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Autore: lucille94    09/05/2024    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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La neve di una settimana prima era un lontano ricordo: spazzata e ammonticchiata ai lati delle strade, si era consumata al timido sole di febbraio, lasciando tracce decomposte là dove al principio era un candido ammanto che pareva fatto della stessa sostanza delle nuvole.

Lorenzo non ci fece caso, vuoi perché tale spettacolo gli era divenuto scontato, vuoi perché, le briglie strette in mano e il portamento fiero, si stava avviando alla piazza di Santa Croce per prendere parte alla giostra, la sua giostra.

Ufficialmente era stato Braccio Martelli a indire l'evento per festeggiare le proprie nozze, tenutesi ormai tre anni e mezzo prima, con Costanza de' Pazzi, ma di fatto erano stati i Medici a finanziarlo interamente e tutti, quando ne parlavano, lo attribuivano alla generosità del giovane Lorenzo. Lui si era sobbarcato il compito di organizzare le maestranze coinvolte, lui si era procurato la sabbia da spargere nell'arena, lui aveva contattato i potenti signori, vicini e lontani, che potessero inviare i propri paladini per rendere la messinscena più credibile ed emozionante. A togliere il minimo dubbio su chi fosse il vero artefice dell'incontro che stava per consumarsi c'era la bella Lucrezia Donati Ardinghelli che, assente il marito, aveva avuto l'onore di essere la dama della giostra, colei dalle cui mani il vincitore avrebbe ricevuto l'elmo d'argento con il cimiero impreziosito da una miniatura di Marte, il dio pagano cui la città era stata consacrata al tempo della sua fondazione.

Lorenzo avanzava circondato da paggi, scudieri, amici e sostenitori a vario titolo: procedeva per la via a passo lento, perché la folla di spettatori, accorsi da tutto il contado, non lo lasciava passare senza avergli sfiorato il lembo del mantello o la gualdrappa del cavallo, gesti scaramantici al pari del tocco alle reliquie che periodicamente venivano esposte nelle chiese in occasione delle ricorrenze più sentite. Con la differenza, però, che i favori richiesti a un Medici erano spesso più sostanziosi di quelli richiesti al Signore e, malgrado tutto, di più sicuro ottenimento. Non c'era da stupirsi, dunque, a vedere contadini analfabeti chiamare a gran voce il figlio di Piero, le mani tese, le bocche private di tanti denti, e accanto alcuni dei mercanti più ricchi, con gli occhi ugualmente alti e il volto deferente verso colui che rappresentava il futuro radioso della stirpe più potente di Firenze. Lorenzo, pur abituato a essere al centro dell'attenzione, si sentì disgustato degli ossequi puramente opportunistici che lo circondavano e si guardò attorno atteggiando il viso alla consueta giovanile baldanza, nella speranza di scorgere qualcuno tra la folla che gli riservasse più che non la volubile gratitudine di un debitore o di un arrampicatore sociale. Lo colse un piccolo smarrimento quando si ritrovò solo anche in mezzo a così tanta gente; si domandò se i suoi amici fossero lì per lui ovvero per ciò che lui significava e se, nato in tutt'altre congiunture e circostanze, sarebbero stati disposti a dividere il loro tempo e i loro sentimenti con lui. E Lucrezia, che godeva della fama di donna più bella di Firenze, ma che era comunque la discendente di una casata decaduta e impoverita, assecondava il suo affetto solo per un calcolo di interessi?

Per quanto fosse naturalmente cinico nel giudicare gli altri, in quel momento Lorenzo sperò di aver esagerato in preda a un umore agitato, e domandò perdono per la propria mancanza di fiducia nei suoi più intimi congiunti. Non si dilungò, tuttavia, in tali pensieri, poiché, a un tratto, la strada davanti a lui si allargò in forma di piazza, la folla si disperse nello spazio divenuto più ampio e il sole invernale velato di nubi come il viso di una sposa lo illuminò al suo ingresso, accompagnato da alte acclamazioni. «Palle! Palle! Palle!» gridava il popolo di Firenze. Sei palle rosse in campo dorato erano infatti disegnate sullo stemma di famiglia e Palleschi erano soprannominati i suoi sostenitori.

La piazza formicolava di persone in agitazione: c'erano i semplici spettatori, che cercavano di accaparrarsi i posti migliori sugli spalti; c'erano gli scudieri, che correvano a destra e a manca per porgere elmi, sellare cavalli, lustrare scudi; c'erano i paggi, che reggevano alti gli stendardi dei contendenti; e i contendenti stessi, che scalpitavano quanto e più dei loro destrieri e come loro erano agghindati a festa. Anche in questo, però, Lorenzo sapeva superare tutti gli sfidanti: a cominciare dalla berretta, ornata di tre piume dorate che svettavano verso l'alto, per arrivare al farsetto e agli accessori, disseminati di perle di non indifferente grandezza e rotondità e di pietre preziose. Nel complesso il suo vestiario valeva non meno di diecimila ducati. Fu l'eccessiva ostentazione di ricchezza a pizzicare il naso della vecchia generazione di fiorentini che al suo apparire storsero la bocca e distolsero lo sguardo, dedicandogli solo un gesto di biasimo della mano e niente di più, che già era troppo quel che si portava addosso.

Altri, invece, furono infastiditi dalla corona di violette, ormai appassite, che il giovane rampollo mediceo sfoggiava sopra la berretta. Risaliva a ben quattro anni prima, aveva tutte le ragioni per essere rinsecchita e portarla così, sotto gli occhi del popolo riunito, sembrava quasi un modo per chiudere con un omaggio plateale ciò che ufficialmente non aveva più ragion d'essere, ossia un antico amore che, con la forza del sentimento, aveva tanto arso i cuori da consumarli. Lorenzo era sposato, Lucrezia era sposata. Quanto fosse stato fra loro – per alcuni una finzione poetica, per altri una relazione adulterina con tutti i crismi – era giunto al termine con il compimento della promessa fatta dall'innamorato nel corso di una festa: gareggiare in una giostra per l'onore dell'amata.

Eccomi, diceva Lorenzo ammiccando alla sua bella, pago il pegno cui mi hai legato e me ne sciolgo. E, gettando un'occhiata allo stendardo appena uscito dalla bottega del Verrocchio, vi trovava i simboli di una nuova vita: le tems revient, "il tempo ritorna", così recitava il suo motto in lingua francese. Una donna sedeva sotto un albero d'alloro con due rami, uno secco, l'altro virente, e con grazia intrecciava l'alloro rigoglioso con rose rosse: le rose erano notoriamente uno dei simboli araldici della famiglia Orsini, insieme con l'orso e la vipera. Un arcobaleno sormontava la scena distendendosi placido nel cielo sereno e, a lato, il sole splendeva.

Scivolando giù dallo stendardo e tornando fisso avanti, lo sguardo di Lorenzo si posò sull'arena. Il perimetro del campo di battaglia era recintato e nel bel mezzo di esso si srotolava la barriera, consistente in una bassa palizzata che divideva i corridoi dei due sfidanti per assicurare loro maggiore sicurezza. Aveva già assistito a numerose giostre in gioventù, aveva tifato per i propri parenti e sgranato gli occhi di fronte alle prodezze di cavalieri navigati. Pensare che quel giorno toccasse a lui, che non si sentiva poi così in gamba in quell'ambito, lo fece vacillare di nuovo.

Se Chiarice saperà el dì che dovete giostrare, credo in servitio vostro degiunarà la vigilia, ad ciò che Dio ve renda salvo e vi conceda victoria, aveva scritto sua suocera Maddalena, e Lorenzo si augurò con tutto il cuore che Clarice avesse mantenuto l'impegno: già non brillava in bellezza, figurarsi poi se, nel corso di uno scontro, qualcosa fosse andato storto! (1)

*

In breve cominciò la zuffa e, uno scontro dopo l'altro, i cavalieri presero a cadere fragorosamente nella sabbia. Il segreto era una buona mira non disgiunta dall'agilità necessaria a scansare, all'ultimo momento, la lancia dell'avversario. Man mano che il suo turno si avvicinava, Lorenzo si sentiva impallidire sotto l'elmo dalla celata abbassata; a Giuliano, che lo conosceva troppo bene per sbagliarsi, non sfuggì comunque l'insolito silenzio e la postura rigida del fratello, perciò, avvicinatosi, gli batté una mano sulla coscia e disse: «Ricordati di non trattenere il respiro, che altrimenti, appena la punta ti colpirà lo scudo, scoppierai d'un colpo».

Falsamico, il destriero preferito, fresco dono di Ferrante re di Napoli, pestò uno zoccolo a terra, come a dire che la battuta l'aveva divertito, mentre Lorenzo sbuffò sollevando la celata e trasse le briglie a sé impermalosito. «Mi stai forse dando del pallone gonfiato? Bada che qui potrei rimetterci qualche cosa.»

«L'importante è che tu sia in grado di consumare il matrimonio a giugno. Che tu lo faccia da storpio o da cieco, quello poco ne cale», ribatté Giuliano imperterrito e, non contento, riprese: «Se prende una brutta piega, ricordati di mettere tutt'e due le mani lì e serrare le gambe mentre cadi».

«Non c'è miglior maestro di te per insegnar come si cade da cavallo.»

Non disse altro, Lorenzo, perché a quel punto si sentì chiamare dal banditore. Il suo primo sfidante fu, scherzo del destino, Dionigi Pucci, che montava a propria volta un bel cavallo prestato dal re di Napoli. Un lieve cenno di saluto intervenne tra i due cavalieri, quindi, dando di sprone, le lance in resta, si scagliarono uno contro l'altro. Uno schianto fragoroso fece vibrare i cuori degli spettatori, e più di tutti quelli dei genitori dei duellanti: Lorenzo aveva colpito sicuro, mirando ai colori vivaci che risaltavano sulla guardastanca (2) di Dionigi per ovviare alla vista un po' corta, e non aveva fallato; Dionigi, invece, forse per un tentennamento dell'ultimo secondo, aveva visto scivolare la punta smussata fuor dell'obiettivo mentre puntava i piedi sulle staffe per mantenersi in sella nonostante l'urto subito alla spalla sinistra. La lancia di Lorenzo si era spezzata, mentre non solo la lancia di Dionigi era andata a vuoto, ma per di più la sua guardastanca si era sganciata dalla corazza ed ora giaceva nella sabbia: ciò andava tutto a vantaggio del Medici.

«Che ti prende, o Pucci?» rise questi, reso spavaldo dall'eccitazione. «O che tu ti sei rammollito?»

«Te la do io, una bella lezione!» ribatté, non meno infervorato, Dionigi, e imbracciò subito la nuova lancia che lo scudiero gli tendeva. Lorenzo girò il cavallo, punzecchiandolo con gli speroni affinché fosse abbastanza nervoso. Al segnale, scattarono nuovamente nell'arena, i denti digrignati dietro le celate degli elmi, e stavolta entrambi andarono a segno: le lance si frantumarono in un nugolo di schegge, le guardastanche volarono via e i cavalieri barcollarono; Lorenzo strinse le ginocchia più che poté e restò in sella, diversamente Dionigi, che era appesantito dall'amore per il vino e il buon cibo, e inoltre non era di suo un provetto cavaliere, rovinò a terra. «Maledizione!» fu udito borbottare mentre si rialzava. «Non ci voleva, non all'inizio!»

Lorenzo se ne tornò trionfante tra i suoi che lo acclamavano e dimenticò in modo quanto mai veloce i timori e le riserve che aveva nutrito fino a un attimo prima. Gli scontri successivi, che furono più violenti di quello con il buon Dionigi, non lo spaventarono punto, dando vampa al fuoco di orgoglio che bruciava nel suo petto. Salì in tanta superbia, a un tratto, da aizzare i cori del pubblico con concitazione e, quando gli sembrò che lo inneggiassero troppo blandamente, gridò lui stesso: «Palle! Palle! Palle!», sebbene la sua voce non potesse travalicare di molto l'ostacolo posto dall'elmo calato sul viso.

Era la volta di Guglielmo de' Pazzi, suo cognato e amico, e non temeva offese da lui. Con suo fratello Franceschino, un concentrato di bile rabbiosa in un corpo di poca statura, aveva già regolato i conti con un pareggio. La parentela non avrebbe minimamente mitigato la sua furia agonistica, semmai l'avrebbe accresciuta nell'intento di far dispetto alla sorella maggiore. Diede di sprone convinto di ciò che faceva e galoppò a rotta di collo incontro all'avversario, il quale però rimase più freddo e, di conseguenza, più reattivo: vista la foga del Medici e conoscendo il suo temperamento impetuoso, si preparò all'urto e fu capace di schivare la lancia con un piccolo movimento del braccio sinistro. Lorenzo, accecato dall'impeto della gara, non fece altrettanto e si lasciò cogliere sbilanciato. Fu scaraventato via di sella giù nell'arena, rotolò nella sabbia; Falsamico, incespicando, quasi gli rovinò addosso. La folla sussultò, nel timore che il giostrante fosse rimasto ferito nella caduta. Una voce si levò sopra le altre: quella di Piero de' Medici.

«Via l'elmo, presto! Gli si levi l'elmo!»

La gotta non gli rendeva facile presentarsi in pubblico. L'abitudine a starsene chiuso nella propria camera, o tutt'al più nello studio, lo aveva reso insofferente ai grandi raduni di persone; tuttavia, per la giostra di suo figlio sarebbe accorso a vedere anche da moribondo.

Al paventarsi di una tragedia, Piero avvertiva il cuore pesante. Suo figlio gli parve immobile per un tempo troppo, troppo lungo, quando in realtà non si trattò che di pochi istanti. Biasimava la lentezza dei paggi e degli scudieri, quando in più d'uno si precipitava a scavalcare il recinto dell'arena. In ogni caso, qualsiasi soccorso giunse tardi: Lorenzo si tirò in piedi per conto proprio, sì barcollando, ma tutto intero e, per di più, furioso. Trasse da sé l'elmo di testa e diede una scossa ai capelli impastati di sabbia, tossì e soffocò una serie di improperi al cognato, al cavallo e al resto.

«Portatemi il Branca!» urlò, oltremisura inviperito per la meschina figura appena guadagnata. Condotto via Falsamico, ormai imbizzarrito, e montato il destriero prestato stavolta dal duca Galeazzo Maria Sforza, riprese a giostrare con più passione di prima. Spezzò tutte le lance da quel momento in avanti e tante furono le guardastanche che fece finire in terra senza più vacillare.

In un batter d'occhio, la tenzone giunse al termine e, con gli umori ancora bollenti, fu dichiarato il vincitore: Lorenzo, e chi altrimenti? Lucrezia Ardinghelli aveva già tra le mani il cimiero d'argento e glielo tendeva con gli occhi che brillavano di emozione. Egli lo ricevette con un inchino, sebbene i dolori della caduta e della tensione cominciassero a farsi sentire per tutta la lunghezza della sua schiena. Aveva diritto a un bacio e lo pretese, dopodiché fu rapito dagli amici e portato in trionfo per la città in un convulso festeggiamento da Carnasciale come si addiceva a quel periodo dell'anno. Le gozzoviglie durarono fino a notte e solo quando il freddo divenne insopportabilmente pungente i pochi fedeli rimasti si decisero a rifugiarsi nella sala da pranzo di palazzo Medici.

«De', Lorenzo,» lo apostrofò allora Luigi Pulci, cogliendo l'occasione di parlargli tra intimi amici, «come coroneresti a dovere una giornata come questa?»

«Avesse già qui la mogliettina romana, chissà cosa non le farebbe!» rise Sigismondo, sopravvenuto in quel mentre con un fiaschetto di vino. Lorenzo, fattasi riempire la coppa di ottimo vino greco, ne bevve un sorso e, con gli occhi lucidi, replicò: «Non temere, che quando l'avrò qui salderò ogni debito!»

Gianfrancesco Venturi tentò di provocarlo diversamente: «E la Lucrezia la lascerai perdere?»

«Come se c'avessi mai fatto cose con lei!»

«Io te l'avevo detto di approfittare l'altra volta, che suo marito non c'era...» (3)

«Ah! Sta' zitto, Francesco, che dici solo bischerate.»

«Ha ragione! Che gli importa della Lucrezia se può avere la Matilda o la Linora o la Nina a uno schioccar di dita?» intervenne di nuovo Pulci, prima di notare: «Dalla sua faccia, stasera sarà buono solo a dormire. Perciò, signore della giostra, noi ci teniamo per licenziati. Se domani vorrai sbollire in buona compagnia, sai riconoscere l'uscio di casa mia. Dio t'abbia in grazia.»

E ciò detto se ne andò portandosi dietro gli altri. Lorenzo resistette ancora pochi minuti, poi, ciondolando sotto il peso della stanchezza, salì al piano superiore, la mente confusa dall'ebbrezza della vittoria e del vino. Si appoggiò alla parete e avanzò trascinando i piedi fino alla propria camera, quella che presto sarebbe diventata una camera matrimoniale. Si lasciò cadere supino sul letto e rimandò il bagno alla mattina dopo: avrebbe voluto sgombrare la testa da qualsiasi pensiero, rimanere inebetito per qualche istante a fissare il soffitto e infine addormentarsi, ma l'immagine di una ragazzina dai capelli rossi andava e veniva con insistenza alle soglie della sua memoria.

 

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(1) Il passo è ricavato da una lettera di Maddalena Orsini a Lorenzo de' Medici datata agli inizi di gennaio 1469. 

(2) La guardastanca era un elemento peculiare delle armature da giostra: consisteva in una piastra di rinforzo che andava a ricoprire la parte sinistra della corazza a protezione del petto, della spalla e del braccio. Era agganciata al resto attraverso un meccanismo che faceva sì che, quando essa fosse colpita dalla lancia, si staccasse (si tratta del rilascio "a molla"), per segnalare oltre ogni dubbio se il colpo fosse o meno andato a segno correttamente.

(3) Secondo gli studiosi Franco Cardini e Barbara Frale, autori del libro La Congiura, e anche altri, la relazione tra Lorenzo e Lucrezia Donati fu puramente platonica. A sostegno di questa tesi viene portata, tra le altre cose, una lettera di Gianfrancesco Venturi a Lorenzo in cui il Medici viene esortato ad approfittare di un'assenza di Niccolò Ardinghelli per "passare al sodo" con la sua bella prima che si realizzi la sua unione matrimoniale con Clarice Orsini. A detta dei biografi citati, nulla fa pensare che Lorenzo si sia effettivamente spinto ad avere rapporti con lei. Di certo altre notizie, come per esempio le lettere del suo precettore Gentile Becchi, piene di biasimo, confermano che, Lucrezia o meno, la vita sessuale di Lorenzo nella giovinezza fosse tutto meno che noiosa.

 

   
 
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