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Autore: Cathy Holland    30/04/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
A causa di un problema tecnico, l'aggiornamento della storia è sospeso fino a martedì 21 maggio, poi riprenderà regolarmente.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 15
UN AFFARE COMPLICATO

 

 

 
Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

 

 
Calogero si rivelò essere un ristorante sulla spiaggia. Da un lato affacciava sulla litoranea che costeggiava il mare e serpeggiava intorno all’isola abbracciandone l’intero perimetro, dall’altro su una breve striscia di sabbia e sassi. Era l’unica spiaggia di Santo Stefano che Vittoria aveva visto fino ad allora che non fosse completamente rocciosa. Il ristorante era una struttura di legno bassa, su un solo piano, dipinta di un giallo e un azzurro allegri e intensi. Dava l’impressione di essere un posto semplice, ma quella vicinanza al mare lo rendeva spettacolare. Dalla strada Enrico condusse la sua BMW nel parcheggio adiacente al ristorante, sotto una tettoia che proteggeva le auto dal sole cocente.
«È il miglior ristorante di pesce di tutta l’isola. E anche fuori da Santo Stefano. Ho provato tanti posti, ma Calogero unico è» spiegò Enrico. Spense piano il motore.
Vittoria aprì la portiera, un po’ esitante. Un ristorante di pesce? E adesso cosa avrebbe dovuto fare? Valutò in fretta le sue possibilità e scoprì che ce n’era soltanto una. Non voleva rovinare quel pranzo per niente al mondo, ma non poteva neanche nascondere il cibo nel tovagliolo e gettarlo via. Si morse il labbro per un attimo.
«Wow. È molto bello. Non vedo l’ora di assaggiare il suo… menù vegetariano.» Forse avrebbe potuto trovare un modo migliore per dirlo, ma ormai era fatta.
Enrico si bloccò mentre scendeva dalla macchina, metà dentro e metà fuori, una mano ancora sul volante e l’altra sulla portiera spalancata. La fissò. Non sembrava arrabbiato o seccato. La sua espressione, mezza nascosta dagli immancabili Rayban, era difficile da leggere. Vittoria gli fece un sorriso tenue di scuse e intanto desiderava che l’asfalto bollente del parcheggio si aprisse all’istante e la inghiottisse. Aveva rovinato tutto. Era andata così bene fino a quel momento. Lui ci mise qualche istante a riordinare le idee e quando parlò la sua voce suonò incolore.
«Avrei dovuto chiedertelo.»
Lei fece un gesto noncurante con la mano. «Non c’è problema. Avranno un’insalata, no?»
«Hanno un menù vegetariano» rispose lo zio, chiudendo la portiera. Si incamminarono verso l’ingresso. «Calogero è un tradizionalista, per quanto riguarda la cucina. È stato suo nonno, un altro Calogero, a creare questo posto. Ma si è adeguato ai tempi.» Parlava a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di Vittoria. Lei si chiese se ci fosse rimasto così male. Non le sembrava tanto grave, eppure era cambiato qualcosa nell’aria, tra di loro. «Da quanto sei vegetariana?» le domandò lui all’improvviso, dopo una pausa.
«Da quando avevo nove anni e uno dei miei insegnanti ha fatto vedere alla classe un video sugli allevamenti di animali intensivi» spiegò Vittoria, mentre salivano due gradini e varcavano l’ingresso del ristorante. Sulla porta a due battenti di legno bianco stazionava l’insegna “Da Calogero”, una scritta gialla su sfondo azzurro. Più avanti un’altra porta, a vetri smerigliati, dava accesso alla sala.
Enrico contorse il viso in una smorfia. «Non mi sembra una grande idea.»
«Non lo è sembrata neanche a molti genitori» fu il neutro commento di Vittoria. Dopo aver visto il documentario, non aveva dormito per settimane, tormentata dalle immagini sanguinarie e violente. Ebbe la sensazione che lo zio stesse per scoppiare a ridere, poi qualcuno si avvicinò a passo svelto.
«Dottor Falconeri, qua siete! Che piacere! Buongiorno!»
Era un uomo tra i sessanta e i settanta, che aveva parlato con un accento siciliano anche più pesante di quello di Edoardo, come se masticasse e storcesse le parole nella bocca. Era basso, con la pancia prominente sotto il grembiule bianco legato in vita e un’espressione gioviale negli occhi scuri, sotto un ciuffo di capelli sale e pepe.
Enrico gli sorrise. «Buongiorno, Calogero. Come stai?»
«Non c’è male, dottore, non c’è male! Un po’ di sticchiara,¹ ma non ci possiamo lamentare.»
Enrico ebbe un momento di esitazione, poi accennò con la testa verso Vittoria. «Ti presento mia nipote, Vittoria.»
Il vecchio fece una faccia buffa, come se avesse mancato un gradino scendendo le scale e all’improvviso si fosse trovato il vuoto sotto i piedi. Sarebbe stato meno sorpreso se Enrico avesse detto che era un’aliena appena arrivata da Marte. Vittoria represse una mezza risata, abbassando lo sguardo, ma al tempo stesso un velo di fredda inquietudine le sfiorò la schiena. La sua famiglia era un affare complicato anche per gli altri e lei non ne sapeva praticamente nulla. Si domandò se andare al baglio da sola, parlare con lo zio, essere qui da sola con lui non fosse tutto un gigantesco errore.
«Un onore è, signorina» la salutò Calogero, riprendendosi in fretta. Le sorrise e accennò un inchino scherzoso. «Il solito tavolo, dottore?»
«Sì, grazie.»
«Accomodatevi, prego.»
Li guidò attraverso la sala, piena di tavoli di legno bianco rivestiti da tovaglie di carta svolazzanti bianche e blu, quasi tutti occupati. Le pareti erano decorate da disegni a colori vivaci e, guardando meglio, Vittoria capì che rappresentano la vita sottomarina: coralli, alghe ondeggianti, pesci di varie forme, colori e dimensioni e perfino una grotta debolmente illuminata da un fascio di luce che proveniva dalla superficie dell’acqua. Erano bellissimi. Si sarebbe fermata volentieri a osservarli meglio, ma Calogero si muoveva con una rapidità e un’agilità sorprendenti, schivando i tavoli e i camerieri di passaggio come in una corsa a ostacoli, e fu costretta ad affrettarsi. Varcarono una porta finestra e uscirono su una terrazza che affacciava direttamente sulla spiaggia. Era coperta da una tettoia e circondata da una bassa ringhiera gialla nella quale si apriva un cancelletto. Da lì, dopo pochi gradini, si scendeva sulla sabbia. La distesa di mare e cielo davanti a loro mozzava il fiato. Calogero li scortò a un tavolo per due in un angolo piacevolmente ventilato. Sollevò i bicchieri messi a rovescio sulla tovaglia con un unico movimento fluido.
«Vi raggiungo subito» disse, prima di allontanarsi con la stessa velocità.
Vittoria sedette lentamente, senza smettere di guardarsi intorno. «Che posto» mormorò, più a se stessa che allo zio. Le venne in mente lo struggente romanticismo che quella terrazza avrebbe avuto al tramonto, con il suono dolce delle onde, il profumo di salsedine e la brezza carezzevole sul volto.
«Sono contento che ti piaccia» rispose Enrico.
Vittoria fu colpita all’improvviso da un’idea. «Allora… Tu… Vieni qui con la tua fidanzata?» chiese e subito dopo fu tentata di insultarsi da sola per quella goffaggine. Non sapeva nulla della vita privata di Enrico. Non si era mai azzardata a fare domande ai suoi genitori su un argomento così bizzarro, ma la conversazione di quella mattina con il nonno e quell’idea assurda che le aveva suggerito (Quando due fratelli si innamorano della stessa donna…) le aveva fatto venire voglia di indagare. Lui si sarebbe offeso per una tale mancanza di discrezione? In fondo si conoscevano a stento, lei non aveva alcun diritto di impicciarsi. Sentì le guance andare a fuoco e fissò la tovaglia, cercando di apparire normale.
Enrico si era sollevato gli occhiali da sole sulla testa, finalmente. La guardò con aria sorpresa, ma non sembrava irritato. «Fidanzata? Chi te lo ha detto?» Prese il menù, che era sul tavolo in mezzo a loro, e glielo porse con uno dei suoi soliti gesti misurati. Sembrava sempre che non volesse occupare più spazio del necessario o attirare l’attenzione. «Tieni. A me non serve, lo conosco a memoria.»
Vittoria afferrò il cartoncino e lo fissò senza vedere niente. «Ehm… Non lo so, devo averlo sentito… Forse da qualcuno al baglio» balbettò. Meglio restare sul generico.
«Non c’è nessuna fidanzata, al momento. E comunque, di solito vengo qui da solo.»
«Ah.» Vittoria strinse il menù tra le dita. Per un folle attimo pensò di chiedergli spiegazioni su quello che le aveva detto Edoardo. Immaginò l’espressione che avrebbe visto sul viso di Enrico, le balbettanti spiegazioni che lei avrebbe cercato di tirare fuori, l’imbarazzo che si sarebbe aperto tra loro come una voragine e avrebbe inghiottito qualsiasi possibilità di stabilire un contatto, creare un legame, ricucire il filo spezzato. Non avrebbe fatto altro che danneggiare irrimediabilmente la situazione. Era troppo presto. Meglio aspettare e forse, prima o poi, l’occasione sarebbe arrivata. Batté precipitosamente in ritirata. «Scusami, io… Non sono affari miei.»
La postura di Enrico era rigida, ma le sorrise e Vittoria capì che non era infastidito. «Non c’è problema. Non ti preoccupare.»
Furono salvati da Calogero, che scelse il momento perfetto per raggiungerli brandendo un piccolo blocco per appunti e una matita. A quanto pareva, non si era ancora adeguato ai tempi abbastanza da prendere nota delle ordinazioni su un tablet.
«Pronti siete? Se permettete, oggi consiglio i calamari ripieni. Li fece mia moglie» proclamò con orgoglio. Vittoria gli sorrise.
«Lascio fare a te. Mi fido» rispose Enrico e il vecchio quasi si gonfiò come un palloncino pronto a balzare in volo.
«Benissimo, dottore! Anche per voi, signorina? Vi garantisco che sono talmente freschi che fanno svegliare pure i morti, con rispetto parlando.»
Il sorriso di Vittoria si trasformò in una mezza risata nervosa mentre lanciava un’occhiata divertita a Enrico. «Meno male che sono viva, allora, perché dovrò accontentarmi del menù vegetariano.»
Calogero ci rimase un po’ male. Si voltò verso Enrico, in cerca di conferma, e lo zio alzò appena le spalle, la bocca distesa in un sorriso. Anche stavolta il vecchio si riprese immediatamente.
«Non vi preoccupate, signorina, la nostra pasta alla norma è la migliore di tutta la Sicilia.»
«Confermo» disse Enrico a bassa voce, l’ombra del sorriso ancora sul volto. Allungò la mano e strinse delicatamente lo stelo del bicchiere da vino tra le dita. «L’ho provata.»
Il proprietario del ristorante chinò leggermente la testa, raggiante. «È un onore, dottore. Vi faccio anche una bella caponatina che non vi farà rimpiangere i calamari, promesso, signorina.» Calogero prese nota delle ordinazioni e si allontanò dopo aver concluso con deferenza: «Vi servo subito.»
Vittoria lo seguì con gli occhi. Al tavolo scese un breve silenzio e stava già pensando a come romperlo prima che annegassero entrambi nell’imbarazzo, quando lo zio parlò, cogliendola di sorpresa.
«Sei sveglia.»
Si voltò e si accorse che la stava osservando. Ci mise un attimo a capire che era un complimento. «Grazie» mormorò con un sorriso incerto.
Enrico si mosse sulla sedia, cambiando posizione. «Ti starai annoiando un bel po’, qui. Tutto il giorno al baglio, senza nessuno della tua età, sempre a suonare il pianoforte.»
«Io vivo per il pianoforte.»
Arrivò una ragazza minuta e sorridente con una brocca d’acqua e una bottiglia di Falconeri bianco. Restarono in silenzio mentre lei riempiva i bicchieri.
«Ti piace così tanto?» continuò Enrico, dopo che la cameriera se ne fu andata.
Vittoria bevve un sorso d’acqua (a lei la cameriera non aveva versato il vino) e annuì. «Ho iniziato a cinque anni. Mamma e papà hanno capito che non scherzavo vedendo che suonavo i mobili di casa come se avessero una tastiera.» Enrico accennò un sorriso tirato. «A nove anni sono entrata al conservatorio. Non ho mai smesso di suonare, neanche a Londra.»
Lui inarcò le sopracciglia. «Londra?» ripeté, la sorpresa evidente sul suo viso.
«Sì… Due anni fa siamo stati a Londra per sei mesi, non lo sapevi?» chiese Vittoria di getto e subito dopo si rese conto che era una domanda sciocca. Era molto improbabile che Enrico sapesse qualcosa di loro al di là delle informazioni più basilari. La rispettiva ignoranza sulle loro esistenze sembrava l’unico legame che li unisse al momento. Lui non mostrò alcuna reazione particolare, limitandosi a scuotere la testa. Vittoria gli raccontò brevemente di Londra. Mentre parlava, aveva la sensazione che lo zio fosse distratto: i suoi occhi azzurri fissavano il mare, ma sembravano vuoti, spenti, come se non vedessero nulla. Tuttavia, quando finì di spiegare Enrico spostò lo sguardo su di lei e Vittoria capì che invece aveva ascoltato ogni singola parola.
«Deve essere stato difficile per te. Andare a Londra, voglio dire. Insomma, anche se solo per sei mesi, mi sembra un grosso cambiamento per una ragazzina.» Aveva parlato con una strana gravità, come se discutessero di questioni di enorme importanza.
Vittoria rifletté per qualche secondo e intanto mandò giù un sorso d’acqua. Le domande dello zio non le davano fastidio: aveva modi delicati, anche se forse un po’ freddi, che sembravano attenuare qualsiasi cosa dicesse o facesse. Tuttavia, non era sicura di aver voglia di affrontare l’argomento a cui si stavano avvicinando. Era una cosa molto personale, che riguardava strettamente lei e i suoi genitori, soltanto loro tre, come era sempre stato. Probabilmente Stefano e Claudia non avrebbero voluto che lei ne parlasse con Enrico, dal momento che non c’era più alcuna confidenza tra loro, eppure neanche l’idea di mentirgli le piaceva. Se davvero voleva tentare di costruire un ponte tra loro non avrebbe fatto meglio a essere onesta? Deglutì nervosamente.
«Be’.... Mamma voleva andare con papà, ma ovviamente non potevano lasciarmi a Milano da sola» rispose piano, ancora incerta su cosa fare. Decise di lasciarsi guidare dall’istinto del momento e di smettere di pensare. «E poi… è capitato in un momento in cui… forse ne avevamo bisogno.»
Esitò un attimo ed era sul punto di raccontare tutto, ma poi, all’improvviso, qualcosa nell’atmosfera e nell’espressione di Enrico cambiò. Si raddrizzò sulla sedia, distanziandosi appena da Vittoria, prese il suo bicchiere di vino e tornò a guardare verso il mare. Si era allontanato di nuovo.
«Che cosa ti piacerebbe fare da grande? La concertista?» chiese in tono leggero, dopo una pausa. Quel repentino cambio di argomento la stupì. Mentre lo osservava, capì in qualche modo che Enrico doveva aver percepito il suo disagio e aveva smesso di fare domande per non metterla in difficoltà. Un caldo senso di gratitudine le riempì il cuore. Sorrise.
«Magari. Non so se ne sarò in grado. Mi piacerebbe anche solo insegnare musica» rispose Vittoria, quasi senza badare a ciò che diceva. Era ancora impegnata a riflettere sul comportamento gentile dello zio. Prima che potesse aggiungere altro, Calogero si avvicinò al tavolo con i loro piatti e per qualche minuto fu troppo impegnata con la sua pasta alla norma, che emanava un profumo celestiale, per continuare la conversazione. Dopo il secondo boccone, decise che Calogero poteva rivaleggiare senza problemi con il suo ristorante preferito del momento a Milano, dove aveva festeggiato il suo ultimo compleanno con le amiche. Mandò giù, si pulì la bocca con il tovagliolo e disse con voce solenne: «Ho fatto decisamente bene a venire in Sicilia.»
Enrico aveva piluccato un boccone dal suo piatto con scarso entusiasmo, come se non avesse alcuna voglia di mangiare. «Altrimenti ti saresti persa Calogero» mormorò, leggermente divertito.
«Altrimenti non avrei conosciuto te. E Edoardo.»
Enrico tornò serio lentamente. Bevve un altro sorso di vino, abbandonano i calamari ripieni che non aveva quasi toccato, poi riabbassò il calice, ma invece di metterlo giù lo agitò piano in senso circolare, osservandolo. Aveva quella sua espressione accuratamente neutra che faceva pensare a una spessa passata di vernice bianca su una parete colorata, come per nascondere qualcosa. Vittoria pensò per la prima volta che forse stava iniziando a conoscerlo.
«Edoardo non è una persona facile» rispose lo zio a bassa voce.
«No, è vero. Me ne sono accorta. Però volevo sapere com’era. È per questo che sono venuta. Non so niente di voi, non so niente di… E poi pensavo…» Vittoria abbassò le mani in grembo e strinse automaticamente tra le dita il tovagliolo di stoffa azzurro che aveva disteso sulle gambe. Inspirò. «Speravo che papà… che tu e lui… che magari potreste riavvicinarvi» concluse con un filo di voce, quasi come se sperasse che le sue parole si disperdessero nell’aria calda senza arrivare allo zio. Non era affatto sicura di come lui avrebbe potuto prenderla. «Con Edoardo forse è troppo tardi, ormai.» Tenne lo sguardo fisso sul suo piatto, decorato con arabeschi bianchi su sfondo azzurro. Non aveva il coraggio di sbirciare la reazione di Enrico. Dall’altra parte del tavolo arrivava un silenzio assoluto. «Scusa» sbottò. «Magari non ti va di parlarne.»
«Perché pensi questo?» le chiese lui, tranquillo.
Lei non poté più resistere e lo guardò. Enrico continuava a muovere la forchetta nel piatto quasi intatto, lo sguardo assente. «Papà non ne parla. Mai. E neanche mamma. È che io… Non so com’è avere un fratello, ma non credo che tutta questa situazione tra voi sia giusta» disse, quasi senza prendere fiato, e la facilità con cui la verità era scivolata fuori la sorprese. Nonostante la difficoltà dell’argomento e il fatto che fossero due estranei, parlare con lui le sembrava stranamente semplice, forse per via del suo modo di fare gentile e discreto. Qualsiasi disagio provasse, svaniva pian piano quando lo fissava negli occhi. Si sentiva in qualche modo al sicuro, a differenza dei momenti che passava con il nonno, nei quali aveva sempre la sensazione di camminare sul filo del rasoio.
«Forse lo avrai, prima o poi. Un fratello o una sorella.»
Quel commento la sconcertò per qualche istante. Ecco che lo zio si allontanava di nuovo, come se cercasse di evitare la curva pericolosa di una strada. Vittoria abbassò di nuovo lo sguardo sul suo piatto.
«È molto difficile che succeda.» Prese un respiro profondo e parlò di getto, con la sensazione di lasciar andare un peso. «Mamma ha avuto due aborti spontanei.»
Gli occhi di lui saettarono in direzione di Vittoria. «Davvero?» chiese, la voce bassissima.
Vittoria annuì. Sfiorò il suo bicchiere d’acqua, seguendone il bordo con il dito. «La prima volta che è successo avevo sette anni. È stata dura, ma poi si è ripresa. Dopo un po’ ci hanno riprovato, ma è andata male di nuovo. Ed è stato peggio della prima volta. Un anno dopo, più o meno, papà è stato assunto alla Prescott e ha iniziato a parlare dei sei mesi che avrebbe dovuto passare a Londra. È anche per questo che io e mamma siamo andate con lui. Avevamo bisogno di… non so… qualcosa» concluse, incapace di definire con chiarezza l’atmosfera che riempiva la loro casa in quel periodo, lo sguardo triste e assente di sua madre, la frustrazione nascosta di suo padre, il senso di vuoto che era rimasto addosso a tutti e tre e sembrava non dover passare mai.
All’inizio Vittoria aveva creduto che i suoi genitori ci avrebbero riprovato una terza volta, perché desideravano un altro figlio più di qualsiasi altra cosa, ma poi, con il tempo, aveva capito che probabilmente non sarebbe mai successo e insieme al dispiacere non aveva potuto fare a meno di avvertire anche un po’ di colpevole sollievo. Un terzo fallimento sarebbe stato così tremendo che lei non poteva neppure immaginarlo.
«Londra è arrivata al momento giusto» aggiunse poi con un’alzata di spalle. «Ha fatto bene a tutti.»
Enrico rimase in silenzio per un po’, gli occhi agganciati a quelli di Vittoria. «Mi dispiace» mormorò. «Non lo sapevo.»
«Magari era destino che andasse così. E forse era destino anche che tu e papà vi allontanaste.»
Un sorriso affilato tagliò in due il volto dello zio. «Non ne ho idea, Vittoria. Sono l’ultima persona al mondo che può esprimere pareri sul senso della vita e cose del genere. Io non so niente.»
Vittoria lo fissò, un po’ interdetta dall’amarezza che sentiva nella sua voce. Rimase in silenzio per qualche istante. «Be’, io ne so meno di te» mormorò, incerta. In quel momento il telefono nella sua tasca vibrò. Lo tirò fuori, sbirciò il display e sentì un tuffo al cuore: era suo padre.
«Scusami, devo rispondere» borbottò. Schizzò in piedi, passò in fretta tra i tavoli schivando un cameriere di passaggio carico di piatti sporchi. Raggiunse il cancelletto che dava sulla spiaggia. Sta’ calma. Non rovinare tutto, si disse nervosamente, augurandosi di essere abbastanza lontano perché Enrico non la sentisse. Inspirò mentre scorreva il dito sul display, poi si portò il telefono all’orecchio.
«Papà?»
«Amore, ciao!» Dai rumori in sottofondo, Vittoria capì che suo padre doveva essere in strada. «Tutto bene? Cosa c’è che non va?»
Vittoria chiuse un attimo gli occhi. Se n’era accorto in due secondi netti. Avevano appena battuto un record. A volte apprezzava che suo padre fosse così attento da riuscire a capire cosa le passava per la testa semplicemente con uno sguardo o dal suo tono di voce, come in quel momento: le risparmiava qualche fastidiosa spiegazione. Altre volte lo detestava, perché la faceva sentire come se non esistesse un posto in cui avrebbe potuto nascondersi.
«Niente, perché?»
«Hai una voce strana.»
«No, è tutto ok» rispose Vittoria, sforzandosi di accennare un sorriso. Era rivolta verso il mare e sentiva lo sguardo di Enrico sulla schiena, ma non si girò. Era sicura che avesse capito che era al telefono con suo padre. «Sono in spiaggia, alla Cala Saracena.»
«Brava, piccola. E mamma dov’è?» disse Stefano, ora leggermente distratto. Forse stava attraversando la strada, perché il suono di clacson in sottofondo si era fatto più intenso.
«A casa con Rosa. Stanno dipingendo una stanza o qualcosa del genere.»
Le parve di sentirlo sorridere. Lo immaginò mentre camminava per le strade affollate di milanesi e di turisti, con il solito passo svelto e sicuro che dava l’impressione di poter superare qualsiasi ostacolo, addosso un completo impeccabile nonostante il caldo asfissiante, il solito zainetto di Armani sulla spalla e il cellulare all’orecchio, l’espressione costantemente concentrata, come se non spegnesse mai il cervello. Era lontanissimo da lei e da quella tranquilla terrazza sulla spiaggia.
«Sempre la stessa, mamma. Sai, ho pranzato da SvelToast.»
«Ah, sì, quello che fa un toast in tre minuti» esclamò Vittoria. Era un locale minuscolo, con più clienti di quanti potesse contenerne e un grosso cronometro sul bancone che misurava il tempo. Allo scadere esatto dei tre minuti previsti, e a volte anche un po’ prima, il tizio dietro il bancone ci batteva una mano sopra e con l’altra porgeva al cliente di turno un toast fragrante e delizioso. Lo avevano scoperto per caso durante un giro di shopping natalizio ed era diventato subito uno dei loro posti preferiti.
«Proprio lui. Ho visto che hanno ancora quel toast che ti piace tanto, quello con formaggio e olio al tartufo, però il mese prossimo cambia tutto il menù. Dobbiamo tornarci prima che lo tolgano.»
Vittoria emise un verso di disappunto, ma ascoltava suo padre solo a metà. Per il resto continuava a pensare a Enrico alle sue spalle e batteva un piede per terra, ansiosa di chiudere la telefonata il prima possibile. Temeva che più avesse parlato, più sarebbe aumentato il rischio di farsi scoprire in qualche modo. Visualizzò la faccia che avrebbe fatto Stefano se avesse saputo dov’era lei in quel momento e con chi e al pensiero provò una piccola ondata di nausea. «Ah, davvero? Peccato… Sicuro, ci torniamo.»
Ci fu una breve pausa, poi, dato che Vittoria non aggiungeva altro, suo padre riprese a parlare. «Spero che non ti annoierai troppo in questi giorni.»
Lei scosse la testa, senza riuscire a trattenere un sorriso che per fortuna lui non poteva vedere. «No, tranquillo. Mi sono trovata qualcosa da fare.»
«Ottimo» commentò Stefano e questa volta Vittoria fu sicura che l’avesse ascoltata a malapena. «Devo andare. Ci sentiamo stasera.»
Il sorriso di Vittoria si allargò per il sollievo. «Ok. Ciao, papà, buona giornata.»
«Ciao, piccola.»
Chiuse la chiamata, quasi euforica. Ce l’aveva fatta. Il suo segreto era al sicuro, almeno per ora. Era piuttosto sorpresa di essersela cavata così bene. Di solito non raccontava bugie ai suoi genitori, in parte perché le sue richieste erano quasi sempre ragionevoli e non riceveva mai un diniego, in parte perché Claudia e Stefano preferivano sempre parlare con lei e trovare un punto d’incontro piuttosto che scegliere la strada autoritaria. Solo quando faceva domande su Santo Stefano e sul loro passato tiravano fuori quella irritante, irragionevole fermezza. Si sentiva un po’ in colpa per avergli mentito, ma in fondo non le sembrava una bugia così grave: non faceva nulla di pericoloso o illegale, stava semplicemente pranzando con lo zio. E i suoi genitori non giudicavano lucidamente quella faccenda, erano troppo prevenuti.
Si girò e tornò al tavolo con passo svelto ed energico. Sorrise a Enrico mentre si sedeva di nuovo al suo posto. «Scusa» esclamò, allegra, ma poi incrociò lo sguardo di lui e il sorriso si congelò. Capì all’istante, seppure con una certa confusione, che era cambiato qualcosa.
«Tranquilla» rispose Enrico. Incrociò le mani di fronte a sé, all’altezza del mento, e la fissò. «Cosa vorresti sapere?»

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE.
1. Vago malessere causato da un abbassamento della pressione sanguigna.

   
 
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