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Autore: Callie_Stephanides    04/03/2012    6 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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4.
Buon sangue

La faglia dell’Icengard era una bocca slabbrata; la costeggiammo che la stella aveva appena fatto capolino dal suo sudario di nubi, ma quella luce fioca e malaticcia non bastava a ingentilire quanto i miei occhi registravano.
La foresta che invadeva le pendici dei Lytha e che s’infittiva a oriente, era ancora un paesaggio familiare: raccontava di una terra aspra e avara, ma pur sempre terra. Il pozzo nero che ci trovammo davanti, al culmine di un altopiano roccioso, coperto di licheni giallastri, non richiamava alcun ricordo. Poiché non c’era una parola per descrivere quanto i miei sensi registravano, fu Vinus a offrirmela.
Næch,” sussurrò.
Era un suono gutturale, simile all’alitare del vento nell’abetaia. Lo guardai. Non mi parlava da giorni e la sua voce mi mancava: era il mio compagno, il mio carcere e il mio carceriere.
Era anche la chiave della gabbia in cui mi ero rinchiusa, e cominciavo a rendermene conto.
“La mia gente la chiamava così.”
Mi strinsi nelle cocche del mantello, mentre il dracomanno abbandonava il liocorno. Volevo imitarlo, ma me lo impedì: continuava a proteggermi, benché fossi sua nemica.
“Non è la prima volta che passi da queste parti, vero?”
Il tono tradiva noncuranza; i miei occhi, invece, non riuscivano ad abbandonare la linea forte di quelle spalle, oltre la protezione di lana e pelliccia. Le sue dita, strette alle redini, guidavano con sicurezza il liocorno lungo i bordi di una cicatrice di terra e ghiaccio.
“Sono cresciuto qui,” fu l’asciutta replica. Disse ‘cresciuto’, non ‘addestrato’, anche se il secondo termine sarebbe stato più adatto.
Chi avrebbe chiamato ‘casa’ un posto simile? Forse solo chi non aveva più nulla da perdere o chi aveva già perso tutto.
Bel posto, pensai, ma evitai di fare commenti.
 
Vinus non accoglieva le mie provocazioni e tanto aumentava la sensazione di vulnerabilità che sperimentavo al suo fianco. Non solo ero del tutto indifesa davanti a una forza come la sua, ma percepivo la superficialità pericolosa del mio sapere.
Potevo accettare d’essere donna e inferiore fisicamente, ma sentirmi stupida… Be’: per la Magistra di Trier era una piaga dolente.
 
“Che vuol dire?”
Næch? Non esiste una traduzione nella lingua di Eleutheria, né nel dialetto delle Midlands.”
“Però voi l’avevate.”
“Per chiamare le cose, devi vederle.”
Ancora un punto a suo favore: accusava la pigrizia della mia gente; la comoda felicità che ti nasceva dal vivere in terre benedette dalla dea senza mai un fremito o un’ambizione di conoscenza degna di questo nome.
“Forse ho capito perché mi stai trascinando con te.”
Nei suoi occhi si accese la debole scintilla della curiosità.
“Sono il colatoio delle tue recriminazioni; un’Eleutheria di carne da torturare con il sarcasmo.”
Vinus scosse il capo e sorrise. Un sorriso vero.
“Potrebbe anche darsi: non sei del tutto stupida, in fondo.”
“Lusingata per il vostro apprezzamento, principe.”
Senza quasi rendermene conto, su quell’ultima parola trattenni il fiato. Era un passo falso e me ne accorgevo tardi. Volevo essere ironica, ma, data la natura dei nostri confronti, era più plausibile che credesse a un insulto. L’ultima volta in cui l’avevo apostrofato con il titolo di nascita, in fondo…
E Vinus mi stupì: con insospettabile grazia, mi omaggiò di un mezzo inchino, prima di riportare lo sguardo alla faglia.
Gliene fui grata, perché non avrei tollerato quegli occhi un istante in più.

*

L’Icengard correva al nostro fianco come una fenditura dell’orizzonte, più che del semplice spazio fisico. L’illusione nasceva dalla coltre nebbiosa che saliva dalle sue inaccessibili profondità, ma la ragione autentica, a mio avviso, stava nella sensazione d’inquietudine che un simile paesaggio inoculava.
Quello era il… Niente. Ecco: niente.
Mi sorpresi a pensare al principe di Lephtys, non al guerriero d’oltre sei piedi che guidava con sicurezza il liocorno lungo la fenditura, ma al bambino che vi era stato trascinato assieme ai sopravvissuti di un olocausto.
Come sopravvivevi?
 
Dopo il disprezzo, incredula, scoprivo il rispetto: lo temevo ancora, ma cominciavo ad ammirarlo. Non potevo perdonarlo, eppure lo comprendevo.
Rispetto a quella che avevo patito, la mia era una perdita ridicola.
 
La marcia proseguiva senza soste.
Su quella terra maledetta, la stella non brillava, né scaldava.
Niktos, teso e irritabile come non mai, piantava sovente le unghie nel terreno, opponendo una ferma resistenza alle sollecitazioni del padrone.
“Che gli prende?”
“Li sente. Ci stanno aspettando.”
Aprii la bocca, ma un rantolo si sostituì alle parole che non avrei trovato comunque: a qualche passo da noi, come un muro compatto, stava ora una massa lattiginosa in cui, a fatica, avresti distinto i singoli individui.
“Non farti impressionare… Sono Superi delle rocce.”
Socchiusi le palpebre e mi sforzai di decifrare l’anatomia di creature su cui lo sguardo pietoso di Dendre non si era senz’altro mai posato.
Procedevano compatte, quasi non possedessero un corpo ciascuna; la pelle, tra lo scaglioso e il bubbonico, pulsava. Se possedevano occhi, non erano visibili, poiché non avevano un volto da chiamare tale: l’unico dettaglio rilevante dell’anatomia erano le bocche, colme di denti lunghissimi e sottili come aghi.
Vinus abbandonò le redini e sguainò la spada.
 
La maggior parte dei soldati che avevo visto combattere – Rael per primo – doveva usare entrambe le braccia per sostenere la lama. Solo le nuove armi di glythanium, introdotte con il mio magistero, consentivano agli uomini d’usare una sola mano per guidare il fendente, ma non era uno stile che avresti potuto usare a lungo, poiché il carico sulle articolazioni era tale da sfibrarle.
La spada di Zauror era adamanto puro e, data la lunghezza, doveva pesare almeno due volte un adulto di media corporatura: anche ad abbassare il baricentro sino a sfiorare terra e a usare tutta la mia forza, non sarei nemmeno riuscita a sollevarla.
Tra le mani di Vinus pareva una piuma, tale era la naturalezza con cui la maneggiava.
C’era cresciuto attorno, letteralmente: quella era la prova della sua eccezionalità.
 
“Non ti muovere,” ordinò e corse incontro ai nostri ospiti.
I demoni dilatarono le fauci ed estroflessero quella che doveva essere l’autentica testa: un pugno di carne molliccia, poco più di un peduncolo, sormontato da un unico occhio, che culminava con la tagliola delle zanne.
Dalle torri di Trier credevo di aver visto la feccia della Creazione militare al fianco di Vinus, ma ero ora costretta a rivedere le capacità profetiche della mia immaginazione: ne avevo troppo poca.
Il principe di Lephtys li aggredì procedendo lungo una netta diagonale. Il filo della lama s’incuneò tra le ganasce d’uno dei Superi all’estremo della fila e sezionò l’intera avanguardia con precisione geometrica.
Una pioggia di quei denti simili a lame sciabolò l’aria e andò a conficcarsi poco lontano dal punto in cui si trovava il liocorno.
“Raccoglili,” mi impose Vinus, senza voltarsi. “Contengono abbastanza veleno da poter essere usati come dardi per cacciare.”
Meraviglioso, pensai. Proprio quello che volevo sentirmi dire per essere rassicurata.
Dubito, tuttavia, che al principe di Lephtys interessasse il mio stato d’animo: non certo mentre un Supero lo artigliava alle spalle e affondava le zanne nella polpa scoperta del collo.
Uno spruzzo di sangue eruttò dalla lacerazione; senza pensare, afferrai uno dei denti che avevo raccolto e lo piantai nel dorso bubbonico della creatura. Il mostro liberò un grido tanto acuto da stordirmi, ma non ricevetti altri danni, poiché Niktos ne recise il capo con un morso.
Per essere una squadra che nemmeno un dio ebbro avrebbe osato immaginare, possedevamo una discreta capacità offensiva.
“Bel colpo,” mormorò Vinus, puntellandosi sulla spada. Nonostante la brutta ferita, era di nuovo pronto a combattere e la sua follia non mi sorprese. Conoscevo quella determinazione per averla già apprezzata in Rael: i dracomanni erano testardi come muli e avevano l’istinto di sopravvivenza di una falena. Sul campo di battaglia, almeno, non contemplavano l’ipotesi di una ritirata.
 
Pensa, Leya, pensa.
 
Se appena un pugno di settimane prima avessero preconizzato che avrei combattuto al fianco di Vinus e solo per salvargli la pelle, avrei riso sino a perdere il fiato.
Sul ciglio di una bocca nera, davanti alla minaccia dei Falesi, ridere era l’ultimo bisogno che potesse soccorrermi.
 
Mi avventai sul tascapane che pendeva dalla sella di Niktos, troppo sorpreso dalla mia irruenza, forse, per ringhiarmi contro. C’erano una boccetta d’olio e pietre focaie: mi sarebbero bastate.
Pregando Dendre e il genio di mio padre, mi accanii sul nido di rametti e licheni che avevo affastellato alla rinfusa, sino a ottenere una ridicola fiammella. Solo quando vi versai l’essenza resinosa, disegnando un’invisibile linea che moriva in una macchia stenta, abbastanza discosta dalla foresta da evitare il rischio di un indomabile incendio, il fuoco divampò come un muro.
Le creature sopravvissute alla spada di Zauror arretrarono con un sibilo sinistro. Vinus, intuito il piano, attraversò la barriera e si portò al mio fianco. Oltre il velo delle fiamme, i Superi si trattennero per un poco, fluttuanti come fuochi fatui, poi svanirono nella nebbia.
“Siamo al sicuro?”
Il principe di Lephtys annuì, prima di cadere in ginocchio. Continuava a perdere sangue e la pelle, là dove si aprivano gli orli slabbrati della ferita, stava assumendo una sfumatura cancerosa.
“Dov’è il mio pugnale?”
“Se è per darmi il colpo di grazia, ti assicuro che…”
“Vuoi continuare a sprecare il fiato e crepare come un cane, o mi concedi l’onore di allungarti l’agonia?”
Cercò nei miei occhi la menzogna, ma non trovò niente: solo l’ostinazione di una donna che aveva un pessimo rapporto con la Mietitrice.
“Chiedi a Niktos. Chiedigli il permesso di frugare il sottosella.”
Roteai gli occhi. “Chiedi alla bestia… Siamo alla follia.”
 
Ma cos’eravamo, noi, se non quello?
Un ossimoro.
Uno scherzo.
Un miraggio.
 
Il liocorno raspava il suolo e reagì alla mia carezza con un ruggito che mai avresti detto affettuoso.
“Senti… So che non ti piaccio e, credimi, nemmeno tu piaci a me, ma ho bisogno del pugnale e il tuo padrone…”
Il mio monologo fu spezzato da un ansito sordo: Vinus stava ridendo – quella, almeno, era l’intenzione.
“Non posso crederci… Lo stai facendo sul serio.”
“Fare… Cosa?”
Tentò di rialzarsi, ma le gambe non lo assecondarono. Doveva essere pieno di veleno, eppure non rinunciava a quel detestabile sarcasmo.
“Stai davvero parlando con il liocorno?”
“Ma sei stato tu… Oh, che tu sia maledetto!” imprecai, decisa a sfidare la bestia.
Vinus, tuttavia, richiamò Niktos con un fischio e recuperò per me una lama che mai avrei stretto senza rimetterci almeno un paio di dita.
“Potevi farlo subito,” dissi, mentre mi inginocchiavo al suo fianco.
 
Gli occhi di Vinus erano colmi di un misto di curiosità e scetticismo: non si fidava di me, ma conosceva il gusto delle scommesse azzardate.
Fu per questo, immagino, che alla fine mi amò senza riserve.
 
“Ti farà male, ma so quello che faccio,” borbottai, prima di arroventare la lama e allargare i lembi della ferita.
Il principe di Lephtys non si concesse nemmeno un sussulto.
Aveva perso molto sangue, dunque era possibile che parte del veleno fosse già stata espulsa; quanto restava, tuttavia, doveva essere sputato fuori.
Sembravano trascorsi eoni dai giorni in cui seguivo le lezioni di Lyra e apprendevo l’arte di guarire, anziché quella di rubare la vita. La memoria era appannata, ma il corpo ricordava – oppure era quel corpo a risvegliare in me una Leya sopita.
Premetti le labbra sulla sua carne e cominciai a suggerla.
La mia bocca era piena del suo sangue; la mia testa, piena di niente.
“Di miracoli non ne prometto,” dissi, mentre stracciavo l’orlo di una camicia ormai impresentabile per ricavarne una benda. “Ma hai la pelle dura. Te la caverai.”
 
Vinus sorrise: lo sentii, prima ancora di vederlo.
Me lo sentii addosso, come una carezza.
 
“Pensavo che fossi un passero, invece sei un’aquila.”
Sollevai il viso. “È un complimento?”
Vinus cercò il sostegno della spada per rialzarsi, poi mi tese la mano. La strinsi senza chiedermi se fosse giusto; se non fosse incoerenza, la mia, o un imperdonabile tradimento: i marosi del cuore si erano trasformati in un’imprevista bonaccia.
 
“Dobbiamo trovare un rifugio per la notte: torneranno con i rinforzi.”
“Temevo che l’avresti detto,” risposi, carezzando distratta il muso del liocorno.
Niktos rispose con un brontolio chioccio e una lappata che mi coprì di tiepida bava.
“Gli piaci al punto che rinuncerà a mangiarti, suppongo,” sogghignò Vinus.
 
Cercavo un insulto da lanciargli, invece risi: e quel suono mi sorprese.
Era autentico.
Era vivo.
 
Vinus mi aiutò a montare in sella, afferrò le redini e strinse le cosce ai fianchi del liocorno.
Il suo braccio mi cingeva la vita e mi dava la sicurezza e la stabilità che niente aveva più avuto dal giorno della pira.
Losvorn,” sussurrò, tanto vicino al mio orecchio che potei sentire il calore del suo respiro.
Chiusi gli occhi e, per un pugno d’istanti, tutto quel che avvertii, fu il rombo di un cuore impazzito.
Il mio.

*

Ci addentrammo nel folto della foresta, determinati a ridurre al minimo le soste.
Non incontrammo vita, ma la sentimmo comunque, perché quello era un regno in cui le forme non avevano l’aspetto che conoscevo e persino il respiro sapeva di veleno.
 
Se i cavalli erano il mezzo meno adatto a sfidare i boschi, come intuiva qualunque soldato dotato di buonsenso ancor prima che d’esperienza, il liocorno si muoveva con agilità sorprendente: i rostri penetravano il terreno molle e gli consentivano di evitare con facilità gli ostacoli, senza ridurre di molto la velocità.
La presa di Vinus sui finimenti era salda: aveva bisogno di riposare, ma annichilì sino all’ultimo l’urgenza.
 
Ci accampammo che una pallida falce di luna già cedeva alle prime bave della cupa alba del Nord.
Vinus accese il fuoco e si sdraiò. Forse non gli avanzava più l’energia per fingere d’essere invulnerabile; forse aveva smesso di considerarmi un ostacolo o una minaccia.
Lo imitai, curandomi di mantenere quella distanza di sicurezza che, tra noi, diveniva di giorno in giorno più ridotta.
“Cos’è un Supero?” gli chiesi, perché le parole erano l’unica arma in mio possesso per vincere il disagio.
Vinus si puntellò su un gomito e riattizzò il fuoco. “Si chiamano così i demoni dei cerchi superiori della Faglia, le creature più vicine alla superficie e più primitive.”
“Non ne ho mai sentito parlare, prima.” “Un lusso da terre calde.”
“L’ignoranza non è mai un lusso, ma un prezzo che si paga carissimo.”
Vinus annuì. “Lo diceva anche il vecchio Mael,” sospirò, e aggiunse: “Il mio Magister, quando ne avevo ancora il diritto.”
Esitai un poco, poi la curiosità vinse la prudenza. “Com’era… Essere il principe degli ophelidi?”
“Un onore e una prigione.”
Vinus guardava il fuoco, non me.
“La prima volta in cui ho visto la stella, fu quando Koiros distrusse Lephtys. Fino a quel giorno, non ero mai uscito da palazzo. Potevo solo immaginare quel che c’era fuori; potevo studiarlo, ma non vederlo, né sentirlo sulla mia pelle.”
“Cosa?”
“Ero il principe e non avevo colore, come il dio Amon: una combinazione straordinaria, che andava difesa con ogni mezzo; un privilegio, tuttavia, di cui avrei fatto a meno.”
“E come…”
“Come ho fatto a sopravvivere?”
 
C’era una punta d’ironia nella sua voce, ma non era studiata per ferire. Eravamo vicini, in quel momento, come mai prima: la bambina bruttina e prepotente dalle trecce fulve offriva la mano a un principe di neve.
 
“È una buona domanda: a volte me lo chiedo anch’io. Credo di dovere molto a chi mi ha generato, come al padre di Rael.”
“L’hai conosciuto?”
“Freil è stato uno dei miei maestri d’armi.”
Mi uscì un’espressione, al contempo, stupita e stupida.
Vinus rise di gusto. “Tuo fratello gli somiglia: è buon sangue.”
 
Furono le ultime parole che mi rivolse, poi mi lanciò il mantello e si accoccolò accanto al fuoco.
Il sonno, tuttavia, non voleva darmi la sua benedizione.
Rimasi ad ascoltare il crepitare delle braci per un tempo che mi parve infinito, prima di decidere che non sarei mai riuscita ad addormentarmi e che tanto valeva montare la guardia al bivacco.
Stretto alla spada, Vinus tremava in modo evidente.
Mi avvicinai cauta, strappando un ringhio al liocorno.
“Buono, tu,” sussurrai, “non voglio fargli del male.”
Mi stesi accanto al principe di Lephtys e usai il mantello per coprire entrambi.
 
Le donne nascono per scaldare gli uomini, mi aveva detto una volta Luthien. Eppure qualcuna è così stupida da farsi bruciare.
 
Chiusi gli occhi.
Il mio cuore era già cenere: non avevo più niente da perdere, in fondo.
Credevo.
 
Fu solo allora, accanto al nemico, che il sonno venne: profondissimo e senza sogni.

   
 
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