Videl
gli sorrise, preferiva di gran lunga quel Gohan, il dolce ragazzo di cui si era
innamorata e non il padre autoritario e intransigente. Era convinta che fosse quella
la sua vera versione e la rabbia fosse dovuta in parte al suo essere sayan e in
parte all’amore che provava per sua figlia che lo spingeva a proteggerla sopra tutto
e tutti.
Si rese
conto che non vi era nulla che potesse fare contro l’inevitabile destino che intrecciava
le vite dei Saiyan e la loro discendenza; si era impegnato a proteggere sua figlia,
aveva impedito con determinazione alla natura aliena di occupare un posto nelle
loro vite, ma il risultato era stato deleterio, auto sabotatore.
La pioggia battente gli
scivolava addosso, eppure non aveva il potere di lavare via i sensi di colpa. La
sua bambina lo aveva invocato inconsapevole del rischio in cui suo padre l’aveva
cacciata. Non era sicuro di essere in grado di proteggerla e quello era il pensiero
più triste che la sua mente avesse mai sfiorato. L’impotenza era tra le sensazioni
peggiori che lui avesse mai provato. Si passò il palmo sul volto per togliere le
gocce d’acqua che grondavano sulle sue guance, ma fu tutto inutile sotto il temporale
che era scoppiato e che non accennava a placarsi. Sua moglie non gli aveva raccomandato
altro che coprirsi per salvaguardare la sua salute, ma, come era ovvio che fosse,
Ron non le aveva dato retta, specie in quelle condizioni di trepidazione.
Albus stropicciò con disprezzo
in un pugno una parte della stoffa della divisa dei Serpeverde. Ad Harry non sfuggì
affatto la reazione del figlio e non era certo un bene percepire la propria Casa,
quella a cui avrebbe appartenuto per sette lunghi anni, come una prigione. Anche
lui non si era sentito parte dei Grifondoro ai tempi del suo Smistamento, ma quella
era tutt’altra storia.
Lo afferrò per mano e lo
scortò in prossimità dell’altare, nuovamente fiduciosa in lui e nelle sue buone
intenzioni. A Rose non importava cosa comportasse diventare la signora Malfoy, Scorpius
lo poteva facilmente intuire, ma lui ne aveva terribilmente paura, temeva che quel
nome potesse ferirla e lui non l’avrebbe mai permesso.
La sua giovane sposa gli
porse una carezza sul petto, invitandolo a seguirla in cucina e lui si arrese afferrandole
la mano per lasciarsi guidare. Ron non era ancora del tutto convinto della convivenza
con quel nuovo Grattastinchi, ma la fame iniziava a far brontolare il suo stomaco
e quella questione poteva essere rimandata di qualche ora.
Quando Christian aveva preso
la decisione di intraprendere quella carriera alla giovane età di diciannove anni,
non c’era nessuno a cui dovesse rendere conto per la sua vita; all’epoca era intraprendente
e temerario, un ragazzo del tutto abbandonato a se stesso che era alla ricerca disperata
del suo posto nel mondo; non aveva di certo previsto di imbattersi in una newyorkese
venuta da lontano che in futuro sarebbe diventata la sua compagna di vita e la madre
dei suoi figli.
Forse fino a quel momento
si era persa tra le sue braccia senza porsi troppe domande; ora lo stava fissando
con più attenzione e aveva notato nei suoi gesti e sul suo viso i chiari segni del
nervosismo. Avevano trascorso insieme la sera precedente, impegnati al Pershing
Square a fare a gara per chi avesse visto più stelle cadenti; lui la prendeva in
giro divertito quando non aveva idea su cosa desiderare ed era vero, aveva tutto:
un lavoro – che sicuro dopo un iniziale spaesamento le sarebbe piaciuto – e un uomo
che l’amava. Qualche ora prima Samuel sembrava più tranquillo; Margaret non conosceva
molte spiegazioni valide, solo il matrimonio imminente, la cerimonia e tutto ciò
che comportava avrebbe potuto destabilizzarlo, d’altronde anche lei, se si fosse
soffermata a pensarci, avrebbe provato tanta eccitazione. La ragazza provò a distendere
la tensione, alludendo ad uno dei risvolti più affascinanti della cerimonia, o almeno
per lei era così, sperando che l’argomento di distrazione fosse piacevole anche
per lui.
Una fitta nebbia era scesa
su New York, era la nebbia di settembre che preannunciava la fine dell’estate; era
ancora visibile il museo a cielo aperto che aveva rimpiazzato le Twin Towers a Ground
Zero e che concretizzava la dolorosa ferita mai rimarginata. Il memoriale ai caduti
scorse in successione rapida davanti agli occhi della newyorkese prestata al caldo
oceano della California; erano per lei nomi sconosciuti, eppure, come per ogni altro
testimone del tragico evento, anche per Katherine quel maledetto giorno il tempo
si era fermato per infiniti minuti. Aveva compiuto da un mese diciotto anni, quando
un boato squarciò il cielo sopra le loro teste; aveva appena terminato il suo ultimo
anno di liceo con ogni buon proposito per il futuro. Erano state evacuate tutte
le scuole e tutti gli edifici pubblici; era scattato l’allarme in ogni distretto
cittadino, buona parte degli abitanti aveva pensato al peggio, fino ad ipotizzare
ad una vera e propria guerra. Il conflitto era scoppiato davvero, da quell’11 settembre
2001 niente era più stato lo stesso per migliaia di famiglie. Non avrebbe mai creduto
che il suo destino un giorno si sarebbe intrecciato all’attentato che all’epoca
aveva sconvolto l’anima di molti; sposare Christian aveva donato splendore alla
sua vita, ma suo marito non era solo un uomo, era un Navy SEAL, lo era diventato
prima che si conoscessero.
Appena fuori dalla torre,
si concesse qualche istante per riacquistare lucidità. Si accomodò per terra sopra
i ciottoli, ma non sentì dolore fisico. Gli sembrò di vivere nella peggiore distopia,
non sapeva come modificare la realtà e nemmeno se lui avesse la reale facoltà per
poterlo fare. Il conato di vomito tornò a bussare al suo stomaco, ma non mangiava
nulla da ore, perciò non riuscì nemmeno a liberarsi del macigno che stava nascendo
nel suo petto. Pianse silenziose lacrime amare, era troppo doloroso sapere di essere
a pochi passi dal luogo in cui si stava consumando più di un efferato crimine e
avere le mani legate.
Nathan azzardò un blando
invito. Delilah gli avrebbe voluto dire che gli mancava, che l’invito che le aveva
mosso era troppo poco per ciò che avevano vissuto e esagerato per due che dovevano
sopportare una distanza forzata per riuscire a voltare pagina. Gli avrebbe voluto
dire Nathan, non ti affannare a cercare la nostra certificazione di matrimonio,
io non voglio più divorziare. Più di una voce suggeriva alla dottoressa di tornare
sui suoi passi, la loro separazione era stata una prova sufficiente: era molto più
semplice soffrire insieme, piuttosto che separati. Sperò che lui cogliesse i suoi
pensieri, decifrasse la tristezza che l’aveva inondata.
Era sdraiata sul pavimento
caldo, ricoperto da tappeti; la prima immagine che gli occhi le restituirono fu
quella di un uomo riverso prono accanto a lei, era rimasto schiacciato da un pezzo
di parete e per lui non c'era stato alcuno scampo. Se un attimo prima l'intorpidimento
le aveva concesso uno stato di quiete, la lucidità si era con prepotenza insinuata
nella sua mente mostrandole la cruda realtà: l’imam era morto. Le iridi dell'uomo
brillavano ancora di una luce intensa, benché la vita lo avesse ormai abbandonato;
i colori accesi non provenivano da un gioco di colore tra il sole e le tempere,
le vetrate erano esplose frantumandosi al suolo e sopra le loro teste. Gwen seguì
la traiettoria dell'espressione assente dell'imam e lo vide: un incendio stava divampando
all'interno della moschea a pochi metri da lei. Non poteva più aiutare l'uomo che
si trovava al suo fianco, ormai era un corpo senza vita, rivolse solo un pensiero
alla sua anima, credeva ed era certa si fosse salvata dall'inferno in cui si trovavano;
tentò di alzarsi, ma il dolore al ginocchio si trasformò in una lama che minacciò
di amputarle la parte inferiore della gamba. Si accorse con disperazione di essere
bloccata e di non poter fuggire, una parte della parete che aveva ucciso l'imam
teneva in scacco anche lei. Si ritenne spacciata, era certa che quella moschea,
una delle poche che era riuscita a visitare, si sarebbe trasformata nella sua tomba,
ma non aveva fatto i conti con il destino e soprattutto con la tenacia del suo superiore.
Samuel non seppe cosa rispondere.
Succedeva anche quello in Afghanistan, ogni giorno scopriva un lato oscuro e terribile
di quei luoghi così lontani dalla sua coscienza. L'ufficiale che aveva avuto modo
di conoscere non avrebbe mai commesso un crimine così vile e barbaro, non avrebbe
mai alzato un dito su una donna; non potevano essere tutti nobili al pari di lui,
non tutti gli uomini erano buoni in fondo, la guerra era una prova sufficiente.
Ora capiva la poca fiducia di Maryam verso i soldati, capiva le sue parole sulla
poca fede nel genere umano. La determinazione di Karim lo riportò al presente; la
debolezza fisica aveva in parte abbandonato l'infermo, nel dramma della scoperta
fu piacevole leggere tanto ardimento nell'espressione del medico.
Daniel non ricordava di
essersi mai soffermato così a lungo sull’immagine della primogenita; i suoi movimenti
erano aggraziati, rivide in quelle movenze – oltre il gesto particolare – la bambina
che non aveva avuto l’opportunità di crescere ed educare. Non era stato per Delilah
una figura costante, l’aveva reso padre, ma la loro lontananza fisica - la mancata
condivisione della quotidianità - non gli aveva consentito di diventare l’esempio
che la figlia avrebbe meritato; non possedevano lo stesso animo, forse era considerata
una fortuna da parte di Delilah. La vedeva per la prima volta, non avevano mai spartito
così tanto tempo senza battibeccare – senza che lei provocasse e lui si sentisse
punto nell’orgoglio.