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Autore: Callie_Stephanides    26/02/2012    7 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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3.
Parole perdute

Il mio primo giorno di cattività cominciò sul far dell’alba.
Era stata una notte insonne: stretta nelle cocche del mantello di Vinus, avvolta da un odore estraneo, non avevo ancora rinunciato a recuperare la libertà e tanto bastava a dire della mia frustrazione.
Gli occhi del dracomanno non mentivano: non mi odiava, ma avrebbe potuto massacrarmi in qualunque momento senza alcuna remora. A frenarlo, un sentimento in cui non mi riconoscevo più: la gratitudine.
Ero intorpidita, madida di pioggia e sudore terrorizzato.
Vinus mi squadrava dall’alto. Con quei capelli così corti e il torso devastato, chi mai l’avrebbe preso per l’erede di un regno leggendario? Conoscevo mercenari dall’aria più mite.
 
Io stessa, d’altra parte, potevo ancora dirmi una signora?
 
“Avete fatto un buon sonno, Magistra?”
Se solo avessi avuto un po’ di saliva da parte, gli avrei sputato in faccia. Quel che feci, tuttavia, fu distogliere il viso e fissare l’umida desolazione del sottobosco.
Vinus mi diede le spalle. “Dobbiamo riprendere il viaggio. A quest’ora il figlio di Freil potrebbe già essere morto.”
Rimasi in silenzio; la mia determinazione a tacere, tuttavia, non sortì l’effetto sperato: se volevo impressionarlo con una condotta ostile, stavo fallendo in modo rovinoso, poiché l’attenzione del dracomanno era piuttosto rivolta alla bardatura del liocorno.
Detestavo quella bestia orribile e mi ripugnava il suo aspetto, eppure, per la morbosa attrazione che ci cattura quanto più sentiamo i morsi della paura, non potevo fare a meno di guardarla.
Niktos aveva l’imponenza di uno Shire. Le zampe rostrate affondavano nel terreno sgranando la dura rena quasi fosse sabbia. Ogni unghia era lunga quanto il pugnale che Vinus mi aveva sottratto, e altrettanto tagliente; il colore – un giallo malaticcio venato di rosso – solo bastava a nausearmi. Il pelo, raso sulla sommità del muso, si raccoglieva in un curioso ciuffo sotto il labbro inferiore della bestia. Il corno eburneo, affilato e ritorto, era l’unico punto di luce nella tenebra del manto.
Se era vero che i dracomanni domavano da soli il destriero che avrebbero cavalcato in battaglia, la fama di Vinus era molto più di una leggenda.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, si volse a guardarmi: non stornai il capo.
“Avvicinati.”
Potevo resistere, ma tanto mi avrebbe solo esposto all’ennesima umiliazione, perché l’odio non mi aveva obnubilato al punto da non rendere evidente la drammatica verità: a meno di un miracolo, ero alla sua mercé.
Il liocorno brontolò come fui a un paio di passi dal suo padrone. Vinus gli accarezzò il muso. “Immagina che durerà poco, amico mio. Non sarai costretto a sopportare questa femmina a lungo.”
Dischiusi le labbra, ma non riuscii a trovare nessuna replica abbastanza sgradevole da compensare la sorpresa.
“Monta,” ordinò. “Niktos potrebbe cambiare idea.”
Arretrai di un passo. Ricordavo ancora l’odore penetrante del sangue che mi aveva investito, come me l’ero trovato alle spalle; le fauci chiuse come una tagliola sugli intestini dello Shire.
Come poteva chiedermi di cavalcarlo?
Vinus scosse il capo, contrariato, poi mi sollevò senza grazia e mi lanciò sulla groppa del liocorno.
“Stupida donna,” imprecò, prima di montare a propria volta. E di seguito: “Losvorn.”
La lingua di un mondo morto era secca e dura come le genti che l’avevano parlata, respirata, pianta.
Sulla bocca di Vinus, tuttavia, possedeva una forza inaspettata, quasi la sua determinazione a usarla – sebbene in modo clandestino – raccontasse di una speranza che nemmeno l’orrore aveva soffiato via.
Era un’antica lezione, quella, che Leonar aveva tentato di trasmettermi, quando ero ancora innocente e incontaminata.
 
“La memoria parla, Leya. Le parole sono il contrappunto dei ricordi. Finché abbiamo parole per dire, abbiamo un mondo da raccontare.”
 
A dieci anni, quella verità mi pareva un sofisma.
A quasi due decadi di distanza, cominciavo a intravederne il senso.
 
Niktos divorava lo spazio come nessuna delle cavalcature in uso a Eleutheria: il suolo si sfaldava sotto gli unghioni in una nube di sottilissimo pietrisco, mentre le rovine di una terra devastata svanivano inghiottite dalla bruma.
Man mano che ci avvicinavamo alla faglia, la temperatura s’inabissava. Vinus si tirò il mantello fin sul capo, scomparendo del tutto alla mia vista. Stretta tra il suo corpo e la densa criniera del liocorno, non pativo il freddo, ma il gelo dell’inquietudine bastava a farmi tremare.
Non avrei mai immaginato di spingermi tanto a Nord, non certo sino alla cinta dei Lytha: invece eccolo là, il naturale confine da cui tutto era cominciato; eccola, la trincea che separava la Terra Cognita dall’orrore dell’Icengard.
 
Assediate da cirri nerastri, rade stelle si riflettevano sulla crosta traslucida di colossi poderosi, schierati come sentinelle al limite di un mondo che scoprivo per la prima volta quel giorno.
Nemmeno la più dettagliata mappa del Collegio avrebbe potuto restituirmi lo stupore di una simile maestà; non certo, almeno, la sensazione di sgomento che mi colse nel pensare che non ero diversa dalla regina di un ridicolo formicaio: volevo comandare alla Storia ed ero ferma al primo capoverso.
 
“Accampiamoci qui. Non possiamo tentare il valico durante la notte.”
 
La voce di Vinus mi riscosse. Non comunicavamo da ore, eppure cominciavo ad abituarmi alla ruvida carezza dei suoi toni: nel silenzio di una notte desolata, era l’ultimo brandello d’umanità cui potevo ancorarmi.
Smontò dal liocorno e mi tese la mano. La accettai riluttante, ma l’accettai comunque, arresa al bisogno di ritrovare la terra sotto i miei piedi.
Mi dolevano tutti i muscoli e il mio stomaco, vuoto da troppo tempo, urlava. Il principe di Lephtys, invece, non tradiva né inquietudine, né fatica. Quanto al liocorno, la prima cosa che fece, come ebbe la groppa libera dal nostro peso, fu piegarsi sui garretti e irrorare il suolo sterile con un poderoso getto d’urina.
“Ma che…”
Vinus rise del mio disgusto e m’invitò, piuttosto, a imitarlo.
“Credi che io sia una bestia come…”
Sorrise: maligno, o forse solo divertito.
 
Ero un ridicolo pulcino senza cresta che tentava di passare per gallo. C’era forse qualcosa di più grottesco?
 
“Non sei abbastanza intelligente,” fu la replica con cui mi liquidò, prima di sfilare la spada dal fodero e inoltrarsi tra licheni e pietrisco. “Aspetta… Non…”
Stavo per domandargli di non lasciarmi sola: per mia fortuna, m’interruppe.
“Non seguirmi. Non vuoi sapere davvero cosa ci aspetta. Resta accanto a Niktos: ti proteggerà.”
“Oh, lo immagino! A meno che non abbia fame!”
Vinus si strinse nelle spalle. “Non credo: ha un palato raffinato e le ossa non lo interessano.”
Schiusi le labbra, ma mi prevenne ancora.
“Un’altra parola e potrei prendermi il disturbo di assaggiarti.”
Non ero nelle condizioni di mettere in dubbio la serietà delle sue intenzioni: mi raggomitolai a terra e mi chiusi in un rancoroso silenzio.
L’aria era gelida e immobile. Mi strofinai le spalle, mi rialzai e cominciai a camminare in tondo, per combattere il freddo e la noia. Talora il liocorno mi soffiava addosso, quasi a ricordarmi che era una sentinella affidabile.
Il suo fiato puzzava di carne marcia e sangue rappreso: era l’odore che i miei uomini respiravano sul campo di battaglia ed io non ero mai arrivata nemmeno a immaginarlo. A fiutarla, invece, la guerra non aveva il buon profumo che mi ero illusa di cogliere.
“Stammi lontano,” brontolai, schiava degli occhi di un predatore in cui non avresti mai colto la maligna follia che troppe volte avevo spiato nello specchio.
Niktos era feroce, perché quella era la sua natura: io avevo fatto una scelta e si era rivelata un budello senza uscita.
Il liocorno scrollò la lucida criniera; se avesse posseduto il dono della parola, quello sarebbe stato, probabilmente, lo ‘stupida femmina’ del suo padrone.
Sorrisi senza motivo e me ne sorpresi: cosa c’era di divertente, in quella situazione?
Avrei dovuto chiedermi, piuttosto, come fosse possibile che ricordassi cosa fosse un sorriso.
 
Quando Vinus tornò, ero ancora intera ma intirizzita ed esausta.
“Potevi accendere un fuoco. Pietre e muschio secco non mancano di certo. Oppure la Signora degli Specula non sa come fare?”
Strinsi i denti e inghiottii anche quell’umiliazione.
Vinus si muoveva disinvolto nel buio; ogni suo gesto aveva la fluidità dell’abitudine e la sicurezza dell’esperienza. Aveva dieci anni, quando il freddo e la notte gli erano crollati addosso: ora era un maschio nel pieno della potenza offensiva della sua razza; un maschio che, nella notte, guardava anche con gli occhi della memoria.
All’improvviso richiamò il liocorno e gli lanciò qualcosa che mi strappò uno squittio ridicolo.
“Cos’è? Lo volevi tu? Guarda che il fegato di viverna è velenoso.”
Un sibilo spezzò il silenzio della notte, seguito da un sordo frusciare.
Vinus, imperturbabile, accese il fuoco.
“Vuoi dire che qui intorno…”
“Che cosa ti aspettavi? L’ingresso della faglia dista meno di una lega. Questa è la terra dei Falesi.”
Vinus aveva abbandonato la spada e lavorava ora con il pugnale il quarto sanguinolento di una bestia che non avrei saputo identificare – o forse preferivo non farlo. A tratti leccava il sangue rappreso sulla lama: era disgustoso, eppure sensuale; c’era, nei suoi gesti, una forza primordiale che avevo solo sfiorato.
“Non preoccuparti: per te c’è questo.”
Una vecchia lepre macilenta mi parve all’improvviso quanto di più invitante fosse mai stato imbandito in un banchetto, e il mio stomaco, provato dal lungo digiuno, tenne a mostrare un rumoroso apprezzamento.
Chinai il viso, imbarazzata da quel mio essere umana, troppo umana, quando, piuttosto, volevo stupirlo con la mia eccezionalità. Era evidente avessi un’opinione troppo alta di me stessa.
Vinus spellò la preda e l’arrostì per me, ma non ricevette nemmeno un ‘grazie’ stentato da parte mia: come l’odore della carne colpì il mio olfatto, mi ci avventai con la voracità di un liocorno.
“Attenta a non strozzarti,” sogghignò il dracomanno, poi si concentrò sul proprio pasto.
Stornai lo sguardo, perché nessuno avrebbe mai potuto dire che fosse uno spettacolo piacevole.
“Mangi come una bestia,” mugugnai, ma il mio disprezzo non parve toccarlo. “Nemmeno Rael divorerebbe mai…”
Vinus si portò la borraccia alle labbra e bevve un generoso sorso d’acqua, poi me la offerse, quasi fosse scontato che non provassi ripulsa all’idea dei condividerla.
“Quando nutrirsi non è un problema, puoi prenderti il lusso di giocare con il cibo.”
“È davvero carne di viverna?”
Vinus annuì.
A una prima occhiata non me n’ero accorta, ma la divorava con metodo: separava la pelle scagliosa dalla polpa, poi affondava i denti in quest’ultima, suggendo il grasso prima di aggredire i tendini.
“Sembra… Disgustosa.”
Il principe di Lephtys si pulì le labbra con il dorso della mano e tornò a guardarmi. Forse cominciavo ad abituarmi ai suoi occhi, come negli anni avevo preso a considerare le iridi di mio fratello del tutto ordinarie; forse era davvero bello come mi era parso la prima volta.
Arrossii fino alle orecchie, quasi fossi ancora la Leya che non ero più da secoli: una ragazzina piena di sentimenti.
“In tutta onestà, preferisco il cervo, ma dubito che ne troveremo.”
Raccolsi le mani in grembo e mi concentrai sul fuoco, per non correre il rischio d’incontrare il suo sguardo.
“I miei uomini non ti cercheranno,” dissi all’improvviso. “Eleutheria mi ha abbandonato.”
Vinus riattizzò le braci con la punta della spada – se ne separava di rado, e mai troppo a lungo.
“Potrebbe darsi, ma è più probabile che siano già morti tutti.”
“Che vuoi dire?”
Non volevo che la mia voce tremasse, ma il tono tradiva appieno la mia inquietudine.
“Koiros si è stancato di voi, di noi, di tutti… Abbiamo smesso di rappresentare un trastullo.”
“Trier sa come combattere e tu dovresti saperlo.”
Mi scoccò un’occhiata ironica. “Se Trier vuole avere qualche speranza, è meglio che apra le porte al figlio di Freil. E, anche in quel caso, non durerà che un paio di giorni.”
“Rael tornerà a casa?”
“Lo farà. Se i tuoi uomini non sono dei pazzi, lo asseconderanno. Se i miei conoscono Koiros come credo, combatteranno con lui e per lui.”
“Allora… A cosa ti servo?”
Tornò a giocare con il fuoco. Minute scintille correvano lungo la lama e ne ravvivavano l’anima scura. “Te l’ho detto: sei il mio salvacondotto. Per raggiungere il Norn, dovremo costeggiare la piana di Mizar, procedendo verso oriente. Se gli uomini di Koiros m’intercettassero, potrò sempre dire d’essere scampato all’esecuzione e di aver portato con me la Magistra di Trier.”
Serrai i pugni con tanta violenza da sentire la mandorla dell’unghia ferire la carne.
“E la promessa che hai fatto a Rael?”
“Hai condannato a morte tuo fratello e ora ti appelli al suo affetto?”
Fu una pugnalata in pieno petto, ma il mio egoismo andava ben oltre il dolore della verità.
“Quel che mi lega a Rael, non è affar tuo. Ho comunque agito nel rispetto delle nostre leggi!”
Vinus sollevò la spada e ne fissò la punta acuminata. “Sono state le vostre leggi a condannare l’Eumene e ancora le difendi?”
“Che vuoi dire?”
“L’armata che distrusse Venusya reclutò numerosi eleutheridi, non lo sai?”
Non trovai alcuna valida replica da opporgli.
“E mio padre, invece, s’illudeva che ci avreste aiutato, perché un mondo popolato dai Falesi, che deserto sarebbe stato?”
Si rivolgeva a me, ma non ero certa d’essere l’interlocutore che cercava. Naufragava nella memoria, Vinus: negli occhi del cucciolo incatenato che aveva dimenticato di essere un principe seguendo una coda mozza.
“Eravate i nostri nemici più pericolosi, perché mai avremmo dovuto aiutarvi?”
Vinus abbassò la spada e me la puntò al petto. “Se anche volessi cavarti il cuore, non troverei niente.”
Aveva torto, perché quelle parole mi ferirono come mai avrei creduto.
 
Un denso silenzio ripiombò su di noi: quando Vinus mi lanciò il solito mantello, compresi che anche per quel giorno il canale della comunicazione reciproca si era chiuso.
Avevo speso male le parole che mi aveva concesso: agli occhi di chi aveva perso la propria lingua, era il più imperdonabile dei crimini.

   
 
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