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Autore: Callie_Stephanides    10/03/2012    8 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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5.
Un’aquila, non un uccellino

Quando mi svegliai, umida della febbre e degli incubi di un altro, il sole non era ancora sorto.
Del fuoco restavano poche braci esauste, ma l’ombra nera di Niktos m’infondeva sicurezza: era un bestione fedele; non avrebbe mai permesso a un demone di coglierci nel sonno.
La pelle di Vinus era rovente e madida, ma l’inquietudine del mio cuore rendeva quel contatto persino ustionante. Sul far dell’alba, faticavo a riconoscermi nelle scelte della notte, quasi appartenessero a una donna che non ero io. Sapevo, tuttavia, fosse piuttosto vero il contrario.
Come negli affetti, ero sempre stata un assoluto: tutto o niente, senza condizioni.
Mi rialzai, allontanando da me il mantello. Niktos scrollò inquieto la criniera.
“Vado a cercare un po’ d’acqua per il tuo padrone,” dissi, quasi davvero potesse rispondermi. “Fai la guardia.”
Il liocorno sbuffò e mi colpì un paio di volte con il muso. L’odore delle sue fauci da predatore non era migliorato, ma tra noi sembrava esserci un legame, ora, e tanto bastava perché lo tollerassi.
“Non ho intenzione di fuggire: non arriverei da nessuna parte.”
Ero sincera e la bestia possedeva abbastanza istinto da fidarsi: nella migliore delle ipotesi, sarei stata divorata da un Falesio; nella peggiore, ne sarei diventata prima il trastullo. Chiunque, al mio posto, avrebbe fatto volentieri affidamento sull’onore di un dracomanno.
Niktos mi seguì per un po’, mentre avanzavo tentoni nel sottobosco, incespicando e maledicendomi ogni tre passi; quando si accorse che mia non era certo l’andatura di un ostaggio in fuga, tornò al bivacco.
Al momento gliene fui grata, perché sentivo più che mai il bisogno di restare sola con me stessa, ma il mio compiacimento ebbe vita breve, come la tranquillità cui ero destinata.
Quella marcia solitaria mi diede modo di ripensare a Leya, al cammino che avevo percorso, agli eventi che mi avevano incoronato Magistra e poi visto cadere in disgrazia.
Non ero mai stata una brava ragazza, ecco la verità: da bambina ero avventata e prepotente; da adolescente, avevo recitato una parte perché ignoravo di possedere il coraggio per rompere tutte le regole. Non credevo in un futuro da madre e da guaritrice, ma non volevo che si avverasse quanto la Storia mi aveva infine servito: un Destino solitario, oltre la linea.
Sospirai.
Mi avrebbe amato ancora, Lukas, se gli avessi detto che torturare un uomo non mi faceva tremare il cuore?
Forse no. Le donne di cui t’innamoravi chiedevano protezione, non un pugnale.
Nello sguardo di Vinus, tuttavia, avevo colto una luce diversa.
 
Credevo che fossi un passero, invece sei un’aquila.
 
L’eco di quelle parole, sola, bastava a farmi arrossire.
Non era tanto il complimento in sé a colpirmi, quanto la sostanza, poiché ero un soldato: il mio coraggio era la lama che volevo fosse saggiata e misurata e messa alla prova.
“Mi sto perdendo,” mormorai, mentre la foresta si faceva sempre più impenetrabile e oscura.
Non era al sentiero, però, che si riferiva davvero quella constatazione.
 
A riscuotermi fu un rumore d’acqua corrente. Presi a seguirlo, sebbene fosse dai giorni dell’infanzia che non mi misurassi con l’ambiguità disorientante dei boschi.
Una cascatella schiumante tra pietrisco e crochi anemici alimentava uno specchio d’acqua dalla limpidezza irreale. Immersi i palmi e bevvi: la mia bocca si riempì d’inverno, neve sciolta e sollievo.
Estrassi la borraccia dal tascapane e mi accinsi a riempirla, quando qualcosa increspò la superficie del lago. Socchiusi le palpebre, incerta sulla natura dell’ombra che aveva catturato la mia attenzione.
La creatura si palesò di nuovo, splendida al punto da strapparmi un gridolino estasiato: aveva il viso di una bambina decenne e lunghi capelli di un rosa sbiadito. Gli occhi, tanto grandi da occupare i due terzi del volto, erano mandorle dorate, orlate da lunghe ciglia. Il naso, minuscolo, s’indovinava appena, mentre le labbra, turgide e vermiglie, ricordavano un cuore.
“Sai parlare?” le chiesi. Per tutta risposta, la mia inattesa ospite s’inabissò. Le volute di una sottile coda bifida incresparono la superficie del laghetto; le squame lucenti che la coprivano brillavano come gemme alla luce del sole e mi riempirono di meraviglia.
Le leggende dei marinai erano prodighe di voci sulle sirene, affascinanti demoni che pasteggiavano di carni nostalgiche e bassi appetiti, ma mai avevo letto di sorelle d’acqua dolce, delicate come fiori.
La creatura riemerse a meno di un braccio dalla riva: avrei potuto toccarla, se solo l’avessi desiderato – e lo volevo.
Il capo ripiegato e le labbra socchiuse, mi concessi il lusso di studiarla per qualche istante: né donna, né pesce, possedeva la bellezza morbosa dell’assurdo. Mi protesi su di lei, per sfiorare i ventagli rostrati che le incorniciavano il volto come pettini; la creatura non si ritrasse, ma sorrise: lo faceva anche Vinus, quando tornava con una preda in grado di saziare il bestiale appetito dei dracomanni.
L’avrebbe fatto qualunque predatore, davanti a un pasto lento e stupido.
Io ero un pasto lento e stupido.
Sorrise, dunque, e scoprì una chiostra di denti seghettati, mentre una corazza scagliosa vestiva la pelle. Arretrai inorridita, ma era troppo tardi: un artiglio mi strinse il polso e mi trascinò nell’acqua gelida.
Stordita dal freddo imprevisto, obbedii all’istinto e schiusi le labbra per gridare, svuotando i polmoni del poco ossigeno incamerato per far posto al liquido che mi avrebbe ucciso. L’amnio inospitale che sarebbe divenuto la mia tomba era tanto limpido da concedermi il lusso di spiare ogni istante della mia agonia.
Non so perché non chiusi mai gli occhi: forse ero davvero arrogante e pazza come pensavano tutti.
Forse aspettavo la Mietitrice per sputarle in faccia.
Mi dibattevo come avrebbe fatto una raganella tra le fauci di una biscia d’acqua, pur sapendo che ne avrei condivisa la sorte. Lottare, tuttavia, mi pareva una scelta più onorevole al serrare le palpebre e arrendermi al niente: non era così che mi ero guadagnata un posto nella Storia.
La coda mi serrava le braccia e stringeva le membra come una morsa; per quanto mi sforzassi, non riuscivo a vincerla, né a raggiungere la superficie. Intravedevo la luce tra cerchi opalescenti, ma non arrivavo a sentirla sulla pelle; anestetizzata da quel freddo mortale, soprattutto, rischiavo la paralisi che mi avrebbe condannato.
 
Rifletti, Leya, rifletti.
 
Non potevo: l’unico pensiero su cui riuscivo a concentrarmi era l’aria, il terribile bisogno di una boccata che mi riempisse i polmoni. Provai a tirare un paio di calci, ma tutto quel che ottenni fu d’essere sferzata con violenza da una ruvida zampa rostrata.
Schiacciata a terra, vomitai sangue e inghiottii fango, mentre fissavo incredula la debole asola di luce farsi sempre più lontana e più scura e…
 
“Leya!”
 
La voce di Vinus divenne l’ancora cui mi aggrappai per non colare a picco; sentirlo gridare il mio nome, scoprirlo su quelle labbra piene di orgoglio e di disprezzo, una valida ragione per vivere.
L’acqua schiumò attorno al suo corpo; affilata, la spada di Zauror beveva la luce del mattino.
 
“Ci sono… Sono qui.”
 
I suoi incoraggiamenti mi raggiungevano appena, quasi fosse lontanissimo: una macchia bianca che indovinavo a stento, tra le volute squamose della coda che mi teneva prigioniera.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, ma il lago se ne abbeverava, come aveva inghiottito il mio sangue e invaso il mio corpo.
Vinus s’immerse e mi raggiunse: le sue dita mi sfiorarono la guancia, mentre incuneava la lama tra le spire del mostro. La terribile sirena abbandonò il mio corpo per colpirlo con quanto restava della bifida appendice. Vinus si oppose al cozzo e mi allacciò alla vita, trascinandomi in superficie.
 
“Respira, maledizione… Respira!”
 
Vomitai un fiotto d’acqua, arresa alle sue braccia e al disperato bisogno di piangere.
Mi accarezzò le spalle, i capelli, le guance. Lasciò che lo stringessi e affondassi le unghie nella sua pelle nuda, quasi tanto bastasse a esorcizzare il terrore che la solitudine mi aveva regalato.
Ora c’era lui: potevo smettere di tremare. “Riesci a raggiungere la riva?”
Scossi il capo: ero pietrificata ed esausta. La mia maschera di rigida efficienza riposava forse sul fondo del lago, tra rocce e fango.
“Va bene, ma rimani dietro di me.”
 
Vinus sollevò la spada, benché la superficie del lago fosse immobile come olio. A spezzare il silenzio, il battito isterico dei miei denti.
Non era ancora finita e lo sapevo, per questo tenevo per me qualunque domanda.
Le risposte, d’altra parte, sarebbero state terribili.
Vinus scrutava l’acqua, senza muovere un muscolo. Minuscole gocce correvano lungo la sua schiena, perdendosi tra i cordoli delle cicatrici.
Il suo corpo era una mappa d’orrori ed era bello; era la memoria di un mondo cancellato.
“Avanti…”
La superficie tesa del lago si ruppe e ne schizzò fuori l’ingannevole chimera; un sibilo frustò l’aria, mentre si avventava su di noi con gli artigli tesi e le zanne scoperte.
Non possedeva più nulla della grazia che mi aveva incantato e tanto bastava a dire quanto fossi stata ingenua. Mi ero fidata degli occhi, non dell’istinto. Se avessi imparato ad ascoltare il cuore, invece…
Vinus mi spinse in acqua appena prima che la cuspide rostrata della coda si abbattesse su di me. Lungo il fianco, là dove si era lasciato colpire per farmi scudo, si aprì una larga bocca rossastra.
Il dracomanno non se ne accorse nemmeno: piantò la lama sul fondo limaccioso e la usò come asta per raggiungere dall’alto il mostro.
Trattenni il fiato, mentre le dita di Vinus stringevano al collo la sirena. Il demone gli sputò contro una sostanza verdina, che sfrigolò a contatto con la carne della clavicola. Il principe di Lephtys si concesse una sommessa bestemmia e mutò.
Era la stessa metamorfosi che aveva offerto a mio fratello, ma il frangente tanto drammatico ne centuplicava gli effetti. Se Rael ne era rimasto impressionato, a me si fermò il cuore.
Al posto delle placche cornee che gli correvano lungo la schiena, emergevano ora scaglie irte come punte; la sua mascella si era come allungata, per estroflettere zanne più affilate di un rastrello di lame. Della sua bellezza senza colore non restava niente, poiché lo spettacolo che si offriva ai miei occhi, dell’umanità che amavo, non salvava nemmeno l’ombra.
Vinus affondò i denti nel petto della sirena, strappandone un generoso brano di carne. Il sangue della creatura, che si dibatteva ora terrorizzata nella morsa dell’ophelide, gli schizzò addosso, lordandolo di un fluido viscoso.
Tentai di rialzarmi, ma ricaddi in quell’acqua che la vita e la morte avevano ormai intorbidato.
 
Se non avesse staccato la testa del demone con una violentissima frustata, forse non mi sarei nemmeno accorta che gli era ricresciuta la coda.
 
“Avanti, dobbiamo allontanarci da qui,” m’ingiunse senza guardarmi.
Era coperto di sangue e di ferite, ma si preoccupava ancora una volta della mia salvezza. Non riuscivo a muovermi, paralizzata da un terrore che aveva spezzato ogni risorsa residua.
Non ero mai stata così prossima alla Morte; ora indovinavo anche perché, negli occhi di Rael, ci fosse tanto disprezzo per la Rocca di Trier: solo una povera idiota avrebbe sacrificato tutto alla Mietitrice.
Solo un’idiota come me.
Vinus mi trascinò a riva.
“Che cosa credevi di…”
Chiusi gli occhi e mi spensi come una candela esausta.

*

Mi riebbi al caldo, tra le sue braccia.
Le fiamme di un fuoco vivo pennellavano d’ombre il tessuto dei nostri abiti stesi in terra. Sul mio ventre, le sue dita erano braci.
Avrei dovuto provare vergogna per quella mia nudità fragile ed esibita, invece a vincere era un indicibile sollievo.
Stretta tra il mantello di Vinus e la sua pelle, non c’era più spazio per il dolore.
 
“Ti sei ripresa.”
 
Seguivo le onde sanguigne con cui i miei capelli scivolavano tra i seni per non correre il rischio di spiare il suo sguardo: non riuscivo a immaginare cosa vi avrei trovato.
Vinus sciolse la stretta dai miei fianchi e si rialzò. Lo fissavo ipnotizzata, anche se era una curiosità indecente.
L’ultima volta in cui avevo spiato un dracomanno nudo, Rael aveva cinque o sei anni ed era il mio ranocchio; il principe di Lephtys, invece, la più bella macchina da guerra che avessi mai visto.
Si accovacciò davanti al fuoco, dandomi le spalle. La coda sollevava sottili strati di polvere.
“Com’è… Quando è successo?”
Vinus tornò a guardarmi. “Cosa?”
Gli indicai il simbolo più vistoso della sua razza, non senza qualche imbarazzo.
Si strinse nelle spalle. “È il sangue del drago,” disse. “Il combattimento ha accelerato la rigenerazione… Capita, a volte.”
“Capisco,” sussurrai, anche se stavo mentendo.
 
Non capivo gli ophelidi, non l’avevo mai fatto.
Mi sfuggiva lui, che era un eroe e un assassino, un principe e un mercenario, un mostro e un miracolo.
Ed io, così meschina e sterile, al suo cospetto cos’ero?
 
Avevo voglia di piangere sino a sciogliermi tutta: piangere di paura e di solitudine e di umiliazione e di sollievo.
Quanta parte di me avevo dimenticato?
Quanta si stava svegliando sul ciglio di una terra che partoriva solo incubi?
 
Vinus si allontanò dalle braci e mi s’inginocchiò davanti.
Fece scivolare il mantello lungo le mie spalle, perché il viso fosse scoperto e potesse scrutare nelle profondità di quegli occhi che aveva sempre visto pieni d’odio.
“Se Niktos non mi avesse svegliato, tu saresti morta.”
Implacabile come la spada di Zauror.
“Lo so.”
“No, non lo sai. Tu non sai niente dell’Icengard.”
Abbassai il viso. Mi afferrò il mento e mi costrinse a sollevarlo di nuovo.
“Avevi la febbre alta… Volevo portarti dell’acqua,” balbettai.
Il suo sguardo non cambiò. “Stupida,” sospirò, mentre allentava la stretta. “Quanto sei stupida…”
 
Poco distante, Niktos ci fissava scettico.
Erano contorti, gli esseri umani: si odiavano, eppure non potevano fare a meno di regalarsi la vita; la rubavano e la offrivano per niente. Ai suoi occhi di figlio del Nord, della fame e del silenzio, non apparivamo né sensati, né intelligenti.
 
“Non farlo più,” sibilò Vinus, mi diede le spalle e raggiunse di nuovo il fuoco.
Dal punto in cui si trovava, il taglio che la sirena gli aveva aperto sul fianco rosseggiava sinistro.
“Allora non avresti dovuto. Non avresti dovuto salvarmi la vita.”
Mi rialzai. Le ginocchia tremavano ancora, ma non tanto da impedirmi di osare quel che feci.
Il mantello mi cadde di dosso e rimase, in terra, a inghiottire le ombre che proiettava il mio corpo nudo.
 
Accanto a Vinus ero esile e fragile come un filo d’erba; la nostra pelle, tuttavia, aveva lo stesso colore e il suo cuore bruciava di un fuoco che conoscevo bene.
Era uno specchio, non un altrove nemico, ma avevo impiegato anni a rendermene conto.
Anni bruciati e polverizzati e maciullati e mai digeriti.
 
Posai il palmo sulla sua spalla, mi chinai su di lui e i miei capelli lo vestirono d’oro rosso.
Non ci furono parole, tra noi, solo gesti lenti e consumati dall’istinto. Mi accarezzò il capo, con dolcezza.
Non mi bastava: cercai la sua bocca e osai quel che mai avrei creduto possibile.
Baciare il Drago Nero.

   
 
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