CANTO XXVII - La stanza dell'accidia.
Convien ch’io spieghi il mio ultimo verso:
La madre di mia madre, di tutti i miei germi,
La madre ch’è qui da tempo ormai perso
Prima di quest’era del consumismo da vermi,
Prima della nuova Repubblica e dello scandalo,
Prima di quel periodo fra due blocchi fermi,
Prima del nuovo Genserico, nuovo vandalo,
E il sacco di Roma che decretò il declino,
Prima della corona che al franco sandalo
Deve Sadowa, Sedan e Solferino,
Prima del corso che ci diè Cisalpina,
Prima degli stranieri regimi sul latino,
Prima della comunanza guelfa e ghibellina,
Prima dei franchi, Bisanzio e longobardi,
Prima ch’Odoacre segga alla reggia palatina,
Prima che Ravenna e Mediolano furo tardi
Nova Roma, Nova urbe e novo mondo,
Sotto dittatori valenti e codardi,
Sotto Maggioriano, Onorio meditabondo,
Sotto Teodosio e Graziano ambrogino,
Sotto Giuliano e Costante saggitabondo,
Sotto lo triplice santo, il Costantino,
E Diocleziano, burocrate e statalista.
Sotto Caracalla e il suo editto cittadino,
Giù per Traiano, Tito e lunga lista,
Fino ad Augusto, Antonio e il Giulio,
Pompeo, Crasso e Catone uticista,
I tre Scipioni, Quinto Fabio e Aùlio
Publio Valerio e Lucio Ginio Bruto
I tre Orazi morti per Ostilio Tùlio
Dei sette coronati del latino statuto,
Prima d’essi e prima dei lucani,
Gli etruschi, i sanniti e il viaggio compiuto
Per divina voluttade dei superbi troiani:
Te dico, Italia! Tu ventre europeo,
Da sempre assillata da questi insani;
Dacché fosti erede del Partenopeo,
(Probo figlio d'Atlanta e vergine puro)
Nei fasti dorati di Crono Uranèo,
Presti ora orecchio a un distorto Epicuro
Per i mali consigli di questa gente tutta
E s'io non concordo e faccio un muro
Con la morale cristiana, essa combutta
Con la mia oggi perché miro e rimiro
Quella turba che negli anni ti fece sì brutta.
Roberto di Parma, dall'austriaco ritiro,
Rapito, era appeso, il duca rapace
Che sempre godette di oro e porfiro
Lamentando il regno e la perduta pace.
Gli fa compagnia il Vittorio di Savoia
Che a ben altro duce delegar piace
I destini nostri e non si diè noia
Di battagliar li teppisti col fez in capo.
Non avean sembianze di chi muoia
Seppur a una seconda volgean lo scapo
Delle lor ali, ivi imprigionate
E avean compagnia di tanti Bindi e Lapo
Che pria di nomarli mi obnubilerebbe Ate.
E quindi, così vivi e nervosi come al podio
Non sucitavan ribrezzo o la pietate
Che potesse ammansire il mio sordido odio.
“Oh tu” Io gridai “Venerato dai monarchisti,
Son finiti i giorni che io mi rodo e rodio
Al sentir scannare i tuoi figli, quelle cisti
Della nostra repubblica democratica e laica,
Per un titolo che non vale i vostri misti
Piagnistei per una successione arcaica.”
E quei rimbrottò “A che mi avveleni?
Per il mio tradimento alla gente ebraica
E l'Italia tutta, potete stare sereni
Che già pagai e pago il mio leso.
Ma curate piuttosto i vostri stessi beni
Che ancora sono insidiati da quel Creso
Fattosi ibero nell'esilio e ben disse Fedro
Di non dare al re di legno tanto peso:
La natrice morde più del ciocco di cedro.”
E il Roberto dalla sua gabbia “Garzone,
Il suo parlare è confuso e poliedro
Che, se desse ragione a Clistene e Solone,
Per il manco governo perché borbotta?
Avrebbe preferito che noi cadetti Borbone
Governassimo sulla sua bella Pilotta?”
“Dio ce ne scampi e maledica i monarchi!
Io nacqui, graziato, dopo la vostra rotta
E non servirò le frecce ai vostri archi:
Io ti rimprovero, parmigiano, la cupidigia
Di viver di rendita, godendo ville e parchi
E farti appellare erede di Maria Luigia.
Che hai ceduto mai alla Sardegna
Se non gli impegni e la carica ligia?”
“Poni il cuore in pace e disimpegna”
Disse il duca mio ma il francese udì
“Cos'è questa favella di volgo pregna?
Dimentichi ch'io fui re di Francia e Mezzodì.
Offendi quanto garba quei sovrani iniqui
Ma lascia perder chi nacque a Poissì.
Gimo ora, pria che la missione deliqui.”