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Autore: Callie_Stephanides    16/03/2012    6 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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6.
Mio. Sua

Avevo dato il primo bacio che ero poco più di una bambina.
L’avevo concesso come un dono, con la gratuità che solo le donne conoscono, perché solo le donne regalano la vita per perderla senza gloria – alcune, almeno.
L’avevo dato con l’abbandono dell’età e la morbidezza di un corpo in boccio.
L’avevo dato quando credevo nel per sempre e nell’eternità del Bene.
Era stato un bacio delicato e dolce, pieno d’imbarazzo: eravamo così giovani, Lukas ed io, che tutto pareva nuovo.
Credevamo di aver inventato l’amore sulle nostre labbra, poiché di un mondo millenario non restava che quell’emozione a due.
Un’emozione per due.

*

Baciai Vinus per ritrovarmi: su quella bocca e tra quelle braccia, c’erano tutti i mille e più frammenti della Leya che una pira aveva combusto.
C’era la ragazza di neve e oro che rideva nella piazza della Capitale. C’era l’amante di una notte estiva.
C’era la bambina senza paura che prendeva a sassate i prepotenti. E c’era la guerriera, la donna uccello, la rocca di Trier.
C’ero io, come forse non mi aveva colto nessuno, poiché per nessuno ero mai stata, al contempo, spada e fodero: se non per lui.
Vinus aveva saggiato tutto il mio veleno, eppure era arrivato a scoprire il miele.
Sapeva che ero crudele e violenta e vendicativa; sapeva che il sangue non mi spaventava – nemmeno il mio sangue – ma sapeva anche che ero abbastanza pazza da puntare una balestra al cuore del Drago Nero, tanto coraggiosa da dargli la caccia e da dormire al suo fianco.
Ero un coacervo di contraddizioni come i colori che mi avevano segnato: rossa come la guerra, candida come una colomba.
 
Quel bacio fu il punto zero della nostra storia e fu divorante.
 
Affondai le dita nei suoi capelli ora tanto corti da sfuggire alla presa e lo trascinai a me, quasi fosse una preda e fosse mio per diritto.
Forse era vero: era il prezzo della guerra che avevo combattuto contro i miei ricordi più belli. Mi ero depredata per diventare un soldato, scavando nella morbida polpa della memoria; nel punto più basso della parabola, invece, scoprivo che il dolore era fame: un intollerabile bisogno d’amore.
 
Di un corpo segnato dalle battaglie e da una vita randagia, la bocca di Vinus era un’isola vergine, perché le puttane al seguito dell’esercito offrivano un sesso concepito per svuotare, non per riempire: erano il buco segreto e umido in cui piangevi lacrime collose, intrise di frustrazione.
Il bacio, come la carezza, ha la gratuità dei sentimenti autentici, non della rapina; forse solo Haga avrebbe potuto concedergli quel sollievo ma Haga era un cane devoto, non una lupa.
Non era come lui. Come me.
 
Del primo bacio ricordavo le palpebre strette e il cuore in gola: di quel bacio, invece, gli occhi aperti e la voglia in punta di lingua.

 

Il desiderio che avevo represso e vestito di ripulsa ruppe ogni argine e si trasformò nell’ansito morbido ed eccitato della mia resa.
All’ultima battaglia mi consegnavo nuda. Era nudo anche lui e il suo cuore urlava.
Sorrise sulla mia bocca e mi offrì il collo; trasognata, lo morsi sino a sentire il gusto del sangue e il calore tiepido della sua pelle infettarmi. Conoscevo il sapore del nemico e mi piaceva: era giunto il tempo di offrirgli il mio.
 
Usammo il corpo per parlare e la lingua per fare l’amore; di mille, abusate metafore, non una potrebbe soccorrermi per descrivere quell’ora, perché il sesso è vita, non guerra – soprattutto, poi, se ne hai inghiottita troppa.
Tra le braccia di Vinus cercavo la pace.
Tra le mie cosce, c’era una casa pronta ad accoglierlo.
 
Le sue dita tra le mie chiome erano delicate come mai le avrei credute. Ne studiava la trama, rapito, mentre il fuoco vestiva d’oro il sangue e mi restituiva quella bellezza rara e nascosta che non avevo avuto il coraggio di coltivare.
 
In una radura assediata da mille demoni ci consumammo di morsi e di baci, senza una parola.
Era un sesso silenzioso e viscerale, che diceva di un’empatia profonda. Ci appartenevamo come le braccia di una libra, e quando l’equilibrio fu raggiunto, il tempo si fermò.

*

Sognai Rael: sognai il mio ranocchio com’era l’ultima volta in cui l’avevo visto, sprezzante e fiero, darmi le spalle.
Mi guardava, ora, e nei suoi occhi d’oro coglievo una domanda cui non potevo sottrarmi.
 
Sei pronta?
 
Sollevai di scatto le palpebre e scoprii che le braci erano spente e la terra, al mio fianco, appena tiepida.
Senza allentare la presa dal mantello, mi rialzai a fatica.
Avevo il corpo pieno di lividi e di un languore estenuato; tracce del seme di Vinus mi punteggiavano la pelle come perle traslucide, restituendomi la consapevolezza di quel che era stato: non un sogno, ma una straordinaria realtà.
 
“Vinus?”
 
Il suo nome salì alle labbra senza rabbia; c’era, piuttosto, una trasognata dolcezza nello sfiorarne le sillabe e scoprire che era reale. Che poteva essere la cifra di un amante, non un’eco piena d’odio.
Mi passai la mano lungo il collo, alla ricerca di uno sfregio che avevo già visto. Scoprii che la mia pelle era sana e inviolata: forse non valevo abbastanza da essere scelta come sua compagna?
Il panico mi strinse alla gola, mentre facevo vagare lo sguardo e annegavo nell’oscura impenetrabilità di una foresta muta.
 
E se mi ha abbandonato? Se…

A rassicurarmi fu il brontolio di Niktos, che si palesò da una stenta macchia di bacche simili a ginepro; tra le sue fauci penzolava qualcosa di sanguinolento, ma le recenti esperienze mi avevano reso meno schizzinosa.
“Tu sai come tenerti in forze, vero?” dissi, accennando una timida carezza. Il liocorno, per tutta risposta, quasi m’inondò con un potente schizzo d’urina.
 
“Marchia il territorio: gli piaci, dunque…”
“Mi piscia addosso?”
 
Vinus rise di gusto. “Sì, ti piscia addosso. Mi complimento per il lessico, Magistra.”
Mi concessi il lusso di studiarlo. Sulla gola pallida, il segno dei miei morsi rosseggiava accanto alla recente ferita.
Non era stato un sogno: era mio.
“Non sono più la Makemagistra di Trier.”
Mi uscì così, una verità che vinceva il riserbo dell’orgoglio.
Vinus socchiuse le palpebre, quasi dovesse regolare il fuoco perché gli apparissi nitida.
La mia, del resto, non era una nudità che avresti chiamato ‘innocente’. Non lo era mai stata.
“Non hai bisogno di un titolo per guidare la tua gente.”
Provai a replicare, ma mi anticipò.
“Comincia a prepararti: abbiamo già perso troppo tempo.”
Io me lo sono appena ripreso, avrei voluto urlare, ma ero troppo umiliata perché gli concedessi anche quella gratificazione.
Continuava a sfuggirmi: tra le sue braccia mi ero sentita amata, ma i suoi occhi erano freddi; sulla sua bocca non restava niente del miele dei ricordi che avevamo costruito.
Mi allacciai la camicia e i gambali di cuoio. Se uno dei Falesi avesse avuto la sfortuna di capitarmi davanti, probabilmente l’avrei finito a calci: avevo impiegato anni a costruire la rocca di Trier e un dracomanno l’aveva soffiata via come friabile rena.
Frustrata e incredula, mi odiavo più di quanto non detestassi Vinus, perché mia era stata l’iniziativa. Mio, un risveglio solitario e umido d’illusioni.
Che futuro avevamo, in fondo, noi due?
Mi raggiunse alle spalle, silenzioso; le sue dita armeggiarono con i miei capelli e li raccolsero in un nodo.
“Sei pronta?”
Erano le stesse parole che Rael mi aveva rivolto in sogno.
“No.”
Un’ombra sorpresa gli scivolò nello sguardo.
“No, non sono pronta a subirti.”
Ero una donna. Ero un cuore. Ero carne.
“Non sono pronta a riscaldarti le notti per non sapere cosa…”
Le labbra di Vinus si strinsero in un’invisibile ferita. “Quanto ti aspetti che io viva ancora?”
 
Laconico come di consueto, eppure mi aprì gli occhi.
 
Arretrai.
Il suo sguardo non mi abbandonava.
“Tornerai a Trier. Quando avremo raggiunto la piana di Mizar, tu…”
Scossi il capo.
“Lo farai, perché quello è il tuo destino. Se la gente di Eleutheria vive ancora, avrà bisogno…”
“E tu?”
Fu un singhiozzo vulnerato; la resa maldestra di una donna egoista e piena di rimpianti.
“Non hai bisogno di me?”
Tese il braccio e mi strinse a sé: era già un addio e lo sapevo, come sapevo che non mi avrebbe risposto.
“Non posso fermarmi. Non proprio adesso.”
Mi sciolsi dal suo abbraccio, mi asciugai le guance e annuii senza guardarlo.
 
Niktos ci accolse con un bramito soddisfatto, avido di nuove sfide.
La sua vita era una corsa, una caccia, una guerra.
La mia, inseguire l’ombra di un sentimento che mi aveva maledetto: gli uomini che amavo si sfogliavano come fiori tra le dita.
Montai il liocorno, a testa bassa. Vinus mi cinse la vita e viaggiammo così, per ore, vicini e lontanissimi al contempo; non una parola, tra noi, non un sospiro o un cenno che dicessero delle nostre emozioni.
Pensavo alla Nornika, a quel che nessuno vi aveva scritto.
Non potevi rubare il cuore a un drago senza spezzarne un altro: era quella l’autentica maledizione della Bestia.

Ci piegammo all’urgenza di una sosta dopo due giorni ininterrotti di viaggio. Eravamo sporchi, esausti, affamati e la tensione che ci opponeva si era fatta insostenibile. Nell’oscurità di un’abetaia infinita, ogni gesto tradiva rabbia – i miei, almeno.
Accesi il fuoco, mentre Vinus si allontanava per cacciare.
Una nuova vita, all’improvviso, si era sostituita a quella che mi ero illusa di costruire tra mappe e pergamene. Chiusa in un carcere senza chiave, di cui mai avevo forzato le porte, avevo infine tentato l’evasione e la libertà mi aveva sferzato con la violenza di uno schiaffo.
Libertà era lui, occhi rossi e cuore di drago.
Mi sentivo un’idiota, ma non riuscivo a smettere di piangere: ero viva. Carne viva.
 
Quanto ti aspetti che mi resti da vivere?
 
Era sorprendente la freddezza con cui aveva pronunciato quelle parole. Sapeva di essere condannato, eppure non aveva paura.
Mi aveva amato come se avessimo un futuro davanti, perché era più saggio (o disperato) di me: sapeva che la vita era adesso; che se non ti concedevi a un istante di grazia, indietro avresti avuto solo rimpianti.
Ne avevo accumulati troppi, perché potessi accettarne ancora.
 
 
“Ti ho portato…”
 
Vinus mi sorprese così, raggomitolata come una bestiola ferita, davanti al rosseggiare delle braci.
Voleva sfamarmi, ma scopriva che la mia fame era altro, che era un buco senza fondo e senza rimedio, che non potevamo più tornare indietro, ma che ogni passo avanti avrebbe fatto sempre più male.
L’equilibrio della libra si era spezzato, il tempo aveva ripreso a correre; la clessidra del mio cuore, a sanguinare.
 
“Che ti aspetti da me?”
Lo guardai. “Dovrei essere io a dirlo.”

Vinus sospirò.
Non mi conosceva come immaginava: della mia ostinazione, almeno, aveva appena intravisto l’ombra.
“Se sapevi che sarebbe finita comunque, non avresti dovuto…”
Strinse le labbra e la sua espressione s’indurì. Mi accorsi solo in quel momento che aveva gli occhi di un vecchio, lo sguardo severo e disilluso di chi sa troppo.
“E tu, allora, perché hai continuato a combattere?”
Non usò filtri: mi sputò contro la sua frustrazione e fece centro.
“Perché hai amato e odiato e inseguito una patetica vendetta? Tutti moriamo. Tutti siamo condannati. Tutti viviamo finché non ci ammazzano!”
La sua voce era bassa e monocorde, depurata da ogni accento, ma gli tremavano le labbra.
“Se avesse un senso quello che dici, io non sarei sopravvissuto!”
Tentai d’interromperlo, ma me lo impedì.
“Vuoi sapere perché non vi ho ammazzato davanti alle porte di Trier? Perché quella sarebbe stata la fine anche per me. Perché la mia vita aveva una scadenza e quella scadenza erano forse mille eleutheridi guidati da una femmina pazza!”
Abbassai lo sguardo.
“Perché voi non avevate paura ed io sì. Davanti a Rael, il traditore del sangue ero io.”
Il silenzio inghiottì le sue ultime parole.
Niktos, sensibile agli umori del padrone, gli menò con il muso un paio di colpetti consolatori; Vinus, tuttavia, lo allontanò senza grazia e abbandonò il bivacco.
Mi stesi a terra, esausta e consumata dalla mia stessa frustrazione.
Fissavo il cielo nero oltre la volta impenetrabile di fronde.
Fissavo un liocorno esasperato da una femmina piagnucolosa.
“Se vuoi pisciarmi addosso, accomodati pure.”
Non avevo più voglia di commiserarmi: non era quella, la donna uccello; non la Leya cui il principe di Lepthys aveva offerto un’ultima notte d’amore.
Mi rialzai, vincendo lo stordimento delle lacrime.
Da bambina – lo ricordavo bene – un buon pianto mi aiutava a sentirmi più lucida: potevo solo sperare di non essere cambiata troppo.
Afferrai il pugnale e cominciai a spellare la preda che Vinus aveva abbandonato accanto al fuoco; non avevo fame, ma far lavorare le mani era un modo per impedire ai cattivi pensieri di sopraffarmi.
Mi aspettavano giorni durissimi? Li avrei affrontati comunque, dal primo all’ultimo.
Se c’era un talento che dovevo riconoscermi, quello era resistere.
Ero una fortezza: lo sarei stata anche per chi non poteva concedersi il lusso di un futuro.
 
Quando Vinus tornò, stavo rosicchiando un osso spugnoso. “Avevi ragione: la viverna non è male.”
Sorrise.
Non sapevo parlare d’amore, ma ero entrata nel suo lessico segreto come il dracomanno aveva scoperto il mio.
Mi ripulì il mento dalla traccia sugosa del pasto. “Ce n’è anche per me?”
Mangiammo vicini, senza una parola, eppure senza smettere mai di parlare; i nostri corpi si cercavano d’istinto, quasi volessero fissare nel tempo l’attimo che avrebbero poi vissuto in un eterno ricordo.
Fu Vinus il primo a spezzare il silenzio.
“Chi ho ucciso di prezioso per te?”
Non esitai. “Il mio uomo.”
“Avrei dovuto immaginarlo.”
Lo guardai: i suoi occhi erano pieni di una malinconica dolcezza.
“Eravamo cresciuti insieme, noi due. Era figlio di un soldato e quella sarebbe stata la sua vita, se solo non fosse arrivata la morte.”
Se non fossi arrivato tu, pensai, ma non lo dissi. Mi sorprese, piuttosto, che di mille emozioni si fosse salvato tanto poco.
Lukas era passato ancor prima che Vinus mi entrasse dentro. L’avevo sepolto mille volte, tumulandolo nella vendetta e nel rancore. Ora restava un’eco lontana, quasi il sussurro del vento.
“E quando…”
“Sull’Eisenthar.”
“Fu lì che Rael uccise Gordon.”
“Era lui il Drago Nero, vero?”
Vinus annuì.
“Era importante, per te?”
“Era l’unico padre che mi fosse rimasto.”
La sua voce suonava atona, ma non me ne stupii, perché Vinus non usava le parole per chiamare le emozioni: non quelle che indossava come una seconda pelle, senza separarsene mai.
L’armatura del Drago Nero era in realtà la memoria di Venusya, dunque doveva essere eterna, perché se il Drago Nero fosse morto, gli ophelidi sarebbero divenuti polvere della Storia.
Gli presi la mano e la strinsi forte nella mia.
“Farò come mi hai chiesto: tornerò a Trier.”
Vinus parve rassicurato da quella nuova ma sua era una soddisfazione prematura: non aveva ancora ascoltato il resto; non aveva ancora capito quanto fossi pazza.
Pazza e senza paura.
“Rael sarà il Drago Nero e assumerà il comando dei tuoi uomini.”
La mia voce non era mai stata tanto ferma, poiché intravedevo, infine, il futuro che volevo costruire e vivere e sognare; un futuro in cui il sangue tornava a unire, non solo a dividere; un futuro da uomini liberi e draghi pieni d’orgoglio.
“Ed io sarò lì, alla testa dell’esercito, ad aspettarti, quale sia la creatura che diverrai.”
Il principe di Lephtys sollevò un sopracciglio. “E cosa ti dà la sicurezza che la tua gente…”
Gli posai le dita sulle labbra e la mano sul mio petto.
Chiedevo silenzio e gli regalavo il cuore.
“Perché solo una donna ebbe la bocca del drago,” sussurrai, riducendo a un nulla la distanza che ancora ci opponeva. “Dendre era il suo nome. Nessuno oserebbe contraddire la dea di Elithia.”
 
Vinus chiuse gli occhi e si arrese al mio bacio.
Li chiusi anch’io, questa volta, poiché non avevo più bisogno di cercarlo con lo sguardo: era dentro di me e lì sarebbe rimasto.
Per sempre.

   
 
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