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Autore: Adeia Di Elferas    30/04/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dopo il primo slancio che aveva portato Caterina a buttarsi tra le braccia di Baccino e il cremonese ad accettare quel caloroso benvenuto, i due si scostarono l'uno dall'altra con una sorta di strano imbarazzo.

Era da molto, davvero molto tempo che non si vedevano ed entrambi non volevano ricordarsi del loro ultimo incontro, a Roma, quando erano stati prigionieri del Borja. Sembrava trascorsa una vita intera, anzi, era come se tutto quel periodo, in quel momento, fosse per entrambi qualcosa di irreale, di mai accaduto veramente.

La Tigre osservava in silenzio, assorta e quasi incredula, il profilo del giovane che aveva davanti a sé. Anche se era passato qualche anno, lui era ancora un ragazzo, aveva passato da poco i vent'anni e il suo fisico scattante sembrava volerlo gridare al mondo. La donna non avrebbe saputo dire come avesse vissuto il cremonese, mentre era a Roma, ma di certo doveva aver trovato il modo di tenere i muscoli pronti e le mani impegnate. Queste, infatti, erano ruvide, come aveva sentito quando si erano abbracciati, e lasciavano intendere quanto avesse lavorato, per guadagnarsi il cibo. Le sue spalle larghe erano le stesse che lei ricordava di aver ammirato tante volte, quando ancora erano a Ravaldino, e nei suoi occhi c'era ancora – seppur un po' nascosta – quell'antica fiammella animata dalla sana arroganza della sua giovane età.

Indossava, però, abiti logori e sporchi, segnati non solo dal viaggio, che probabilmente era stato complicato, ma anche da una vita quotidiana difficile. La Sforza si chiese da quanto tempo, di preciso, Baccino avesse dovuto riprendere a fare l'uomo di fatica. Il prelato presso cui credeva di averlo sistemato in modo onorevole, in cosa lo aveva impiegato in realtà?

Il cremonese aveva i capelli mossi e scuri che cadevano fino alle spalle, pieni di nodi e un po' stopposi. Il volto era coperto da una barba folta e ingarbugliata. Aveva ragione Creobola: sembrava un mendicante. Era molto diverso dal soldato composto e ordinato che Caterina aveva fissato nei suoi ricordi.

“Magari vorrai darti una sistemata...” disse la donna, cercando soprattutto di rompere un silenzio che iniziava a farsi un po' strano: “Posso prestarti anche il rasoio di mio figlio Galeazzo... E posso chiedere a qualcuno di tagliarti i capelli...”

Baccino sorrise, scuotendo il capo divertito: “Agli ordini, mia signora.” rispose, strizzando l'occhio.

La Leonessa colse lo scherzo, e rise a sua volta. Senza volerlo, doveva aver parlato con lo stesso tono che aveva usato mille volte coi suoi uomini a Ravaldino, per convincerli a tenere un certo decoro.

Il cremonese rise ancora più forte, ma prima di parlare, si prese anche lui un momento per osservare la milanese.

Dimentico dei servi che ancora restavano al loro posto, incuriositi da quel siparietto, Baccino si soffermò prima di tutto sul volto di Caterina. I suoi lineamenti erano sempre i più belli che lui avesse mai conosciuto, duri e dolci nel contempo, e i suoi occhi verdi ramati erano resi vividi da un'inquietudine che non se ne andava mai, nemmeno quando le sue labbra piene si mettevano a danzare in una risata. I suoi capelli bianchi, sciolti, erano più sottili e meno numerosi, ma il cremonese poteva ancora vederli agitarsi come lingue di fuoco al vento in battaglia.

Mentre il riso si spegneva in entrambi, l'uomo passò a guardarla nel suo insieme. Era innegabile che le sue forme si fossero ammorbidite. Il passare del tempo e, forse, l'inattività, avevano fatto sì che il suo fisico matronale fosse appesantito. Laddove prima i muscoli guizzanti armonizzavano con i fianchi larghi e il seno pieno, ora il suo aspetto era molto più statico, statuario, mantenendo un'aura di forza, seppur di diversa provenienza.

“Accetto volentieri il bagno caldo.” sussurrò lui alla fine, mordendosi la lingua, prima di parlare troppo, di nuovo, improvvisamente, conscio della presenza dei servi: “Per... Per il resto, potreste darmi un aiuto voi?”

“Un tempo credo che ci dessimo del tu.” lo corresse Caterina, sentendo il collo scaldarsi e trovando la propria reazione sciocca, da ragazzina.

“Allora... Mi darai tu un aiuto?” sorrise Baccino.

La Tigre annuì e poi chiese: “Lo vuoi subito il bagno..?”

“Volentieri.” annuì lui e poi soggiunse: “Posso... Posso mangiare qualcosa?”

La Sforza si morse il labbro e si scusò dicendo: “Hai ragione... Dovevo pensarci subito. Vieni con me.” gli disse, e gli fece strada verso le cucine, gridando intanto ai servi: “Avete sentito? Un bagno caldo. Preparatelo nella... Nella stanza alla destra della mia.”

Baccino registrò l'informazione più importante, ossia che la Tigre aveva dato ordine di approntare la tinozza nella camera adiacente alla sua, ma quando parlò non vi fece cenno: “Vedo che hai ancora il bastone del comando.”

“La casa, alla fine, è come un quartiere militare.” ribatté la donna, tra il serio e il faceto: “Ma i servi sono molto più indisciplinati dei soldati.” e quasi a darle ragione, alle loro spalle si sentì in quel momento la voce di Creobola lamentarsi della sua padrona, nella fattispecie del modo in cui era corsa via senza dare spiegazioni per andare ad accogliere quello che a lei sembrava solo un 'barbone in cerca di elemosina'.

Arrivati in cucina, Caterina indicò la dispensa a Baccino e gli disse di prendere tutto ciò che voleva, o di dare ordini alla cuoca – che si stava addormentando vicino alla pentola in cui ribolliva la minestra per la sera – nel caso preferisse qualcosa di caldo.

L'uomo prese un pezzo di formaggio e del pane, poi chiese una ciotola della minestra che, seppur non pronta, gli sembrava ottima dal profumo, e infine si accaparrò un calice di vino e una brocca d'acqua.

La Tigre era indecisa se sedersi al tavolone assieme a lui o meno, ma quando il giovane le fece segno in modo eloquente di sistemarsi accanto a lui, non esitò più. Lo guardò in silenzio bere in fretta l'acqua, come se non ne toccasse un goccio da giorni, e poi le venne quasi da ridere nel vedere la voracità con cui divorò tutto quanto nell'arco di pochi istanti. Perfino la minestra, che era caldissima essendo appena stata presa dal paiolo fumante, finì nella gola del cremonese nel giro di un battito di ciglia.

Soddisfatto nel sentirsi lo stomaco pieno, Baccino fece un lungo sospiro e si grattò un po' la barba disordinata: “Era tutto ottimo.”

La Leonessa sollevò le sopracciglia: “Per quel poco che posso offrirti...” poi fu indecisa se porgli o meno la domanda più ovvia che, forse, avrebbe dovuto fargli fin dal principio, ossia perché era lì, ma l'unica cosa che le uscì dalle labbra fu invece: “Ci vorrà un po' prima che il bagno sia pronto, ma intanto, se vuoi, ti accompagno nella stanza in cui avrei pensato di alloggiarti, così potrai un attimo riposarti e poi...”

“Va benissimo.” annuì lui, alzandosi subito.

Ora si potevano vedere meglio le occhiaie che gli segnavano lo sguardo, così come si capiva quanto fosse stanco. Fermarsi un momento per rifocillarsi aveva fatto uscire di colpo tutta la fatica fatta negli ultimi giorni, o forse addirittura nelle ultime settimane.

“Se vorrai dormire un paio d'ore, prima del bagno, fai pure, ritarderò l'arrivo della tinozza... E poi ti farò cambiare le lenzuola, così stanotte le avrai pulite.” si trovò a dire Caterina.

Baccino ci pensò qualche istante, poi scosse il capo: “No, no, davvero, non sono così tanto stanco da dover dormire subito... Ho passato di peggio.” poi fece un sorriso aperto, sincero, e la punzecchiò: “Allora è proprio come a Ravaldino... Le tue povere serve ti odieranno, per tutte le volte che fai lavare loro le lenzuola...”

Anche la Sforza sorrise e confessò che le vecchie abitudini erano dure a morire. Poi, facendogli strada, si incamminò davvero verso la sua stanza. Lungo il tragitto gli chiese come fosse stato il viaggio, ma l'uomo minimizzò dicendo che era stato scomodo e fatico come qualsiasi altro viaggio in inverno.

Arrivati alla porta, la donna ancora non aveva saputo sollevare la questione del perché il cremonese fosse lì, né lui pareva aver intenzione di parlarne per primo. Così la Tigre la si limitò a mostrargli la camera, gli accese il fuoco nel camino e poi gli disse che l'acqua calda per riempire il tino – che era già in loco – sarebbe arrivata a breve.

“Non c'è fretta...” disse lui, occhieggiando verso il letto.

In quel momento fu chiaro che, malgrado quanto avesse detto lui stesso poco prima, il povero Baccino fosse esausto.

“Dormi un paio d'ore.” insistette Caterina: “O quanto vuoi tu... E poi ti faccio portare l'acqua.”

“Un... Un paio d'ore vanno benissimo.” accettò lui, continuando a guardare i guanciali gonfi e invitanti.

“Allora tra un paio d'ore ti faccio portare tutto.” fece la milanese, felice che alla fine il giovane avesse sentito ragione: “E quando avrai finito di lavarti, se vuoi verrò a darti una mano con i capelli e la barba.”

“Grazie.” disse lui e, senza aspettare altro tempo, si sfilò i calzari infangati e si buttò sul materasso.

Prima ancora che Caterina potesse aggiungere altro o chiudere la porta, Baccino stava già dormendo.

 

Antonio Giustinian stava aspettando di essere ricevuto dal pontefice. Era ormai sera e fuori, su una Roma già brulicante di gente per l'incoronazione del giorno seguente, stava scendendo una fitta e gelida pioggerella novembrina. Il veneziano, in tutta onestà, avrebbe preferito trovarsi nel suo alloggio, sotto due spesse coperte, a dormire.

Invece era più sveglio che mai. Sapeva che il momento era grave, e bastava questo fatto a tenerlo vigile anche dopo una notte passata insonne.

Aveva trascorso ore, infatti, a lambiccarsi su quanto appreso il giorno prima. I Cardinali di Volterra e Sorrento, che erano stati mandati a Ostia a parlare col Valentino, per farsi consegnare da lui i contrassegni delle fortezze romagnole, erano tornati con in mano un pugno di mosche.

Il Duca non aveva voluto consegnare assolutamente nulla e aveva anzi preteso che se il papa li voleva, doveva giurargli che, a tempo debito, glieli avrebbe restituiti, in modo formale e perpetuo. Il pontefice aveva reagito malissimo, mettendosi a gridare davanti ai Cardinali e a tutti i presenti, e aveva spiccato l'ordine di non lasciare uscire dal porto la galea su cui era il Valentino.

Non pago, Giulio II aveva già fatto preparare una cella molto angusta, a Castel Sant'Angelo, proprio per il Borja, e tutta Roma ne parlava. Si diceva perfino che anche su Miguel de Corella pendesse un ordine di cattura.

Giustinian, poi, era anche venuto a sapere che il papa aveva mandato dei messi a Forlì, a Imola e in altri luoghi della Romagna, per prendere accordi segreti con gli anziani, e che un cavallo era partito anche alla volta di Bologna, per il medesimo motivo.

Venezia che poteva fare, se il pontefice era pronto a tagliare fuori da ogni trattativa così il Doge?

A poco sarebbe servito, a quel punto, l'incontro che il veneziano aveva avuto la sera prima con il Cardinale Sansoni Riario, con cui Antonio si era preso il disturbo di ribadire che la Serenissima era pronta, anzi, prontissima a proteggere e accogliere i Riario...

Quando infine Giustinian venne ammesso alla presenza del papa, era così immerso nelle proprie elucubrazioni che accolse la voce del messo con un sussulto. Rimettendosi in fretta in ordine, però, recuperò mentalmente il discorso che si era preparato e, nel momento esatto in cui si trovò dinnanzi Giulio II seppe cosa dire.

Il pontefice, che pur non si era atteso di sentire l'oratore del Doge parlare per primo, tanto meno intrattenerlo per quasi mezzora con un lunghissimo monologo su quanto la Serenissima fosse riverente nei confronti della Chiesa, attese con pazienza che Giustinian finisse di parlare e poi espresse il suo compiacimento per le sue parole

“Sono molto felice di sentire che il Doge e Venezia tutta confidano in Santa Madre Chiesa – disse, chiedendosi se forse quell'incontro non stesse filando anche troppo liscio – e per conto mio io v'assicuro che il Valentino non riterrà neppure un castello della Romagna.”

“E se messer Borja dovesse trovare ospizio in terra straniera e rientrare in Romagna con uomini armati?” si premurò di chiedere Giustianian, fingendosi solo molto ingenuo e non molto sospettoso.

Il Della Rovere strinse le labbra e rivelò ciò che Antonio già in parte sapeva, ma che voleva sentir dire dal Santo Padre in persona: “Non lascerò che Cesare Borja lasci il porta di Ostia, fosse l'ultima cosa che faccio! Se proprio vorrà partire, prima dovrà consegnare in modo perpetuo ogni fortezza.”

“Ma lui non lo farà mai.” fece notare il veneziano.

“Appunto: non gli lascerò mai la strada libera.” annuì il papa, con gli occhi che si stringeva in un'espressione di rabbia pura: “Quel maledetto non lascerà Ostia di sua volontà. Se lascerà Ostia, lo farà in catene. Non dimentico mia cugina, portata a Roma in catene d'oro. Per lui non intendo spendere così tanto, ma delle catene di grezzo ferro andranno comunque bene...”

“E come intendete catturarlo?” si informò il veneziano, capendo che il sangue caldo di Giuliano lo stava facendo sbottonare più di quanto non volesse.

Il pontefice ci ragionò un brevissimo istante e poi, pensando che sarebbe bastato omettere alcuni dettagli per far sì che la Serenissima non avesse in mano sufficienti elementi per, eventualmente, aiutare per qualche motivo il Valentino, cominciò a raccontare, trasformandosi in un fiume in piena.

 

La cena, alla villa di Castello, era stata abbastanza silenziosa, anche se Sforzino, spronato da frate Lauro, aveva raccontato alla madre e ai fratelli alcune cose studiate quel giorno, sollevando i commenti ammirati della Tigre e quelli più camerateschi, ma altrettanto favorevoli dei fratelli. Solo Giovannino si era astenuto, per la troppa fatica di comprendere le parole del Riario, ma aveva comunque commentato quella lectio magistralis dicendo che Sforzino sembrava un vero Cardinale.

Tutti avevano sorriso a quelle parole, che per il Medici avevano un valore speciale, dato che nel lungo periodo trascorso in convento aveva spesso sentito le suore parlare dei Cardinali come di uomini intelligentissimi e coltissimi, e anche la Leonessa aveva concordato, sostenendo che Sforzino avrebbe potuto davvero intraprendere la carriera ecclesiastica, se avesse voluto.

“Ci dovrei pensare.” rispose lui, arrossendo un po' e abbassando lo sguardo sul piatto ormai vuoto.

Siccome nessuno voleva metterlo in ulteriore difficoltà facendogli domande sul suo futuro, Galeazzo – che poco prima di cena si era sentito chiedere in prestito il rasoio proprio per il cremonese – sollevò una questione che aveva cercato di tenere sotto silenzio, ma verso cui iniziava a provare una curiosità impossibile da mettere a tacere: “Quanto si fermerà messer Baccino?”

Oltre a lui, tra i figli della Sforza presenti, solo Bernardino sapeva cosa significasse quel giovane uomo per la madre. Sforzino, come età, aveva avuto modo di vederlo alla rocca e di ricordarsene, ma a Forlì, esattamente come a Castello, era sempre stato troppo immerso nei suoi libri per pensare in modo organico agli affari degli altri.

Giovannino, invece, che non aveva idea di chi fosse Baccino, era incuriosito e perplesso allo stesso tempo. Anche Lauro Bossi non ne sapeva granché, ma essendo un uomo di Chiesa, ma anche di mondo, poteva ben immaginare cosa un bel giovane come quel cremonese potesse essere stato in passato per la Tigre di Forlì.

“Non lo so, quanto si fermerà.” rispose evasiva la Leonessa, sorbendo un po' di vino.

“Come mai è qui?” chiese allora Bernardino, prendendo quasi per riflesso il calice di trebbiano che sarebbe stato di Galeazzo, ma che il Riario non aveva nemmeno toccato, in favore dell'acqua, e bevendo un lungo sorso.

La Sforza per un breve istante si rese conto che a quella tavola lei era l'unica donna. I suoi figli erano tutti maschi e l'unico altro convitato era il frate. Le era capitato spesso, ma di rado si era sentita giudicata duramente, pur senza nessuno che le muovesse accuse apertamente.

Così guardò in silenzio il figlio – che a giorni avrebbe compiuto tredici anni – bere e si trattenne dal fargli presente che era troppo giovane per il vino a quel modo, e poi rispose alla domanda: “Non lo so.”

“Chi è Messer Baccino?” domandò allora Giovannino, corroso dalla smania di capire perché quel nome stesse creando quel clima teso attorno alla tavola.

“Un valoroso soldato di nostra madre, che l'ha aiutata molto e che ora ha bisogno della nostra ospitalità.” tagliò corto Galeazzo, finendo l'acqua che gli era rimasta e poi chiedendo, con un filo di nervosismo che alla madre non sfuggì: “Posso alzarmi da tavola?”

“Sì, abbiamo finito tutti di mangiare...” annuì Caterina e, imitandolo, si alzò e lo seguì fuori, mentre gli altri, parlottando tra loro, lasciavano a loro volta il desco.

Il Riario aveva accelerato un po' il passo, quasi non volesse farsi raggiungere dalla madre, ma la donna sapeva ancora come recuperare una mezza fuga di quel genere, e così in pochi istanti gli fu accanto.

Ormai erano lontani dagli altri e così la milanese poté parlare liberamente, anche se a voce molto bassa: “Grazie per quello che hai detto a Giovannino.”

“Non potevo dirgli che era uno dei vostri amanti.” il tono duro del Riario sorprese un po' la Leonessa, che era stata sempre abituata a considerarlo il più comprensivo dei suoi figli.

“Hai ragione.” gli disse, deglutendo: “Ti infastidisce che sia qui?”

Galeazzo si morse le labbra carnose e poi, evitando lo sguardo della donna, con immensa fatica, rispose: “No... Ma è solo che... Con messer Fortunati vi vedevo felice. Vi dà stabilità. Vi tranquillizza. Ho solo paura che tutto cambi di nuovo.”

In quel momento Caterina comprese l'inquietudine del figlio, la paura di vederle rovinare quella che era una parvenza di normalità in cambio di una vecchia passione. Il Riario era andato più avanti di lei, nell'immaginare il futuro...

“Ve lo chiedo solo per i miei fratelli e per Pier Maria.” sussurrò Galeazzo, in fretta, vedendo Giovannino che arrivava di corsa: “Non sta a me dire cosa dobbiate fare o meno, vi chiedo solo di non complicare tutto, se è possibile.”

Senza sapere come ribattere, la madre annuì appena e poi sussurrò: “Io... Io farò quello che posso.”

Galeazzo non sembrava troppo convinto, ma alla fine si ammorbidì e proprio mentre Giovannino lo chiamava, per attirarne l'attenzione e chiedergli qualcosa su come funzionassero i falconetti, il ragazzo concluse: “So che farete quello che è meglio per voi. E quindi anche per noi tutti.”

Caterina lasciò che il piccolo Medici trascinasse via il Riario e poi attese con pazienza che anche tutti gli altri le sfilassero accanto augurandole una buona notte.

“Che sia una santa notte, Madonna.” le disse Bossi, con un sorrisetto irritante: “Intendo santa, mi avete capito.”

Ci vollero un paio di minuti buoni, prima che la Tigre si sentisse pronta ad andare nelle sue stanze a recuperare il rasoio che aveva chiesto in prestito a Galeazzo. Con la lama in mano, arrivata davanti alla porta della stanza che aveva offerto a Baccino, la donna rimase indecisa su cosa fare.

Alla fine bussò e sorrise istintivamente nel sentire il cremonese risponderle di entrare pure.

“Ti ho portato questo.” disse la milanese, sollevando il rasoio e cercando di non guardare verso il suo ospite.

L'uomo era immerso nella tinozza fino a metà petto, lasciando ben in vista le spalle larghe. Aveva i capelli e la barba bagnati, e il profumo degli olii districanti che lei si era premurata di fargli avere spandeva nella stanza un'atmosfera molto rilassante.

“Per fortuna ti hanno già lasciato i teli... Me n'ero dimenticata...” fece Caterina, vedendo le stoffe posate sul letto rifatto: “E ti hanno cambiato le lenzuola, hanno fatto bene... Comunque, se vuoi stare ancora un po' in acqua, io...”

Vedendo che la Tigre stava per andarsene, dopo aver posato il rasoio sul tavolinetto, Baccino allungò un braccio in aria e disse: “No!” poi si calmò e riprese: “Ti prego. Resta e aiutami, come avevi detto... E poi l'acqua ormai sta diventando fredda...”

Senza esitazioni né imbarazzi, il giovane, non appena disse così, si alzò in piedi, e tese la mano verso il telo da bagno, che era troppo lontano. Aveva dei segni, sulla schiena, che potevano essere solo le cicatrici lasciate da qualche frustata, ma per il resto il suo corpo era lo stesso che la Sforza ricordava.

La Leonessa, che non era riuscita a non fissarlo, mentre si mostrava a lei nudo con tanta naturalezza, si mosse con un attimo di ritardo, ma l'anticipò comunque e gli porse il telo.

Il giovane si asciugò con calma, e poi, scuotendo da solo il capo, sussurrò: “Perdonami, forse non dovrei prendermi tutta questa confidenza... Però prima, noi...”

Caterina non lo stava ascoltando. Riusciva solo a sentire l'odore della sua pelle, mescolato a quello degli olii da bagno, e ritrovandoselo così vicino non poté reprimere un moto che le sorse dal profondo dell'anima.

Non era solo attrazione per quell'uomo che per lei, nel bene e nel male, era stato importante, ma anche la voglia di capire se con lui sarebbe stato davvero più facile. Dopo il Valentino, era riuscita a cercare la vicinanza solo di Fortunati, un uomo mite e che l'amava, ma la sfrontatezza di Baccino, la sua giovinezza, il modo in cui, ricordava, l'aveva saputa amare... Sarebbe riuscita a fronteggiarlo o si sarebbe di nuovo frantumata in mille pezzi?

Baccino stava per aggiungere ancora qualcosa, ma venne interrotto in modo quasi brusco dalla Leonessa che, afferrandolo per le braccia, lo guardò negli occhi per qualche istante. Incurante del telo che scivolava in terra, il cremonese accettò immediatamente le labbra della Tigre e la strinse a sé, felice di poterla di nuovo avere tra le braccia in carne e ossa, e non più solo come ricordo fumoso nelle notti solitarie passate a Roma.

“Non sarà semplice. Per tanti motivi.” gli disse lei, quando trovò la forza di allontanarsi un istante.

Baccino allargò le spalle: “Abbiamo fatto una guerra insieme, non può esserci nulla di troppo difficile, per noi.”

Pervasa da un'euforia che non provava da anni, Caterina sorrise e gli diede ragione e poi, tornando a baciarlo, pensando che le spiegazioni, che la storia di Fortunati, che i dubbi e le paure, che tutto quanto poteva aspettare. E Baccino, dal canto suo, non le diede il tempo di ragionare oltre, afferrandola con impeto e portandola verso il letto, che, grazie alle lenzuola lavate di fresco coi ritrovati della Leonessa, profumava di essenza di limone e di cedro candito.

   
 
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