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Autore: HarryJo    05/03/2012    6 recensioni
Riccardo è un ragazzo come tanti altri.
Diciotto anni, discretamente bello, bravo a scuola e tremendamente appassionato di musica. A dispetto di ciò che continuano a suggerirgli i suoi genitori, lui continua a suonare la sua bellissima Fender Stratocaster e a fare dei piccoli concertini per dimostrare a se stesso la sua bravura. Un giorno accetta una proposta della scuola: suonare in occasione della giornata della memoria, ma all'ultimo minuto Giacomo, il suo batterista, è costretto a dare forfait perché è ammalato.
Riccardo, pur di non lasciarsi sfuggire l'occasione, chiederà ad Elena, una ragazza che nemmeno conosce, di sostituire Giacomo in quel concerto. I due ragazzi diventeranno subito amici.
Elena porterà Riccardo a conoscere una realtà della vita che lui non aveva mai avuto occasione di conoscere, costernata da dolore, fatica, lavoro e sacrifici, senza mai perdere il sorriso.
« Potresti suonarle oggi alla conferenza col suo gruppo? Il loro batterista si è ammalato » continuò la ragazza bionda, indicandomi. Ma insomma, non potevo fare io qualche domanda? Mi davano estremamente fastidio le persone che parlavano di me come se non fossi lì presente accanto a loro.
Elena si rivolse direttamente a me, come se mi avesse letto nel pensiero.
« Chi sarebbe il vostro batterista? »
« Giacomo Grimaldi » risposi con un fil di voce.
« Ok. E vi va bene come suona? » si informò, per non capivo quale motivo.
« Sì » risposi.
« Bene. Se ti serve una mano, io ci sto » mi disse, e vidi i suoi occhi inumidirsi per un secondo. O forse era solo una mia impressione.
Acconsentii.
Dopotutto, che altro avevo da perdere? O lei, o nessun altro.
Quel giorno la incontrai per la prima volta.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9

 

Nero

 

 

Oh, the pictures have

All been washed in black

Tattooed everything…

Black – Pearl Jam

 

 

 

Dopo pochi giorni Sofia partì in gita scolastica. La sua classe sarebbe andata per cinque giorni a Parigi, mentre noi saremmo andati a Londra qualche settimana più tardi.

Se devo dire qualcosa di quei cinque giorni, sono sicuro che non mi soffermerei troppo sulla mancanza di Sofia, perché non la sentii molto. Furono cinque giorni all’insegna di verifiche, studio, musica, e… Elena.

Quasi tutte le volte mi avviavo verso la sua classe durante le ricreazioni perché volevo vederla, scambiarci due chiacchiere, a proposito di qualsiasi cosa. Era un riflesso incondizionato che non sapevo contrastare, le mie gambe mi portavano verso di lei senza che io potessi fare nulla per impedirlo. La cosa assurda è che, quando mi trovavo a pochi metri dalla sua aula, improvvisamente cominciavo a sentirmi stupido e ritornavo in classe mia, senza vederla. Stando ai pensieri di Giacomo ero preoccupante.

Proprio l’ultimo giorno di gita di Sofia, il venerdì, successe probabilmente una delle cose più belle che mi potessero accadere. Ero arrivato ormai di fronte alla porta dell’aula di Elena, e come al solito stavo già cominciando a retrocedere, quando lei uscì e mi vide. La sua voce mi raggiunse le orecchie con il suono della musica più dolce che conoscessi.

« Riccardo! »

Mi voltai a guardarla, sperando di non essere arrossito, e le sorrisi lievemente. « Ehm, ciao ».

« Cosa ci fai qui? » Si avvicinò a me e non potei fare a meno di notare quanto belli e grandi fossero i suoi occhi.

« Io… Qui… Ti cercavo » ammisi, senza riuscire a trovare una scusa migliore da dirgli.

« Oh » si sorprese, « e perché? Qualche problema? » Sembrava quasi preoccupata. L’idea che Elena si preoccupasse per me mi fece diventare all’improvviso più contento e sicuro di me.

 « No, nessun problema » mormorai. Non sapevo che dirle: perché l’avevo cercata? Perché in quei giorni sembrava che volessi solo lei di fianco a me? La risposta era chiara dentro la mia mente: per parlare un po’. Perché mi mancava la sua voce, perché volevo assicurarmi che stesse bene. Ma di certo non potevo dirle niente del genere; quei pensieri dovevano rimanere oscuri a tutti se non a me. Li sentivo sbagliati.

Elena continuava a osservarmi attendendo una risposta, e cominciai a perdere anche quella poca sicurezza che ero riuscito a conquistarmi negli ultimi secondi. « Mi chiedevo se… Cioè, oggi tu rimani a pranzare a scuola? »

Si irrigidì un momento. « Sì ».

« E poi resti qui per tutto il pomeriggio? »

« Solo un paio di ore ».

Mi cominciai a guardare le dita delle mani, nervoso. Non sapevo da dove mi stavano uscendo quelle parole – di sicuro non dal cervello – né di quanta stupidità fossi in possesso in quel momento per pronunciarle. « Mi domandavo se magari ti andava di venire a mangiare da me invece di restare qui. Poi potresti fare i compiti a casa mia, magari parliamo un po’ e se serve ti riporto a casa io… » Abbassai notevolmente il tono della voce. « Se puoi e se vuoi… »

« Oh ». Elena rimase in silenzio per qualche secondo e temetti di aver fatto l’ennesima figura da idiota. « Non lo so, non voglio disturbare. E poi dopo devo andare a casa, oggi mio padre ha detto che dobbiamo lavorare, sai… » arrossì violentemente fino a diventare dello stesso colore della maglia bordeaux che indossava.

« E se venissi con te? »

Sgranò gli occhi, e nello stesso istante li sgranai anch’io rendendomi conto di cosa avessi appena detto. « Cosa? »

« Potrei provare a venire a darti una mano » spiegai, incerto. « A lavorare sulla casa. Sempre se tuo padre è d’accordo. E tu chiaramente. Se vuoi. Mi piacerebbe poterti aiutare ». Mi sembrava di aver perso la capacità di fare un discorso logico compiuto e finito mentre parlavo – probabilmente era davvero così.

« Nessuno mi ha mai… chiesto una cosa simile » rispose, quasi come se fosse senza fiato. Azzardai alzare gli occhi e guardarla, sembrava stupefatta e senza parole. « Mi… Mi farebbe piacere, sì » ammise. « Ma non voglio che tu venga se non te la senti, non è un bello spettacolo, e poi penso che mio padre non sarebbe gentile con te solo perché non sei suo figlio. Ti farebbe sgobbare come me senza ritegno e comincerebbe a dirti un sacco di parole per ogni cosa che non gli va bene, quindi io ti consiglierei di pensarci bene prima, perché potresti detestarlo e non voglio rovinarti la giornata ». Parlò tutto d’un fiato e sembrava non voler accennare a smettere. Evidentemente non ero l’unico a provare imbarazzo in quel momento.

« Tranquilla » annuii debolmente, senza capacitarmi di ciò che stava succedendo. « Sono abituato ai rimproveri e poi lo faccio volentieri se è per aiutare te ».

Rimanemmo in silenzio per un po’ a guardarci, entrambi senza saper cosa dire. Però sentivo che, mentre le volte precedenti il Silenzio ci aveva fatto visita distruggendoci e caricandoci di un peso troppo grande, ora sembrava volerci solo far compagnia. Elena sorrise.

« Grazie, Riccardo. Non so perché lo fai, ma… grazie ».

Avrei voluto dirle che nemmeno io sapevo perché lo stavo facendo, ma mi limitai a ricambiare il sorriso mormorando: « Di nulla ».

La campanella, poi, ci salvò. Quasi sussultai sentendola e cominciai ad arretrare – probabilmente anche in maniera molto buffa e goffa.

« Allora io torno in classe, ci vediamo dopo, va bene? »

« A dopo » salutò Elena. Mi voltai e tornai nei miei passi.

Era la cosa più assurda e insensata che io avessi mai programmato di fare da quel che potessi ricordare. Lavorare da qualcun altro? Ma se non facevo nulla nemmeno a casa mia!

Eppure ogni cosa sembrava trovare una risposta quando pensavo ad Elena: non era tanto lei in sé che mi faceva diventare matto, ma quello che rappresentava ai miei occhi. La sua sofferenza, cercata di reprimere in fondo al cuore come meglio poteva, la sua passione per la musica stroncata da un così violento episodio, la perdita di una persona così importante come poteva essere la figura di suo fratello. Mi sentivo quasi in dovere di aiutarla, di dimostrarle che potevo essere lì a darle quella mano che nessuno le aveva mai offerto prima. Mio padre lo diceva sempre: “Quando accade un incidente a qualcuno, subito tutti si offrono di aiutarlo, ma già dal giorno dopo ognuno ritorna a pensare solo a se stesso.” Io non volevo essere una di quelle persone. Non per Elena.

Non raccontai a Giacomo ciò che avevo intenzione di fare. Avevo come l’impressione che mi avrebbe rimproverato e avrebbe nominato Sofia… ma dopotutto, chi era Sofia?

 

Il pranzo insieme a Elena fu molto piacevole. Parlammo solo di scuola, è vero, però gli aneddoti che raccontava erano divertenti e quindi riuscimmo ad essere quasi contenti, pur ben sapendo a che cosa saremmo andati incontro dopo qualche ora. (Non è completamente esatto: lei lo sapeva, io lo potevo solo immaginare, e neanche così bene.)

La osservai fare i compiti di matematica con cura, e analizzai ogni suo movimento: come si spostava indietro una ciocca di capelli, come si stringeva forte tra le dita la collana ogni volta che non le veniva un esercizio, come sbuffava quando qualcuno nei tavolini di fianco a noi parlava troppo forte per i suoi gusti. Non la interruppi nemmeno per un momento: continuai a osservarla in silenzio e sembrava che apprezzasse la mia discrezione. Forse anche lei, come me, pensava a quello che avremo trovato di lì a poco. Forse cercava un modo per nascondermi qualche particolare, quando si mordicchiava il labbro e mi guardava con la coda dell’occhio – convinta che io non lo notassi. Io, da canto mio, avevo solo tanta, tanta paura. E non per me, ma per lei. Avevo paura di scoprire quanto dolore potessero contenere delle mura avvolte da fiamme.

 

Mentre andavamo con l’autobus a casa sua, non spiaccicò parola. Continuava a guardare fuori dal finestrino. Io facevo lo stesso.

 

Arrivammo a casa sua persino troppo presto per i miei gusti. Da fuori non sembrava esserci un granché: l’abitazione era bianca, grande, spaziosa ed elegante. Solo qualche alone nero qui e lì facevano intuire che fosse successo qualcosa, ma da lontano nemmeno ce se ne accorgeva.

 

Elena si avvicinò all’entrata e io la seguii. Aveva la mano sulla maniglia quando si voltò verso di me e quasi mi implorò tacitamente con il suo semplice sguardo.

« Sei sicuro di volerlo fare? »

« Sicurissimo ».

Ormai era la millesima volta che glielo dicevo.

« Ok… Non c’è molto ordine, anzi » mi avvisò imbarazzata, mentre apriva la porta.

Dire che non c’era ordine era un eufemismo. Il caos assoluto si stagliava nella stanza davanti a me. Divani, vestiti, televisione, mobili, forno, pentole, sedie, tavoli… Praticamente tutto quello che poteva esserci in una casa era ammucchiato lì. Ma non era semplicemente il caos più totale che mi aveva lasciato senza parole; bensì il nero.

Il nero si stagliava in ogni oggetto. Il fumo aveva avvolto tutto ed il suo colore era rimasto per testimoniarlo.

Tra tutte le immagini che mi ero fatto per prepararmi alla vista, la peggiore non si avvicinava neanche lontanamente.

Soffermai lo sguardo sui muri e poi sul soffitto, sentendomi mancare il pavimento da sotto i piedi. Le crepe profonde non lasciavano spazio all’immaginazione. Le pareti, che una volta erano state gialle, ora erano colorate del nero più scuro che avessi mai visto, di quelli che non trovi neanche negli incubi più spaventosi; ma non fu neanche quello che catturò maggiormente la mia attenzione.

Nel soffitto l’oscurità continuava, ma era attraversata da molti piccoli cerchi bianchi in sequenza.

« Sono segni del getto d’acqua che hanno buttato i pompieri » mi spiegò Elena, vedendo che mi ero incantato ad osservarli. Subito nella mia mente si affiorò l’immagine di un uomo vestito di rosso che con una pompa spegneva l’incendio che si stava propagando in quei muri. L’odore di fumo aiutava a dare più concretezza alla scena. Orribile.

Guardai Elena, aspettando che magari dicesse qualcosa per rompere il silenzio, ma lei non aprì bocca. Eppure sentivo che niente era così loquace come il suo silenzio.

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.
Sono passati millenni, vero? Mi dispiace molto, è stato un periodo scioccante. Avevo deciso di abbandonare EFP, quindi anche questa storia, ma come potete vedere, ora sono qui.

Spero che a qualcuno interessi ancora questa storia, perché io sono arrivata al punto che volevo descrivere: una casa dopo aver subito un incendio. Ah, so che qualcuno cercava il link dell’articolo di giornale del mio incendio. Eccolo qui: http://ricerca.gelocal.it/tribunatreviso/archivio/tribunatreviso/2010/06/15/TCBPO_TCB01.html?ref=search

Au revoir, fatemi sapere che pensate di questo capitoletto,

Erica

   
 
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