Non mi piace questa
fic ._. L’ho scritta che ero decisamente triste e stavo
ascoltando «Weird
dreams» dei Blind Guardian. C’è qualcosa
proprio nello stile che non mi piace,
però a mia sorella è piaciuta e quindi credo di
doverla postare nonostante
mi fossi promessa di non mettere nulla sul fandom italiano, vergognona
(?) come
sono. Controlla la mia vita, quella mocciosa impertinente!
È tutto molto lento, pieno di virgole per
l’intonazione, e penso che risulterà
noioso ai molti D:
C’è anche citata una canzone di Elbow che mi fa
venire il latte alle ginocchia
per l’ammoreh che fa nascere in me. È possibile?
Va be’. Mi auguro che
possa risultare una buona lettura~
Supersize my
tragedy.
C’è un sogno,
oscuro e singolare, che mi posso permettere solo in certe notti; quelle
notti
fredde in cui l’aria è nera e il silenzio
è quasi sopportabile.
Nel sogno è giorno, e io sono come l’occhio di un
regista: osservo il deserto
roccioso dall’alto, comincio dal quadro generale e accarezzo
i particolari da lontano—so
che è quella la parte importante, i dettagli,
però sono affascinato e quasi
assuefatto alla luce accecante, al paesaggio immobile.
So di aver lasciato qualcosa di incompiuto, qualcosa di fondamentale,
però so anche di non essere in grado di porvi
rimedio, ed è con l’angoscia che continuo la mia
esplorazione visiva.
(Non mi posso
distrarre, i bastardi si nascondono dappertutto.)
Entra nella
scena un villaggio abbandonato durante la guerra: sabbia sulla sabbia e
oggetti
della vita quotidiana abbandonati, probabilmente è stato il
caso di una fuga
improvvisa. La
costruzione che si
solleva sopra le altre è ai margini dello stesso villaggio,
un silos. Non
è altissimo, intorno ai sette, otto metri,
e la struttura non è convenzionale, però sembra
efficace.
In piedi sopra
al silos c’è una figura—un uomo;
è primo pomeriggio ed è girato in modo che il
sole sia alle sue spalle, però su quel viso tenuto
nell’ombra so che esiste un
paio di occhi luminosi.
Occhi chiari e
pungenti, troppo da poterci credere.
Non lo farei se non ricordassi di averli avuti in mezzo alla faccia, un
tempo.
Non riesco ad associarli a un viso, a un nome, però
è un sogno e ho smesso
molti mesi fa di curarmene: in mezzo al deserto
c’è un uomo, quell’uomo è in
cima a un silos e io so che morirà, però tutto
quello che faccio è restare a
guardarlo, e sono allo stesso tempo a terra sotto di lui e al suo
fianco.
Io li ricordo,
quegli occhi, e so che mentono e mi uccidono ogni volta,
però nel sogno è come
se non sapessi nulla e mi faccio ingannare, sono stregato dalla loro
luce e non
vedo niente all’infuori di loro.
A
questo punto, di solito, sono in lacrime e non desidero nulla di
più di
svegliarmi e dimenticare tutto.
C’è un rumore
di sottofondo del quale non mi ero accorto prima—è
come un rumore bianco che
non sono voci e non è musica; aumenta di volume fino a
trasformarsi nel battito
del mio cuore, e lo sento nelle orecchie e nelle ossa così
forte che crederei
di morirne, se non fossi un dottore.
All’improvviso
siamo in città, e la figura che si stagliava insicura e sbagliata nel cielo afgano adesso
è a casa, ed è forte e
bellissima.
Siamo a
Londra, e per le persone è così
importante sapere che l’uomo a terra è
morto, e nessuno nota che negli
occhi aperti c’è ancora il deserto, e mi domando
se la parte di me che era in
piedi con lui sul silos è stata trascinata verso la sua
distruzione a sua volta
oppure se l’ha seguito di propria spontanea
volontà.
In genere a questo punto mi sveglio: fa ancora freddo, però
il sole allunga una
mano nella notte e apre le dita, e il silenzio quasi non si sente
più.
Qualche volta mi assale il panico—non sempre,
perché poi ricordo il sogno, e
gli occhi, e la città, e credo in lui.
Nella mia
mente, ancora non pronuncio il suo nome.
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a
friend of
mine grows his very own brambles
they twist all
around him 'til he can't move
beautiful,
quivering, chivalrous shambles
what is my friend
trying to prove?
- elbow, some riot