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Autore: Shomer    21/03/2012    7 recensioni
Demetrio e Nadia sono amici da tanto tempo e hanno ingenuamente pensato che niente e nessuno potesse dividerli. Allora cos’è successo? Perché sono arrivati a questo punto? Dove hanno sbagliato?
A tre anni da allora posso affermare con certezza che se fossi stata meno egoista e più coraggiosa probabilmente avremmo sofferto di meno, ma posso dire con altrettanta sicurezza che se ti avessi ascoltato e se avessi aperto gli occhi, se non avessi infranto le regole e se neanche tu le avessi infrante, sicuramente sarebbe finita allo stesso modo.
Questa storia si è classificata prima e ha vinto i premi giuria, miglior personaggio femminile, pairing e stile al contest "Love (never) fails - quando anche Cupido sbaglia" di Flaren97.
Seconda classificata al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo due

Se ci sono non so cosa sono e se vuoi, quel che sono o sarei, quel che sarò domani...
Non parlare non dire più niente se puoi, lascia farlo ai tuoi occhi alle mani.
Non andare, vai. Non restare, stai. Non parlare, parlami di te.
Canzone delle domande consuete – Francesco Guccini


 



Le prime settimane di settembre passarono velocemente e le volte in cui riuscii a scambiare qualche parola con te le posso contare sulle dita di una mano.
Avevo ripreso il mio vecchio lavoro al pub in centro e probabilmente dovevi averlo capito, perché rientravi sempre in casa pochi minuti prima che io uscissi. Volevo tanto chiederti dove fossi stato per tutto quel tempo, dove stessi lavorando, se avessi lasciato gli studi; volevo sapere cosa avevi fatto della tua vita in mia assenza, se fossi andato avanti o fossi tornato indietro, se le cose sarebbero mai ritornate come prima.
Ti ci volle un mese per capire come fare a stare nella stessa stanza con me senza tormentarmi con gli occhi o ferirmi con le parole. E mi ci volle un mese per convincermi a farti quella domanda.
Quel giorno ero seduta sul divano a ripetere mentalmente l’orario delle lezioni che sarebbero cominciate la seconda settimana di ottobre e a cercare un modo per farle incastrare con lo studio e il lavoro; tu ti sedesti accanto a me, senza guardarmi neanche per un istante, senza dar segno di aver notato la mia presenza su quello stesso divano. In quel momento notai una sottile macchia di rossetto sul colletto della tua camicia e tu non dovevi essertene accorto, oppure lo sapevi e ti eri seduto lì di proposito, per farmi capire che eri riuscito a cancellarmi. Mi domandai come facessi a stare lì vicino a me se fino a poco tempo prima eri stato con qualcun’altra.
«Dove sei stato?» ti chiesi, e sentire il suono della mia voce doveva averti stupito, perché ti girasti di scatto verso di me.
«Me lo chiedi come se fossero affari tuoi» dicesti dopo un po’, alzando lievemente un sopracciglio.
«Hai del rossetto sul colletto» dissi, pentendomene subito: sapevo che quella mia osservazione avrebbe dimostrato ancora una volta che non riuscivi ad essermi indifferente.
«Non provare a parlarmi come se non fosse successo niente.» 
«Per quanto tempo ancora vuoi trattarmi così? Sono qui da un mese, ormai» mormorai, con uno slancio di coraggio che mi fu del tutto estraneo.
«Non capisci mai niente» sibilasti, alzandoti dal divano «Non è per il fatto di essere scappata, che devi farti perdonare.»
«E allora per cosa?» chiesi «Vorrei solo che le cose tornassero come prima. Sei il mio migliore amico, Dem.»
«Hai scelto lui» dicesti, guardandomi velenoso dall’altra parte della stanza «Non mi basterà una vita intera, per dimenticarlo.»
Continuasti a fissarmi e sapevo che avresti voluto dire qualcos’altro, me lo fece capire un piccolo movimento della tua bocca. Però non dicesti niente, rimanesti lì, fermo, immobile: i pugni stretti sui fianchi e gli occhi di chi sta lottando internamente.
Rimasi in silenzio, cercando di reggere il peso del tuo sguardo. Il pensiero del rossetto sul tuo colletto ancora non se ne era andato del tutto dalla mia mente, ma la mia attenzione era focalizzata sulle tue labbra serrate, sul tuo volto duro, di marmo, sulle tue parole. Avevo scelto lui. Avevo scelto lui e tu me l’avevi detto, me l’avevi detto che non avrei ottenuto nulla, avevi cercato di farmi capire in mille modi che se me ne fossi andata ti avrei perso. E io me ne ero andata lo stesso. Ed ero ritornata a mani vuote, rifiutata e umiliata.
Parlasti dopo attimi di silenzio interminabili. «Non è cambiato niente, Nadia» dicesti, e pronunciasti il mio nome per la prima volta, da quando ero tornata. «Tra me e te. Non potrebbe essere altrimenti.»
Ti guardai a lungo. Avresti potuto ferirmi in tutti i modi se avessi voluto, e sapevo che lo volevi, lo capivo dal tuo sguardo puntato verso la porta e non verso di me. In quel momento pensai che dovevi sentirti sconfitto, per la prima volta da quando ti conoscevo, perché volevi farmi del male ma non ce la facevi, nonostante l’avessi già fatto mille volte, nonostante per te fosse un gioco da ragazzi ferirmi e punirmi, perché conoscevi tutti i miei punti deboli, tutte le mie paure, tutti i miei difetti.
Avevi detto che non era cambiato niente nonostante non riuscissi a perdonarmi, tanto era il male che ti avevo fatto, e stavi accettando di vivere con me e con il rancore che ti portavi dentro, con l’orgoglio ferito, a patto che io non mi allontanassi di nuovo. Queste cose allora non le avevo capite. Le avrei capite molto tempo dopo.
«Grazie» mormorai. Tu annuisti lievemente, tornando a sederti accanto a me.
«Sei tornata da sola» dicesti, senza riuscire a nascondere una punta di soddisfazione. «L’hai trovato?»
Ti lanciai un’occhiata di sfuggita e respirai profondamente, accorgendomi che stavamo per affrontare proprio quell’argomento. Mi portai le ginocchia al petto tenendole con le mani, voltai il viso verso di te e, dopo un altro sospiro, parlai.
«Sì» risposi, preparandomi a raccontarti tutto. «Nella sua città. Nella casa che suo zio gli ha lasciato quando è morto. Gli ho chiesto perché è andato via così di punto in bianco e lui mi ha risposto che non sono affari miei, che se davvero non ho ancora aperto gli occhi allora vuol dire che sono solo una stupida, che devo lasciarlo in pace e andarmene. Ha detto che non si farà più usare da me.»
«Aprire gli occhi riguardo a che cosa?» chiedesti, con lo sguardo vagamente assente.
«Non lo so. Secondo me era solo una scusa. Non ha avuto il coraggio di dirmi che mi ha mentito per tutto il tempo. Non mi sono mai sentita così umiliata.»
Mi guardasti pensieroso per un attimo, poi ti voltasti. «Quanto ti sei fermata da lui?»
«Ci ho messo due giorni per capire dove fosse e da lui sono stata solo qualche ora» risposi. «Ho passato il resto dell’estate da mia madre.»
«Perché non sei tornata qui?»
«Avevi detto che se me ne fossi andata non sarei più dovuta tornare.»
«E allora perché poi hai deciso di tornare?»
Non risposi. Non avevo il coraggio di dirti che avevo bisogno di tornare, che senza di te mi sembrava di impazzire, che mi sentivo come se mi mancasse un pezzo. Anche se era proprio quello che volevi sentirti dire. E nonostante avessi capito che anche se fossi tornata a casa nostra tu non mi avresti mai chiuso la porta in faccia, ancora non riuscivo dirti sinceramente quello che pensavo, avevo troppa paura della tua reazione.
Tra me e te c’erano troppe parole non dette, troppi “se”, troppi “forse”. Nessuno dei due aveva il coraggio di dire all’altro ciò che realmente provava, per paura di perderlo. Il rapporto che avevamo io e te era allo stesso tempo solido e precario. Non potevamo fare a meno l’uno dell’altro, ma eravamo legati da un filo talmente teso che da un momento all’altro avrebbe potuto spezzarsi. Tu non saresti mai riuscito ad andare avanti senza di me e neanche io. Ci avevo provato e avevo fallito. Tra me e te c’erano sempre attimi di tensione, c’erano volte in cui dovevamo cercare le cose giuste da dire per evitare di ferire l’altro, momenti in cui ci guardavamo e avremmo voluto con tutto il cuore saper leggere nel pensiero, occasioni in cui ci sfioravamo e ci guardavamo impauriti, come se quel singolo tocco, quella singola parola e quel singolo sguardo potessero bastare per farci allontanare.
Quando ti rendesti conto che non avresti mai ottenuto una risposta ti voltasti accennando un sorriso che mi fece stringere le viscere.
«Non importa» dicesti e io non ebbi il coraggio di guardarti.

 

«Te l’avevo detto che non sarebbe finita bene. Non mi hai voluto ascoltare. Non andare, Nadia.»
«Non so quando tornerò, spero presto e-»
«Se te ne vai non tornare più.»


In quel periodo lavoravo in un pub frequentato principalmente da ragazzi, lo stesso pub dove per un periodo hai lavorato anche tu. Quando poi hai smesso di lavorarci, hai cominciato a venirci con lui per farmi compagnia. Vi sedevate al bancone e stavate lì per un paio d’ore a scherzare tra una birra e l’altra, senza lasciarmi neanche uno spicciolo di mancia. All’epoca pensavo che non t’importasse che io stessi con lui e amassi lui, ero anzi convinta che fossi contento che i tuoi due migliori amici stessero insieme. Non mi accorgevo degli sguardi che ci lanciavi o dei momenti di silenzio carichi di risentimento. Non avresti mai aperto bocca sulla nostra relazione se io avessi tenuto sempre te al primo posto.
Era stato lui a farmi notare che c’era qualcosa che non andava, ma io avevo preso la questione con leggerezza, convinta che non avrebbe mai potuto capire il rapporto tra me e te, convinta che nessuno l’avrebbe mai potuto capire all’infuori di noi.
«Demetrio è strano ultimamente, non l’hai notato?» mi aveva detto un giorno, accarezzando con un dito il bordo del bicchiere.
Quella sera non c’era nessuno al pub, nemmeno tu, e io ero seduta in uno degli sgabelli davanti al bancone, strofinaccio in mano e capelli arruffati.
«Più strano del solito, dici?»
«Strano e basta» mi aveva risposto. «A volte lo sorprendo a fissarti. Mi dice cose facilmente fraintendibili, frasi buttate lì, apparentemente disinteressate.»
Quella volta l’avevo liquidato con un cenno della mano e gli avevo detto che evidentemente non ti conosceva così tanto bene se pensava che questi tuoi atteggiamenti fossero diversi da quelli che assumevi di solito. Solo più tardi mi sarei resa conto che probabilmente quella che non ti conosceva bene ero proprio io.
Il primo passo verso la comprensione dei tuoi comportamenti lo feci grazie a Tommaso, il barman, che vantava un’acuta capacità di osservazione e ascolto.
Durante una pausa dal lavoro mi ritrovai a fumare una sigaretta con lui davanti al locale e mi chiese che fine tu avessi fatto, mi disse che durante l’estate avevi lavorato anche tu lì e che ti eri licenziato appena io ero ritornata.
«Non so dove lavori adesso» gli risposi. «Non sapevo neanche che avesse lavorato qui, d’estate. Probabilmente adesso è troppo impegnato per lavorare.»
«Sta studiando molto? Mi aveva detto che contava di laurearsi entro l’anno prossimo.»
«Non è solo lo studio» risposi, con un tono di voce risentito. «Una settimana fa è tornato a casa con una macchia di rossetto sul colletto della camicia.»
Tommaso rise con la risata di chi la sa lunga, prima di guardarmi con uno di quei sorrisi che io avrei rivolto solo ad un bambino che non riesce ad imparare a scrivere.
«Demetrio è stato intrattabile per tutta l’estate» mi disse, e io mi chiesi dove volesse andare a parare. «Era più cattivo del solito, una volta ha fatto piangere una cameriera che si era presa una cotta per lui. Le ha detto che se avesse voluto una donna mezza nuda che gli girasse intorno avrebbe chiamato una prostituta. Non sono riuscito a farci una conversazione per più di due mesi: appena gli rivolgevo la parola, mi rispondeva in modo freddo e acido. Arrivava sempre distrutto, senza salutare nessuno, e tutti noi ci chiedevamo che diavolo facesse quando non era qui.»
Ascoltai le parole di Tommaso con estrema attenzione, come se ne fossi rapita. Dentro di me le viscere cominciavano a muoversi e dimenarsi, come nel tentativo di uscire. Le sentivo farsi sempre più piccole e un senso di colpa abissale stava arrivano fino alla mia gola.
«Una volta l’ho sentito parlare al telefono. Penso che stesse parlando con quel ragazzo con i capelli rossi, quello che veniva sempre qui. Se non sbaglio aveva fatto il suo nome, ma adesso non me lo ricordo.»
Il riferimento a lui mi fece sussultare, ma lo incalzai ad andare avanti con un gesto della mano.
«Ho sentito solo che gli diceva che qualcuno non se ne doveva andare, che era colpa sua se questa persona era andata via, che non aveva capito niente. E che non avrebbe più dovuto rimettere piede in questa città.»
Sussultai di nuovo. Tommaso se ne accorse e fece finta di niente, guardando l’orizzonte del mare reso chiaro dalla luce della luna. Fu in quel momento che mi resi conto di tutto il male che ti avevo fatto. E mi sentii un verme.


Quel pomeriggio mi svegliò il profumo del caffè, ma decisi di rimanere ancora un po’ con gli occhi chiusi, sdraiata sul divano. Io e te non ci eravamo ancora visti dal giorno in cui avevo parlato con Tommaso e mi sentivo troppo in colpa anche solo per guardarti. In quel periodo ricordo che i miei pensieri erano un flusso continuo e confusionario, che il solo averti nella stessa stanza con me mi provocava uno scompiglio interiore che non avevo mai provato e non sapevo che cosa voleva dire o che cosa avrei dovuto fare.
«Svegliati» dicesti facendomi spalancare gli occhi.
Eri talmente vicino a me che i nostri nasi potevano quasi sfiorarsi, talmente vicino che il tuo respiro mi solleticava le guance. I tuoi occhi quasi grigi mi scrutavano.
Ci guardammo a lungo, io sorpresa e tu con quello sguardo, quello che io non capivo e non avrei capito per molto tempo: quello sguardo glaciale, brillante e forse un po’ ostile. Ti girasti dall’altra parte e ti allontanasti, avvicinandoti ai fornelli per prendere il caffè.
«Da quando arrossisci se mi avvicino?» mi chiedesti, con un tono disinteressato.
Mi toccai il viso con una mano e solo in quel momento mi accorsi dell’abbondante flusso di sangue che mi riscaldava le guance. Accorgendomene, arrossii ancora di più. «Non sono rossa» mentii spudoratamente.
La tua risata sprezzante venne interrotta dal suono del cellulare, che ignorasti senza troppi problemi dopo uno sguardo veloce.
«Chi era?» chiesi, rendendomi subito conto che non me l’avresti mai detto.
«Come se fossero affari tuoi» ghignasti, sarcastico, versando il caffè anche nella mia tazzina.
«Era la ragazza del rossetto?»
Mi resi conto solo dopo averti fatto quella domanda che probabilmente era l’unica che non avrei dovuto farti. Capii dal tuo sguardo pieno di soddisfazione, dal tuo sorriso storto e dal tono di voce che usasti che stavi aspettando solo che ti chiedessi una cosa del genere.
«Prima arrossisci e adesso fai la gelosa? Che ti prende, Nadia?» mi chiedesti, avvicinandoti sempre di più a me, che ero in piedi e immobile al centro della stanza.
Alla tua domanda avvampai di nuovo, stringendo i pugni fino a far diventare le nocche bianche. Vincevi sempre tu.
Respiravo profondamente mentre tu ti facevi sempre più vicino e non ti risposi, sapevo cosa voleva dire il tuo sguardo e sapevo cosa si nascondeva dietro le tue parole: erano rare le volte in cui tu correvi il rischio che io non capissi cosa volevi dirmi. In quel momento non ti andava giù il fatto che per tre mesi fossi scomparsa e poi, una volta tornata a casa, avessi ricominciato a comportarmi da fidanzatina gelosa, come avevo sempre fatto con te nonostante fossimo legati da nient’altro che amicizia.
Alzasti piano una mano e con due dita mi sfiorasti una guancia, facendomi rabbrividire, facendomi spalancare ancora di più gli occhi. Ero bloccata, tu avvicinavi sempre di più il tuo viso al mio e pregavo che non volessi fare proprio quello, perché non avrei avuto la forza né il coraggio di oppormi, perché se tu l’avessi fatto le cose sarebbero cambiate per sempre e io invece volevo solo che tornassero come prima.
«Dem…» mormorai, con voce spezzata, e tu ti fermasti a pochi centimetri dal mio viso. «N-non lo fare.»
«Fare che cosa?» dicesti, con voce alta e sicura, spostandoti e continuando a guardarmi intensamente. Ti appoggiasti al ripiano della cucina e cominciasti a sorseggiare il caffè, come se non fosse successo nulla, come se volessi dimenticare ciò che stavi per fare e volessi che lo dimenticassi anch’io. I tuoi momenti di debolezza dovevano sempre passare inosservati, nessuno doveva farteli notare, nessuno doveva comportarsi con te come tu ti comportavi con gli altri.
«Stavi per…» cominciai, imbarazzata ma decisa a non fartela passare liscia anche quella volta. «Eri…»
«Non volevo fare quello che stai pensando» dicesti, con un sorriso strano, amareggiato.
«E che cosa volevi fare?»
«Volevo capire.»
«E hai capito?»
«Anche troppo.»
Poggiasti la tazzina sul lavandino e afferrasti il pacchetto di sigarette dal davanzale, andandotene dalla cucina.




«Ti comporti sempre da vero stronzo con le persone. I miei amici non capiscono come faccia io a passare così tanto tempo con te.»
«Non mi aspetto che i tuoi amici possano capire qualcosa.»
«Non li conosci neanche. E non mi piace che parli così di loro.»
«Abituatici. E non ti fidare troppo.»
«Perché?»
«Non mi piacciono. E poi non ci si può mai fidare tanto delle persone, e tu sei ingenua. Le persone se ne vanno, quando si stancano, e chi si fida troppo ci rimane male.»
«Conosco loro da più tempo di te.»
«Beh, io rimarrò sempre qui.»
«Anche io. Non me ne andrò mai, Dem.»
«Ti ho detto di non chiamarmi così.»


 

Ed eccoci al secondo capitolo. Colgo l'occasione per ringraziarvi infinitamente per le recensioni, per le letture, per i preferiti e i seguiti. Non sapete quanto mi avete reso felice :)
Spero che anche questo capitolo vi piaccia e vi invito a farmi sapere qualsiasi cosa, critiche comprese, ovviamente!
Ringrazio nuovamente Adrienne che mi ha spinto a continuare a scrivere questa storia; l'ha vista nascere, crescere, morire, poi nascere ancora, poi morire di nuovo, tanto da averla chiamata "la storia infinita"!
Un bacio
Fede

   
 
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