diventato uno dei Coordinatori
Generali più
stimati della storia, era morta di parto, e suo padre era
stato ucciso solo un anno
dopo che Lucius aveva ricevuto la grazia da ogni sua colpa, ottenendo
come pena
alternativa l’obbligo di servire la Lega. Obbligo che lui
aveva giurato senza
remore di adempiere fino alla fine dei suoi giorni, votandosi non alla
Lega
direttamente, ma a colei che lo aveva sottratto alla pena di morte.
Soile.
Erano
cambiate tante cose, da
allora.
Qualcuno
riteneva che i tragici
avvenimenti intercorsi tra quel giorno lontano e il presente avessero
ristretto
le infinite distanze che dividevano Lucius da lei, ma la
realtà era un’altra:
legami che il fato avverso aveva tentato di distruggere sembravano
essersi solo
rinsaldati attraverso la perdita, la separazione eterna, la nostalgia
senza
ritorno. Qualunque cosa a cui Lucius anelasse nel profondo, e
rinnegasse con
altrettanto ardore, non avrebbe mai visto altro che
l’oscurità dei recessi in
cui la teneva serenamente – o così si sforzava di
credere – relegata.
–
È una ragazza coraggiosa. –
Lucius
si volse a guardare Soile,
chiusa in quella solitudine che lei stessa si era scelta, un muro
solido ma non
del tutto inespugnabile, perché a lui, attraverso sottili
spiragli, era stato
concesso di vedere molto più di quanto l’apparenza
avesse da offrire.
Vide
Regan separarsi da Shin e
tornare a guardare una tomba uguale a tante altre in cui era stata
seppellita
ogni sua speranza. Non piangeva, e questo non lo stupiva: la conosceva
abbastanza bene da sapere che non sarebbe stato da lei.
–
È sventata, orgogliosa e
testarda – mormorò, quasi sorridendo. –
Il che non è proprio la stessa cosa. –
–
Nonostante questo, ti sta molto
a cuore. –
–
O forse proprio per questo…
chissà. –
Anche
Soile quasi sorrise.
–
È forte, per sua fortuna, anche
se ancora non lo sa. –
–
Mi domando quale sarà la sua
reazione quando scoprirà chi sono i parenti che le restano
– mormorò lui. Si
abbandonò con la schiena contro uno dei due pilastri che
sosteneva l’arcata di
ferro dell’ingresso del cimitero e si infilò le
mani in tasca. Almeno su quel
versante, c’era qualcosa di buono.
Lei
annuì meditabonda.
–
Certo è una fortunata
coincidenza – rifletté.
–
Io non credo alla coincidenze,
lo sai. –
–
Diciamo allora che, nella sua
sventura, la Madre ha mostrato clemenza verso di lei. –
Lucius
sollevò le spalle.
–
Anche se così non fosse,
avrebbe un’importanza solo relativa. I legami di sangue non
significano niente
e non le manca certo chi si preoccuperebbe di lei. –
Soile
tacque e lo considerò di
sottecchi. Come sempre, lui si sentì riscaldato da quel
semplice sguardo.
–
Adesso che non può sentirci, mi
dirai ciò che stai tacendo? –
Luscius
scosse la testa e rise
sommessamente. Tutti i libri aperti del mondo non si potevano
paragonare a ciò
che diventava lui davanti a lei. I suoi occhi scesero su di lei,
sprazzi cielo
che trovavano frammenti di ghiaccio, e il quasi sorriso divenne un
sorriso
vero.
–
Non riuscirò mai a nasconderti
niente, vero? –
Non
era una lamentela, né un
rimprovero, solo un dato di fatto che nonostante tutto lo aveva sempre
divertito.
Lusingato?
Calpestò
il peccato di vanità che
quel pensiero gli aveva indotto concentrandosi sulla risposta da dare:
–
Quando io e Shin ci siamo
nascosti, fuggendo dai sotterranei… c’era un
simbolo inciso sulla porta che
abbiamo trovato. Il simbolo del nostro nemico senza nome. –
–
Pensi che abbiano lì il
quartier generale? –
–
Se la loro trappola ci ha
mandati là, verrebbe da ipotizzare che sia così.
E forse sono lì da più tempo
di quel che crediamo. Una volta andava di moda tra le sette riunirsi
là sotto,
no? Almeno fino a che non sono state sgominate anche da lì.
Mi sono ricordato
che la dimora della mia amica Angina un tempo era sede di una setta
sfuggita
alle persecuzioni. C’è un fregio sul portale
d’ingresso, due parole le cui
iniziali sono scolpite in maniera singolare. Unite insieme, quelle due
iniziali
formano il simbolo del nemico. –
–
Pare che ancora una volta tu ti
sia rivelato indispensabile. –
–
Mai quanto vorrei. –
Lasciò
il sottinteso ad aleggiare
tra loro, attendendo che lei, paziente, ne lasciasse dissolvere
l’eco, o lo
raccogliesse come una foglia morente che scivolava via dal suo albero,
un
desiderio espresso senza avere una stella a cui affidarlo. Ma lui non
aveva mai
avuto né la presunzione né
l’ingenuità di desiderare, con lei. Come un
albero,
cedeva le sue foglie al vento, guardandole fluttuare via da
sé fino a che lei,
con un sorriso triste o uno sguardo distante, le raccoglieva
delicatamente tra
le mani, guardandole svanire.
–
Lucius… –
Foglie
perse che non si
stancavano mai di rinascere.
Senza mai rimpiangere di essere cadute invano.
Risparmiò
a Soile il fastidio di
rispondergli:
–
Andrò personalmente da Angina e
vedrò cosa riesco a scoprire, ma solo in un secondo momento.
Prima vorrei
portare Regan al sicuro... a casa.
La
priorità è affidarla alla sua legittima famiglia.
–
–
Sarà un duro trauma, e non solo
per lei. –
–
Sì, nel bene e nel male –
convenne lui. Confidava che per Regan sarebbe stato di qualche sollievo
sapere
che aveva ancora dei parenti in vita e che questi al di fuori di ogni
dubbio
sarebbero stati più che lieti di accoglierla in casa propria
come una figlia.
–
Anche i Dresden dovranno sapere
di lei, prima o poi – sottolineò Soile a bassa
voce, rimarcando così quanto
quel particolare costituisse quasi un intoppo, più che un
fattore positivo.
I
Dresden, e con loro una dozzina
di altre famiglie, godevano di pessima reputazione presso gli altri
esponenti
dell’antica nobiltà, eredi di disonori di cui i
loro antenati si erano
macchiati un millennio prima, durante la Grande Rivolta, accusati di
esserne i
fautori e cospiratori contro la Corona. Storicamente la caduta della
Monarchia
era imputata direttamente a loro, benché altri fattori
avessero influito sulla
catastrofe. Tra questi le leggende annoveravano Lucifero, spauracchio
per eccellenza
e capro espiatorio – non sempre a ragione – di
tutte le disgrazie dell’epoca.
Dopo
tanti secoli, non vi era più
motivo di serbare rancore verso coloro che un tempo erano stati bollati
come
traditori, ma in tutte le Sette Terre la tradizione era radicata molto
più a
fondo di quel che certe persone, come Castalia Reis, volevano credere e
spesso
e volentieri vecchi rancori sopravvivevano, nitidi e indelebili,
assieme a
vecchie lealtà.
Lucius
sospirò, massaggiandosi la
fronte tra due dita.
–
Lo so. Ora come ora, però,
ritengo che Regan trarrà maggior beneficio a stare con i
parenti di suo padre,
non pensi? –
Soile
assentì.
–
Contatterò Persefone appena
saremo rientrati. –
Regan
e Shin stavano tornando
verso di loro. Lucius osservò Regan attentamente, cercando
di riconoscere
qualcosa nell’assoluta neutralità del suo viso, ma
non ci riuscì. Lui era
scappato dai propri genitori senza mai un singolo momento di rimorso,
mai un
giorno in cui, per quanto solo e abbandonato si fosse sentito, avesse
rimpianto
la loro presenza accanto a sé. Tuttora non sapeva cosa ne
fosse stato di loro
né ci teneva a scoprirlo. Non era in grado nemmeno di
immaginare cosa si
provasse a soffrire per la morte
dei
propri genitori. Regan praticamente non li aveva neanche conosciuti, i
suoi,
eppure in lei si poteva distintamente avvertire, intenso, il senso di
perdita,
di vuoto, lo smarrimento vertiginoso che poteva solo scaturire
dall’ineluttabile presa di coscienza che uno dei capisaldi
della propria
esistenza era irrimediabilmente venuto meno.
Ci aveva creduto fino all’ultimo che si
sarebbe ricongiunta a loro…
–
Sto bene – disse subito Regan
non appena gli fu di fronte. Sforzò addirittura un sorriso
stentato. – Adesso
possiamo andare. –
Non
disse altro per tutto il
tempo fino al rientro a Kauneus.
Lucius
provò per puro scrupolo ad
attraversare il Portale della piazza di Aurin da solo e solo quando fu
tornato,
confermando che era tutto a posto, passarono tutti quanti. Una volta
arrivati a
destinazione, Soile si congedò in fretta da loro e un attimo
più tardi si era
letteralmente dissolta nell’aria. Una volta tanto, Lucius non
si soffermò a
rimpiangere il vuoto che si era lasciata dietro.
I
maestosi cancelli della
residenza degli Edelberg, anche da spalancati, erano più
neri e minacciosi che
mai alla luce spettrale che filtrava appena tra i gonfi nuvoloni grigi.
Quando
si richiusero alle sue spalle, Regan ancora non era riuscita a capire perché si fossero recati
lì, né qualcuno
si era degnato di spiegarglielo in seguito a una delle svariate volte
che lo
aveva chiesto.
–
Entrate e dite a Lord Edelberg
che è un’emergenza e che tu, Regan, hai bisogno di
stare al sicuro. Io vado a
prendere i ragazzi. –
Perplessa,
Regan si volse
indietro: Lucius era rimasto dall’altra parte del cancello e,
dopo un cenno
veloce, aveva appena voltato le spalle a lei e a Shin. Lei
aprì la bocca per
richiamarlo ed esigere spiegazioni, ma la mano di Shin salì
con stupefacente prontezza
a tappargliela.
–
Non adesso. –
Nonostante
il guanto che gli
copriva la mano, un lembo di polso nudo le premette sulla guancia,
provocandole
quel sentore di ustione che credeva di aver dimenticato del tutto.
Si
ritrasse d’istinto,
sfiorandosi con le dita il punto esatto in cui si era sentita bruciare;
appena
interrotto il contatto, la sensazione era svanita. Si pentì
di quel gesto
inconsulto, però, perché vide come questo aveva
intristito Shin.
–
Scusami. –
–
No, scusami tu – mormorò lui. –
Avevo dimenticato… –
Regan
si morse il labbro.
Detestava vedere quella serenità perfetta intaccata dal
senso di colpa,
soprattutto se ingiustificato.
–
Faremmo meglio ad entrare,
adesso. Non è prudente indugiare troppo qua fuori.
–
Shin
la sospinse in avanti lungo il
vialetto, verso il portone d’ingresso già aperto,
al di là del quale Donna
Melyor già li attendeva con un raggiante sorriso a trentadue
denti stampato in
faccia.
–
Cara bambina! – esclamò,
correndole incontro per baciarla su tutte e due le guance. –
Oh, che sorpresa
meravigliosa! Venite, venite dentro! –
Li
scortò in casa, dove c’era un
calore gradevole e un buon profumo di dolci freschi che si fondeva a
quello dei
superbi mazzi di rose orlate di nero sparsi in tutta la casa.
–
Mettetevi comodi – disse, introducendoli
nel salotto dove Regan aveva incontrato tutta la famiglia la prima
volta.
Sembravano passati secoli, da allora. – Vado a chiamare
milady. Torno subito. –
La
casa era insolitamente
silenziosa. I ragazzi erano tornati alla Domus Aurea e senza di loro
– e
soprattutto senza la vivacità dei gemelli – il
maniero, per quanto lindo e
lustro, sembrava quasi abbandonato.
Shin
non era affatto a suo agio,
ed era strano che fosse così evidente, perché di
rado lo si vedeva scomporsi.
Ma adesso era visibilmente
agitato: camminava avanti e indietro, osservando con piccole, rapide
occhiate i
particolari del vasto salotto. Regan intuì che non era mai
stato lì, prima di
allora. Si ricordò anche lo strano atteggiamento che Aeden e
Anneli avevano
avuto verso di lui quel giorno nella foresta, e si chiese se
ciò avesse a che
fare con quanto Shin le aveva detto una volta, e cioè che i
ragazzi
dell’Accademia nutrivano delle ostilità verso di
lui – invidia?
– a causa delle sue doti fuori dal comune.
Regan,
dal canto suo, invece, si
sentiva rassicurata da quell’ambiente che ormai le era
diventato familiare.
L’odore secco del legno e quello setoso dello zucchero si
univano al profumo di
fiori che dai giardini e dalle serre trapelava attraverso le finestre,
una
carezza di petali che le faceva quasi rimpiangere i giorni in cui non
era
nessuno e la sua routine di esauriva entro le mura domestiche, aiutando
Eleonora con le faccende.
–
Buon pomeriggio! –
Lady
Arista era apparsa sulla
soglia, vestita in modo decisamente poco sontuoso e sporca di farina,
un po’
sorpresa ma con un gran sorriso sulle labbra. La piccola Luce, in
braccio,
aveva tutto il visetto paffuto impiastricciato di pastella color
biscotto.
–
Scusateci – aggiunse Arista,
accorgendosi di Shin. – Stavamo preparando qualche dolcetto e
non siamo molto
presentabili. –
Regan
sapeva che non era una
nobildonna come tutte le altre. Una volta la aveva addirittura vista
impegnata
a rincorrere una palla sui prati del giardino assieme ai figli, sudata
e
scarmigliata, scalza e con le gonne distrattamente raccolte tra le
mani. Era
stato allora, sentendoli ridere tutti insieme a crepapelle, che aveva
per la
prima volta compreso veramente cosa significasse essere una famiglia, e
ora più
che mai ne sentiva la mancanza.
Arista
mise Luce a terra e la
bimba, senza fare complimenti, trotterellò da Regan felice,
le manine grassocce
e incrostate di zucchero tese in avanti verso di lei. Regan se la
strinse tra
le braccia e trasse qualche conforto dal profumo di vaniglia della sua
pelle di
pesca, dal bacio appiccicoso che le stampò sul viso.
Shin,
invece, rimase impalato al
suo fianco, ritto e rigido come non mai, e quando Arista li raggiunse,
le
rivolse un inchino formale.
–
Lady Edelberg. Permettete che
mi presenti: sono… –
–
So chi sei: il ragazzo del Duca
– lo precedette lei gentilmente. – Lucius dice
meraviglie di te e i miei figli
grazie a te hanno imparato a ridimensionare i loro ego. –
Lui
abbassò lo sguardo a mo’ di
scuse, ma la donna rise.
–
È una cosa positiva, devi
credermi. Ad ogni modo, a cosa devo l’onore di questa visita?
–
Shin
prese la parola prima che
Regan potesse pensare a cosa rispondere e di conseguenza rendersi conto
di non
possedere alcuna risposta.
–
Forse sarebbe meglio aspettare
Lucius. Sarà qui tra pochi minuti. –
La
vaghezza insospettì Arista:
–
È successo qualcosa? – chiese,
ora vagamente allarmata.
–
Nulla di cui voi dobbiate
preoccuparvi, non temete. –
La
donna stava per dire qualcosa,
quando uno scalpiccio proveniente dall’ingresso
attirò l’attenzione di tutti e
tre. Non fu difficile riconoscere le voci sommesse che parlottavano tra
loro e
lo stupore di Arista aumentò.
Uno
a uno, in fila, entrarono
Lucius, Anneli, Aeden e i gemelli. Mariek aveva il mantello tutto
storto allacciato
su una spalla e i capelli scarmigliati, ed Ember teneva in una mano una
mela
sbocconcellata a metà e nell’altra un boccale
schiumoso.
–
Be’, che c’è? Stavo facendo
merenda! –
Due
minuti più tardi anche Prince
e Lord Edelberg si presentarono, con un’aria non meno
sbigottita del resto
della famiglia, e altri cinque minuti dopo Soile giunse accompagnata da
Persefone, vistosamente più rotonda e appesantita
dell’ultima volta che Regan
l’aveva vista. Non doveva mancare molto al parto, ormai.
–
Non ho mai visto questa sala
così affollata – commentò Mariek
sottovoce.
–
Tranne quando abbiamo
organizzato quella specie di concorso per la futura sposa di Aeden
– lo
corresse Ember, e il chiamato in causa gli rifilò un calcio
negli stinchi che
lo mise a tacere.
Quando
tutti i numerosi posti a
sedere offerti da divani e poltrone furono occupati, in piedi restavano
solo
Lucius, Prince e Lord Tristan, padre e figlio accanto alla poltrona
occupata da
Persefone, l’altro di fronte al camino, il ritratto di
famiglia incompleto a
incombere su di lui dall’alto.
La
curiosità dominava su tutti:
fremeva nelle mani, guizzava negli occhi, faceva mordere la lingua per
trattenere raffiche di domande inopportune. A Lucius non
servì nemmeno
richiedere attenzione, perché tutti stavano già
pendendo dalle sue labbra.
–
Mi devo scusare per avervi
fatti precipitare tutti qui in questo modo, ma ho ritenuto giusto che
foste
tutti presenti. –
Regan
era sempre più confusa, e
con lei anche tutti gli altri. I soli a non apparire turbati erano
Lucius, Shin
e Soile, che, anziché ascoltare, preferivano scrutare le
reazioni degli altri.
–
Suppongo che nessuno, qui
dentro, sia all’oscuro del fatto che mi sono assunto
l’incarico di scoprire chi
sia veramente Regan. Con il prezioso ausilio di Shin e Lady Leljen,
naturalmente. – aggiunse, come per ovviare un increscioso
sgarbo.
Cenni
di assenso scossero un paio
di teste.
–
Ebbene, di recente la memoria
di Regan ha avuto qualche piccolo miglioramento e questo ci ha condotti
ad
Aurin. –
Tralasciò
la disavventura causata
dal Portale manomesso e si focalizzò invece sulla parte
fondamentale, ossia
l’incontro con la vecchia Verle.
–
Questa donna ci ha raccontato
che i genitori di Regan hanno vissuto da lei fin dal loro arrivo. Erano
due
giovani di origine presumibilmente benestante. –
–
Erano? – fece Arista,
rammaricata.
–
Morirono quando lei era ancora
molto piccola. –
Una
decina di sguardi
commiserevoli si spostarono su Regan, la quale avrebbe ardentemente
preferito
essere ignorata. La pietà le dava la nausea. Dal divano di
fronte, Shin le
gettava occhiatine esitanti, apparentemente agitato quanto lei, anche
se a modo
suo.
–
Regan mi ha parlato di certi
suoi incubi, nei quali rivive il momento in cui sua madre e suo padre
morirono,
e suo padre ha il volto di… – proseguì
Lucius, e i suoi occhi si sollevarono su
un altro paio d’occhi ben precisi. – Prince.
–
Sbalordito,
Prince arretrò di un
passo come se questo potesse mettere distanza tra lui e
l’idea imbarazzante di
apparire nei sogni di una ragazzina in veste di suo genitore.
–
Suvvia, è solo un sogno!
Tristan è troppo giovane, non potrebbe mai… E
comunque cosa c’entra, adesso? –
protestò Lord Edelberg.
–
Non ti viene in mente nessuno
che possa corrispondere alla descrizione? – gli disse Lucius,
le sopracciglia
inarcate. – Qualcuno che somigli a Prince abbastanza da poter
essere scambiato
per lui, ma anche abbastanza adulto da poter essere il padre di una
ragazza
dell’età di Regan? Non voglio credere che tu non
possa arrivarci, amico mio. –
Regan
guardava Prince, sbigottito
e a disagio, e si chiedeva dove volesse arrivare Lucius. Che cosa
c’entravano
gli Edelberg con i suoi genitori?
–
Padre, di cosa sta parlando? –
si intromise Anneli, ma Lord Edelberg la interruppe con un gesto brusco.
–
Sto parlando, Anneli – le
rispose Lucius, compassato, gettando un’occhiata in su, al
dipinto che pendeva
sopra di lui. – Di un giovane che un tempo amò una
fanciulla di nome Aranel
Dresden, e che per lei rinunciò a tutto ciò che
possedeva, compresa la sua
famiglia. –
Lord
Edelberg sobbalzò come se
fosse stato colpito in pieno viso da un pugno particolarmente violento.
–
Non può essere… –
Sua
moglie si portò entrambe le
mani alla bocca, sbiancando all’istante. I loro figli,
invece, si guardavano
tra loro senza capire. Persefone sembrava impietrita nella sua
poltrona, gli
occhi lucidi, ma tranquilla.
Rassegnata, forse.
–
Non puoi esserne sicuro,
Lucius! – insisté Lord Edelberg con voce roca.
–
Mettila alla prova, se credi! –
esplose Lucius, tracciando con la mano spalancata un arco nervoso verso
Regan.
– Pensi che mi sarei dato la pena di convocarvi tutti se non
ne fossi stato sicuro? –
–
Adesso basta! – strepitò Regan,
scattando in piedi. – Sono stanca di essere manovrata come
una marionetta! Qui
è di me che si tratta,
quindi, se non
è di troppo disturbo, basta con gli indovinelli! –
si voltò verso Lucius, le
guance in fiamme per la collera. – Dimmi tutto chiaro e
tondo, e spiegami
perché diavolo siamo qui! –
Discese
un silenzio così
sepolcrale che per un attimo si riuscirono a sentire i virtuosismi di
Donna
Melyor, che stava canticchiando al piano di sopra, ma smise subito,
forse
preoccupata dagli strilli.
Lucius
le rivolse uno sguardo
duro, ma malgrado ciò pieno di affetto.
–
I tuoi genitori non ci sono
più, Regan, ma hai ancora una famiglia su cui contare
– i suoi occhi percorsero
la stanza e i presenti. – In senso più letterale
di quanto tu possa pensare. –
–
Non capisco – biascicò lei, e
fu lieta di vedere che non era la sola ad essere estremamente confusa:
i
fratelli Edelberg lo erano almeno quanto lei. Ma non lo era Lord
Edelberg, il
cui volto già segnato dai vistosi sfregi appariva ancora
più sciupato. Si alzò
con un movimento lento e affaticato, come se un peso invisibile gli
gravasse
sulle spalle, e le si avvicinò con un dolore strano a
opacizzargli gli occhi,
qualcosa che a lungo era stato covato senza trovare sfogo e che ora
sfociava
silenzioso nel tremore quasi impercettibile delle sue mani. Regan le
sentì
posarsi si di lei con insospettabile delicatezza, le dita che
affondavano nelle
braccia e gli occhi negli occhi, e tutti trattennero il fiato. Poteva
quasi
essere paragonato all’amore di un padre il sentimento con cui
quell’uomo si
presentava davanti a lei.
–
Me la ricordo, quella ragazza –
esordì, la voce arrochita da un’emozione
faticosamente domata, fissando Regan
con un’attenzione che sconfinava nella perizia, come se la
vedesse per la prima
volta. – Una carnagione color miele, rara da queste parti, e
capelli come oro
pallido, e quei grandi occhi blu da bambina… –
Delle rughe di dolore emersero
al di sotto della cicatrice che gli sfigurava il volto. Nella mente di
Regan le
sue parole tratteggiarono un volto preciso, quella che, nei suoi sogni,
le era
apparsa come una versione di sé stessa colorata nei toni
sbagliati.
Mia madre.
–
Faticavo a ricordare il suo
volto, fino a un attimo fa, ma ora che so,
riesco a vederlo: è come se un pittore la avesse ritratta in
te, modificandone
i colori a suo piacimento. –
La
sincera commozione che metteva
alla prova il volto duro dell’uomo si avventò a
tradimento su Regan, incrinando
quella cosa indistinta che – qualsiasi cosa fosse –
aveva finora tenuto insieme
in un fragile equilibrio tutta la sua emotività. Senza che
lei se ne
accorgesse, i suoi occhi si inumidirono.
Le
mani di Lord Edelberg la
stringevano convulsamente e tremavano di un’emozione
abbastanza forte da
soverchiare il ferreo autocontrollo di un uomo che a lei era sempre
parso
imperturbabile.
–
Mi spiace che tu non assomigli
un po’ anche a lui…
in tutti questi
anni ho sempre voluto convincermi che avesse sbagliato a fuggire, ma
credo che,
dopotutto, non gli sia stata lasciata altra scelta. –
E
si voltò, solo per un istante,
in direzione del ritratto appeso sopra il grande camino, e
là, nel punto di
vuoto che squilibrava il dipinto, le ombre parvero ritirarsi e
schiarirsi per
lasciare spazio a una figura dai contorni sfocati che stava emergendo
lentamente dalle tenebre, un fantasma a lungo dimenticato che, per
incanto,
tornava a vivere nella tela di un quadro. Era un ragazzo. I suoi tratti
si
fecero gradualmente più nitidi e Regan fece appena in tempo
a domandarsi cosa
ci facesse Prince in un ritratto che lo precedeva di un generazione,
quando la
razionalità le rammentò che quello non poteva
essere Prince, perché lei sapeva
che quel posto prima vuoto non apparteneva a lui.
–
Ho sempre sperato che stesse
bene, nonostante tutto – sospirò Lord Edelberg, e
un singhiozzo risuonò per la
stanza: china su sé stessa nella sua poltrona, Persefone
piangeva sommessamente
e Lord Edelberg la guardò con tutta la comprensione che un
qualsiasi fratello
maggiore avrebbe riservato alla sorella. – Se non altro
sappiamo che Ardal
visse e morì felice. –
Regan
d’un tratto comprese, un
fulmine a ciel sereno, quanto la situazione fosse triste: lei aveva
perso un
padre mai conosciuto, Lord Tristan e Persefone avevano perso un
fratello con
cui erano cresciuti, e che avevano profondamente amato. E
c’era lo stesso
orrore sui volti esangui dei ragazzi Edelberg, che si guardavano
l’un l’altro
atterriti, e Regan sapeva che nei loro pensieri si stavano sforzando di
non
pensare a cosa avrebbero potuto provare se uno di loro fosse venuto a
mancare.
E
poi, senza nemmeno sapere come,
si ritrovò immersa nelle sue braccia possenti, avvolta da un
abbraccio che a
stento avvertiva, ma senza il quale il suo corpo, le gambe
improvvisamente
molli come fili d’erba, si sarebbe accasciato a terra come un
guscio vuoto.
Perdere
tutto e ritrovare qualche
ultimo frammento di sé in poche ore… era davvero
troppo.
Ed
era lì. Era tutto lì, dove era
sempre stato, sotto al suo naso. Era lì, in quella casa,
adesso, tutto ciò che
restava a unirla a una vita che, ancor prima che lei nascesse, aveva
subito già
fin troppe deviazioni.
Di
quel momento, in seguito,
avrebbe nitidamente ricordato solo l’insopportabile profumo
asprigno e perfetto
delle rose. Un profumo che solo un erede di sangue Edelberg avrebbe
potuto
sentire.
La
stanza che le era stata fatta
preparare non sarebbe stata fuori luogo tra gli splendori del palazzo
di Soile.
Tappezzerie scure, legno di mogano e tappeti pregiati la rendevano
buia, ma
conferivano anche un certo tepore all’atmosfera ovattata che
la luce ambrata
del camino diffondeva. Un letto a baldacchino come non ne aveva mai
visti,
massiccio e ricco, occupava quasi un terzo della camera,
così alto che a Regan
era occorsa una fatica non trascurabile per arrampicarvisi sopra, e ora
sedeva
lì, sul copriletto che aveva il colore dei suoi capelli, e
guardava la porta
chiusa senza riuscire a pensare a nient’altro che alle
venature del legno, ai
riflessi opachi delle fiamme lontane sulle maniglie in ottone. I piedi
le
penzolavano inerti nel vuoto, così come ogni pensiero
coerente rimasto nella
sua testa.
Era
sola.
Dopo
che Lucius aveva rivelato
che era la figlia di Ardal Edelberg, tutto era accaduto molto
rapidamente: lo
stupore della famiglia, la comprensibile incredulità, e poi
le felicitazioni,
un brindisi improvvisato, e infine una cena sontuosa che Arista si era
personalmente occupata di predisporre. Tutto questo era scivolato
addosso a
Regan come l’acqua di un fiume in piena, impetuoso e
inarrestabile, e benché
fosse stata costantemente al centro di ogni attenzione, si era sentita
come una
spettatrice esterna, ingarbugliata in riflessioni apatiche che tuttora
non la
lasciavano in pace. Aveva mangiucchiato qualcosa solo per non sembrare
irriconoscente o maleducata, poi si era dichiarata troppo stanca per
restare e
Donna Melyor la aveva accompagnata in quella stanza sotto agli sguardi
comprensivi di tutti gli Edelberg.
Più
ci rifletteva su, più le
appariva incredibile che, di tutte le persone del mondo, fosse stato
proprio
Lucius a trarla in salvo e prenderla con sé. Lui, che era
così legato a coloro
che lei aveva appena scoperto essere i suoi zii e cugini, e a proprio a
loro spesso
la aveva affidata, permettendole di prendere confidenza con un mondo
che fin
dalla più tenera età le era stato negato.
Fin
troppo fortuita, per essere
una coincidenza.
–
Io non credo alle
coincidenze. Forse
la Madre ti ha voluta
aiutare a ritornare a ciò che legittimamente ti spettava.
–
Così
le aveva detto Lucius, prima
di andarsene. A nulla erano servite le insistenze dei padroni di casa
affinché
rimanesse per cena: qualcosa di urgente lo chiamava altrove.
Un
casto bacio sulla guancia, una
carezza che aveva un che di nostalgico, e poi l’aveva
lasciata con un sorriso
che le sue labbra a stento avevano sostenuto per un paio di secondi, il
tempo
di voltarle le spalle e allontanarsi lungo il viale senza mai guardarsi
indietro.
Shin
si era trattenuto una manciata
di minuti in più, e Regan sospettava che lo avesse fatto
solamente perché aveva
udito la muta preghiera dei suoi occhi di non lasciarla sola a
vedersela con
quel frastornante turbine di novità. Alla fine,
però, all’annuncio della cena,
anche lui aveva dovuto lasciarla: quando Soile si era alzata per
congedarsi,
Shin se n’era andato via con lei.
Qualcuno
bussò, e Regan, che
stava attendendo che Donna Meloyr ritornasse a portarle degli indumenti
puliti
per la notte, rispose “Avanti!” senza pensarci. Non
era l’anziana balia, però.
Persefone
entrò e richiuse la
porta dietro di sé. Si avvicinò piano e le
sedette accanto sul letto.
–
Sono solo venuta a vedere come
stai. Non ti disturberò a lungo, te lo prometto. Non deve
essere facile
sopportare tutto quello che sta succedendo – aggiunse subito,
prima che Regan
potesse smentirla. La sua voce era così dolce e musicale che
solo starla ad
ascoltare l’aveva fatta sentire più tranquilla.
–
So che probabilmente ti
sentirai soffocata da tutte queste novità così
improvvise, ma tutti noi non
desideriamo altro che vederti serena e a tuo agio, quindi voglio che tu
ricordi
che puoi contare su di noi, anche se spero che questo tu lo sapessi
già. –
Il
sorriso materno di Persefone
le infuse un calore che il fuoco nel camino non era riuscito a
trasmetterle.
Regan non riuscì a rispondere, ma la osservò: la
bellissima donna che aveva
davanti, una delle figure politiche di maggior rilievo delle Sette
Terre, era
sua zia, ed era lì con lei per farla stare meglio, ed era
quanto di più simile
a una madre avrebbe mai potuto avere.
Persefone
emise un piccolo gemito
e si portò entrambe le mani sul grosso ventre rotondo,
socchiudendo gli occhi,
ma senza smettere di sorridere.
–
Tuo cugino è un po’ agitato,
stasera. Avverte il fermento intorno a sé. –
–
Quando dovrebbe nascere? –
–
A giorni, ormai. Mio marito non
era molto contento che mi allontanassi dal palazzo, ma ne valeva la
pena, non
credi? –
Era
un pezzo di lei. Persefone
era un pezzo di lei, una persona a cui era indissolubilmente legata
dallo
stesso sangue che a legava a Lord Tristan e i suoi figli, e a Malice,
esiliata
lontano per sempre. Ma un legame di sangue, per quanto potesse
significare, non
bastava a colmare il vuoto, a supplire a tutte le altre mancanze.
Voleva bene a
quelle persone già da prima di riscoprirli parenti e il
termine gratitudine era
ridicolmente riduttivo per esprimere quello che lei provava nei
confronti di
tutti loro. Aveva una famiglia e ne era contenta, ma non poteva
fermarsi lì.
C’era ancora la sua natura ambigua da risolvere, le stranezze
di cui era stata
protagonista e che ancora non aveva avuto il coraggio di rivelare a
nessuno,
temendo il loro giudizio. Che in lei ci fosse qualcosa che non andasse
era
ormai la risaputo; ciò che la preoccupava era scoprire cosa
fosse.
E
poi voleva sapere chi era stato
a uccidere i suoi genitori.
–
Come lo chiamerete? –
Persefone
arricciò le labbra,
quasi con disappunto, ma si ammorbidì subito:
–
Shedar, se è un maschio, e
Emlyn, se è una femmina. –
Regan
annuì. Il suo nome era
l’unica cosa che i suoi genitori fossero riusciti a
lasciarle, prima che lei
venisse rapita e loro uccisi.
–
Siete molto fortunata. –
–
Stai dando del Voi a tua zia? –
la prese in giro Persefone, benevola.
–
Devo abituarmi – si schermì
lei.
–
Sei reduce da un terremoto
emotivo molto violento, Regan. Ti servirà parecchio tempo
per riassestarti, ma
quando lo avrai fatto, tutto andrà meglio, vedrai.
–
Lei
annuì, la gola secca le
impediva di parlare. Non ne era del tutto convinta, ma lo tenne per
sé.
Mi basterebbe che niente andasse peggio.
–
Mio fratello Tristan sarebbe
più che lieto se tu volessi venire a stare qui e facessi
come fossi casa tua, e
altrettanto lieto sarebbe di offrirti tutte le prospettive che ha
concesso ai
suoi figli. –
–
Ne sono commossa. –
–
Questo non significa che tu
debba sentirti in qualche modo obbligata a farlo – La mano di
Persefone si posò
sulla sua e la strinse piano. – Sei libera di scegliere,
Regan, e io ti
prometto che nessuno ti costringerà a fare niente. Hai
trovato la tua famiglia,
ed è un gran passo in avanti. Adesso è te stessa
che devi trovare. –
Con
un notevole sforzo, si alzò e
lasciò Regan con un piccolissimo sorriso. Appena prima di
uscire, si voltò e le
disse:
–
Non dimenticare mai che non
sono quattro mura a fare di un luogo la nostra casa, ma le persone di
cui ci
circondiamo. –
Poco
più tardi passò una
cameriera a lasciarle una pila di indumenti per la notte e degli
asciugamani
puliti assieme a una brocca di acqua per rinfrescarsi. Nessun altro
venne a
disturbarla, e lei trascorse la notte sola tra le sue quattro pareti.
A/N: dunque ci siamo, direi. Come qualcuno aveva saggiamente intuito, Regan è una Edelberg. Siamo ormai a pochi capitoli dalla fine e presto anche gli ultimi interrogativi saranno almeno in parte svelati. Vorrei anche giustificare le lunghe tempistiche di aggiornamento: vorrei dare a tutti la possibilità di leggere un capitolo alla volta senza restare indietro, perchè io per prima sono una lettrice e so quanto è difficile aspettare un aggiornamento, ma ancora di più è difficile mettersi in pari quando si ha tanto da fare e magari due o tre capitoli in arretrato. Insomma, mi perdonerà chi ha la possibilità di leggere subito ed è poi costretto ad aspettare, spero non me ne vogliate. :)
Intanto ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo:
Ariana_Silente: non sei stata affatto prolissa, anzi! Hai fatto molte osservazioni di cui andare fiera, perchè hai colto decisamente nel segno! Verle la rivedremo, più avanti, e in effetti aiuterà Regan a capirsi un po' meglio e capire un po' meglio anche il mondo. Per quanto riguarda l'invio del manoscritto... lo so, non dovrei avere paura, anche perchè Harry Potter, la mia saga preferita, è stato rifiutato un sacco di volte prima di essere pubblicato, quindi l'importante è non scoraggiarsi e non arrendersi mai... basta trovare la forza di cominciare! ^^
OdeToSolitude: arriverà tutto quello che ti aspetti, anche se non tutto subito. ;) Grazie mille per i complimenti, sei sempre presente e attiva! <3
jame_love: ti faccio i miei complimenti per l'ottimo intuito per quel che riguarda "LEI", perchè credo che tu abbia capito molto, anche se forse scoprirai che Soile ha perso molto di più di quel che possa sembrare. E anche Anneli, poverina, non è cattiva davvero, è solo un po' infelice e quindi questa infelicità la porta a comportarsi in un certo modo con le persone, ma quando vuole bene a qualcuno, per quanto distaccata possa apparire, è una persona devota e leale. nonostante il suo brutto carattere. :) Spero che tu non pensi davvero di disturbarmi, con i tuoi commenti, perchè invece per me sono come una "paga" in parole anzichè in soldi! Pubblicare su EFP è una sorta di ricerca di comuonione tra lo scrittore e il pubblico: l'uno dà all'altro senza aspettarsi altro che parole in cambio. Quindi direi che ti devo più che altro ringraziare di tutto, a partire dai complimenti e dagli incoraggiamenti! :)
Ci sono poi altre persone che speravo davvero di risentire, perché il loro commenti o messaggi privati mi hanno molto colpita e affascinata, quindi, voi sapete chi siete, fatevi vivi, mi piacerebbe! :)
Per stavolta basta così, vi lascio con un abbraccio e la speranza che lascerete un segno del vostro passaggio, anche solo poche righe, a me fa piacere. :)
Dal prossimo capitolo:
Regan
sedeva sul letto – il suo letto, nella sua stanza.
Erano stati
il suo letto e la sua stanza anche quelli a casa di Lucius, ma ormai
sembravano un
ricordo lontano, anche se solo pochi giorni la separavano
dall’ultima volta che
vi aveva dormito. Non che le dispiacesse abitare nel maniero degli zii
– anzi,
le sembrava quasi di essere quasi tornata bambina, rifugiata in
un’infanzia
ovattata fatta di coccole e premure – ma il distacco da
Lucius non era stato
semplice. Si sentiva come una barca abbandonata in un porto senza una
cima di
sicurezza che la tenesse a riva. Senza di lui, aveva
l’impressione di essere in
balia del destino.