Autore: ellephedre
Disclaimer:
i
personaggi di
Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di
proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.
Sian.
Capelli color dell'oro terrestre e occhi socchiusi,
che squadravano con
sospetto e abbandono i luoghi di cui egli era ospite forzato. Lo
straniero aveva
spezzato in due - con le mani - la porzione di materiale
marmoreo che lei aveva tentato di utilizzare come strumento. Le aveva
indicato di attendere, quindi aveva iniziato a sfregare tra loro,
ripetutamente e con calma, le superfici ruvide che aveva ricavato.
Non l'aveva più guardata e non aveva
proferito altre parole.
Immergendosi nel compito umile che si era prefissato, aveva
rilassato
le spalle e incrociato le gambe. Con l'allungarsi dei
momenti, il suo lavoro si era fatto meccanico, rassegnato. La sua mente
si era spostata nel passato, lontana da un presente che non aveva
interesse ad abitare.
Serenity aveva osservato le rose.
Si comportava con loro come faceva lo straniero coi
pezzi di
marmo. I fiori erano la sua distrazione dal mondo. Aveva relegato
la loro bellezza e vitalità ad un ruolo immeritato: quando
ne
aveva cura, chiedeva loro silenziosamente di portarla alla dimenticanza
di sé.
Non
sono una Regina
morta, non sono
una Regina che non sa vivere. Sono questa donna, che taglia gambi,
estirpa radici e versa acqua. Sono questa donna che osserva e contempla
serena i propri fiori, nella tranquillità della propria
dimora.
Come l'alieno, era degna di pietà,
l'ombra di se stessa.
Si alzò e raccolse una rosa rossa,
l'esemplare coi petali
più morbidi e lucenti. Tornando al proprio posto,
sfiorò il materiale tra le mani
di
lui. "Marmo." Si sedette e sollevò la rosa tra le mani.
"Rosa."
Lo straniero - Sian - fece una pausa nel
proprio lavoro. Rivolse uno sguardo al fiore che lei teneva tra le
dita. "Marmo"
annuì. "Ro..." La sillaba si spense sulle sue labbra, suono
colpevole e amaro.
Iniziò a trattare l'immagine della rosa
come fosse divenuta
trasparente ai suoi occhi.
Si ammutolì e, per quella lunaria, così
rimase.
I giardini divennero il luogo in cui lui scelse di
stare. Dormiva sul
giaciglio che gli aveva permesso di recuperare le forze, ma da
sveglio usciva dalle stanze e si prodigava a lavorare sull'aiuola da
creare.
Quando voleva riposare, si fermava e guardava il cielo, seguendo il
percorso che la Terra compiva nella volta spaziale.
"Terra" gliela descrisse una volta lei, prima di
indicare i loro
dintorni e il suolo su cui poggiavano. "Luna."
Lui aveva ripetuto atono le parole, gli occhi che
si muovevano lenti a
indicare le entità nominate. Aveva fatto silenzio, poi aveva
guardato nel
vuoto e aveva detto, "Àven."
Aveva abbassato le palpebre, lembi di pelle provati
da sonni agitati e
infelici.
"Sian ni Àven."
Sin da quando ne era stato in grado, Sian di Àven
si era nutrito con riluttanza dei pasti che lei gli aveva offerto, cibi
semplici e pressoché insapori, pensati per una digestione
semplice che non gravasse su un corpo provato. Serenity aveva compreso
che, se lo straniero avesse potuto nutrirsi di sola volontà,
non
avrebbe mai mangiato.
Nei primi tempi, abbandonato sul letto per intere
lunarie, egli se
n'era rimasto ad osservare i piatti che si freddavano, sfidandosi da
solo a non cibarsene. I vapori che abbandonavano il cibo caldo
giungevano alle sue narici senza causare apparenti reazioni. Nei
momenti in cui lei si addormentava o non gli prestava più
attenzione, per l'alieno le necessità
del fisico vincevano su
quelle della mente.
Col corpo che riprendeva le forze, egli aveva in
seguito rinunciato
alla propria battaglia: mangiava ogni cosa, muovendo la mandibola come
se
dovesse ricordarsi, di volta in volta, di
comandare ai denti di masticare.
Era un'altra operazione di cui occuparsi per lui,
solo un modo per far
trascorrere il tempo. Nei suoi occhi correva il vuoto o un
ricordo, nulla che trapelasse nel presente.
Per le sue necessità di pulizia
corporea, Serenity aveva
messo a disposizione acqua, teli e unguenti, nonché
un
contenitore con
coperchio pensato per gli infanti, troppo minuto per un uomo cresciuto.
Poiché non le erano noti adulti che si rifiutassero di
provvedere alla propria depurazione interna senza l'indispensabile
ausilio del potere, aveva lasciato a lui l'incombenza di adattarsi.
Regolarmente, si era curata di impegnarsi in leziose passeggiate nei
giardini, per
dargli il tempo di provvedere al mantenimento del proprio decoro.
Da malato, Sian di Àven
aveva
provato gusto nel lasciarle il compito di mettere ordine a operazioni
terminate, una evidente forma di disprezzo nei suoi confronti.
Quando poi era riuscito ad alzarsi e si era acceso in lui un
minimo desiderio di comunicazione, quel problema era venuto meno.
La buona volontà e la salute
ritrovata colpirono Serenity a
sufficienza da offrirgli un pasto dotato di degni sapori.
Semi di rès lievitati e vegetali
terrestri di prim'ordine,
questo ordinò per il piatto di lui.
Dopo aver assaggiato il
cibo,
Sian di Àven
lo deglutì in
fretta, in volto un'espressione che poteva essere confusa per mite
soddisfazione.
A pasto terminato l'espressione di lui
cambiò rapidamente,
assieme al colorito del suo viso. I lunghi respiri, mantenuti
forzatamente silenziosi, non furono
sufficienti a sanare la situazione. Egli scattò in piedi.
Tenendosi il fianco ferito, si trascinò veloce fin dove
poteva,
appena fuori dalle stanze. Lì rimise tutto
ciò che aveva
ingerito.
Storcendo il naso, Serenity si costrinse ad
alzarsi.
Vi era dignità in una
condizione simile? Cosa
distingueva
quell'uomo da un'umile bestia, un essere che possedeva almeno il buon
senso di non credersi superiore al proprio stato? Non vi era ragione di
assecondare le sue credenze, la soluzione che lui si rifiutava
di prendere in considerazione era veloce e indolore: il potere era di
aiuto nell'evitare situazioni degradanti.
Una mano alta dello straniero la fermò
nel suo breve
cammino, il
corpo di lui ancora piegato in avanti.
"Àirami." Un
soffio veloce, deciso.
Lei sollevò le dita in aria e
sviluppò potere,
pulendogli il viso.
Sian di Àven
la afferrò per il polso, esercitando una pressione
violenta. "Riòndas."
Dissipando la propria energia, Serenity lo
sfidò ad
approfondire la minaccia.
Egli raddrizzò la schiena, prese un
respiro più
intenso.
Piegò quindi la testa, piano e con grande sforzo.
"Àirami"
ripeté a mento basso, lo sguardo rivolto al suolo che aveva
sporcato. La lasciò andare, chiedendole col palmo di tenersi
lontana. Fu assieme comando e invocazione.
Egli si diresse a recuperare
dell'acqua e i teli che usava per lavarsi. Li adoperò per
pulire, inginocchiato, la forma della propria vergogna.
Quando terminò, Serenity lo
seguì con lo sguardo.
Tra le
mani un fagotto di stoffa sporca, l'uomo si stava dirigendo alla fonte
che riforniva d'acqua pura i giardini.
Àirami.
Una parola di umiltà, la prima che Sian
di Àven
aveva pronunciato dopo
l'indecoroso incidente. Una parola che aveva ripetuto, rivolgendosi a
lei e sforzandosi di mostrare rimorso.
Nel comprendere il significato del termine,
Serenity ebbe un ricordo.
Àirami.
Gli occhi dello straniero rivolti supplicanti al cielo. Àirami,
àven.
...
Àven. Il nome del suo
pianeta.
Perdono,
aveva detto.
Perdonami, Àven.
Serenity si unì a lui
nella sua
occupazione
quotidiana, la
lotta impari contro il marmo ostinato dei giardini.
Non erano lontani
dal separare una prima lastra dal pavimento, ma lei divenne ancora
più caparbia nel costruire una conversazione tra loro, una
comunicazione
che andasse oltre il mero scambio di suoni che identificassero oggetti.
Riconosceva come inevitabile quel primo passaggio, ma lo
accelerò per poterlo rapidamente superare.
"Mano. Mano." Indicava i
rispettivi arti. "Vesti.
Vesti." Danzava con
le dita attorno agli abiti che indossavano entrambi. "Rose, petali.
Rami. Marmo,
lastra. Lastra."
Egli la osservava come se fosse
vento che si
ostinava a colpirlo.
Uno schiaffo veloce
alla mano lo mise in
allerta.
"Scusa" concesse Serenity.
Chinò
lievemente la testa. "Àirami."
Quando vide che egli aveva
compreso, lo
picchiò di
nuovo sulla base del palmo.
"Reny."
Avergli strappato un
avvertimento le
causò un sorriso che
tenne celato. "Picchiare." Scandì il suono e
colpì le proprie
dita, senza risparmiarsi. "Picchiare" ripeté lentamente.
L'attenzione dello straniero era
per lei.
"Parlare." Serenity
disegnò onde accanto
alle proprie
labbra.
"Par-la-re." Annuì e ripeté il movimento,
lasciandolo
partire dalla gola, indicando i suoni che si levavano in aria. "Sto
parlando. Prima tu
hai
parlato." Accentuò la parola che gli stava insegnando e
quella
che si riferiva a lui. Incrociò il suo sguardo concentrato e
annuì. "Parla." Ottenne un naturale silenzio. "Parla"
insistette.
"Reny."
Venne invasa da una sensazione
di vittoria. "Hai
parlato."
Annuì in premio.
"Reny, sèprits."
Sorrise a se stessa, a lui. "No"
scosse la testa.
Il silenzio non
portava a nulla. "Parleremo."
Egli non ripeté il
suo comando e lei lo
anticipò
prima
che lo impartisse nuovamente. Allungò una mano di lato e la
mosse in aria delicatamente, come creatura volante. "Movimento."
Si alzò in piedi,
girò
brevemente su se stessa.
"Movimento."
Non stava più
seguendo una logica nel
trasmettere le
conoscenze
del proprio linguaggio. Agiva in libertà, una mente che
vagava
senza regole.
Sollevò una gamba sotto le lunghe gonne, la
piegò di lato fino a sporgere col piede dal tessuto.
"Movimento." Si irrigidì e si mise seduta, gambe unite e
mani
composte sul grembo. Divenne grave nel tono. "Immobilità."
Lo
indicò dove stava, fermo e silente. "Immobilità.
Immobile."
Il viso di lui era privo di
reazioni chiare, il suo
unico pensiero
visibile in un tremito della guancia. Aprì lievemente la
bocca e
non parlò, una scelta derivata solo dalla mancanza di
vocaboli.
Si espresse infine come era sua
abitudine.
"Fèigrin ra
còistenra. Mis
tànisre."
"Stai parlando."
Egli abbandonò sul
suolo gli strumenti
di lavoro in marmo. "Sì.
Sa
sèprits, Reny."
Si allontanò verso le
stanze,
lasciandola sgomenta.
Aveva detto...
Sì.
Non era stata l'unica tra loro a
studiare il
linguaggio dell'altro,
comprese.
Sì.
Una sillaba che lei
aveva pronunciato di sovente, tra sibili di rabbia contenuta o in
compagnia di semplici affermazioni calme, discorsi con se stessa - su
di lui - che gli aveva lanciato contro. In contemporanea,
Sian di Àven
le aveva rivolto incomprensibili invettive di simile natura.
Il tono, un movimento
particolare delle
sopracciglia... Comprendere
qual era il termine che racchiudeva in sé un'affermazione
positiva poteva essere semplice.
Sì.
No.
Sian li possedeva entrambi
oramai, mentre a lei
sfuggivano nel linguaggio alieno di lui. Sà.
Aveva creduto che quel suono...
Pronta a intraprendere di nuovo
la sfida, decise di
combattere nei
momenti precedenti al sonno, quando la resistenza di lui era
più
debole.
Riverso sul letto,
trovò un uomo
abbandonato al proprio
dolore,
le pupille larghe e fisse sulle lenzuola, le labbra semiaperte e secche
nella folta peluria bionda.
Àirami.
Àirami, Àven.
Il silenzio della sua sofferenza
la rese umile.
Si sedette accanto al giaciglio
di lui, sul suolo.
Nelle camere che condividevano
malamente da un
intero ciclo di Luna,
posò le braccia sulle ginocchia unite. Studiò il
buio del
luogo segreto che aveva glorificato la sua solitudine di sovrana.
"Del tempo in cui nacque la
Luna, si narrano
innumerevoli fantasie."
"... sèprits."
Serenity divenne più
dolce
nell'esprimersi, soave e innocua.
"Della mia Luna si dice
che nacque come donna nello spazio, vagabonda senza dimora che si
espanse sino a creare la propria casa." Posò la guancia
sulla
spalla, morbidezza e calore al contatto. "Si narra che fummo un bacio
dell'Helios al firmamento, luce
che potesse splendere senza fuoco."
Cullò a parole il
silenzio di lui.
"Si narrano grandiose menzogne
di ciò
che fummo. Lo
permettemmo.
Abbiamo in verità molti nomi e un solo ruolo, per
una sola di noi. Il resto è attesa, un intervallo in
pausa che è divenuto vita per me. In potenza non
conosco
sconfitta, non ho
corona e sono ignota nella mia natura. Un mistero, se non per una
Serenity della Luna.
Parli con una regina che è un passaggio nella sua stirpe, ma
una
sovrana per il suo popolo.
Loro non sanno. Non vorrebbero sapere." Chiuse gli occhi, gravata dal
peso di eventi a cui non avrebbe mai assistito di persona. "Hanno
ragione. Può esistere colpevole ignoranza quando non vi
è
motivo di conoscere? Essi vivono e muoiono, compiono sereni il proprio
cerchio. Io insegnerò alla nuova Serenity che è
giusto
essere come i nostri sudditi. Non esistono
re e regine. Non esistono sovrani quando vuoi sorridere e far crescere
una rosa. Esiste solo..."
Se lo domandò lei
stessa.
"Ho trascorso molto tempo senza
una risposta." Eppure
essa non poteva celarsi lontano dalla sua Luna. Ne era convinta, doveva
crederlo.
Cercò nell'ombra
scura accanto a
sé. "Àven.
Quando mi parlerai del tuo pianeta, ti assisterò nel tuo
ritorno ad esso."
Serenity si destò dal
proprio sonno col
peso del silenzio
nelle orecchie.
Ad occhi aperti trovò
vuoto il giaciglio
di riposo accanto a
sé. Allarmata, accese per istinto i sensi in una ricerca
rapida, infruttuosa. Si alzò e cercò ansiosa
nell'area dei giardini. Il luogo di lavoro
vicino alle aiuole era abbandonato, uno degli improvvisati strumenti di
marmo rotto in più pezzi.
Si sentì smarrita
nella sua stessa casa.
Cercava un corpo senz'aura, una
persona che
riusciva a parlare, ad
esistere e a soffrire, senza emanare un solo soffio di energia. Pensava
di essersi abituata ad averlo intorno fino a che lo aveva avuto nel
suo campo visivo, rapidamente individuabile. Ma
ora?
Egli poteva essere uscito dalle
stanze, tra la
gente.
Si trattenne dallo spalancare le
porte.
I giardini erano vasti,
escludere che vi si fosse
addentrato era
prematuro. Si liberò delle calzature e corse
verso
la fonte d'acqua pura. Giunse a quel luogo con passi soffici,
accarezzando coi piedi zolle di erba e lastre di marmo.
Sian di Àven
era seduto sul bordo
della lunga vasca, le gambe immerse nell'acqua, il capo chinato in
avanti. Le rivolgeva la
schiena e, dai movimenti delle sue braccia sollevate, lei intuiva lo
svolgersi di una misteriosa operazione sul suo viso. Spostandosi
silenziosa, Serenity giunse a vedere il pezzo di
marmo nella mano di lui. Con le dita egli tirava i peli morbidi che gli
adornavano le guance. Col lato appuntito dello strumento, premendo
sulla base dei
ciuffi, tagliava.
Come punizione il sangue gli piaceva: noncurante,
egli lo versava
dalle nocche, in rivoli sul collo, come macchie sulle vesti.
Serenity comprese di non avere
più
intenzione di ospitare un
martire delirante. Si concentrò sulle proprie mani chiuse a
pugno e, in un istante, diede vita a un semplice utensile.
Sian di Àven
si tese, trafitto a schiena rigida. Per lui l'energia benefica che
pervadeva la Luna era ancora il segno di
una minaccia puntata alla gola.
A lei non importò
più: lo
aveva assecondato oltre
ogni limite di sopportazione, per entrambi. Dopo un intero ciclo di
lunarie
passato sul suo pianeta, quell'uomo non si era ancora
rassegnato al
principio fondamentale che governava tutti loro.
Serenity si diresse da lui, la
piccola lama con
manico stretta nel
pugno.
Giunse a sfiorare l'acqua con
l'orlo delle gonne e
allungò
il braccio, offrendo lo strumento allo sguardo d'odio alieno che si
posò su di lei, valutando le sue intenzioni con infinito
isprezzo.
Il movimento della mano di lui
fu calmo, calcolato.
Prese dal suo palmo
l'oggetto, lo tenne nel pugno senza guardarlo, osservando invece lei.
Si
accertò di farle vedere la soddisfazione che
provò quando, con un rapido movimento,
gettò il coltello in acqua.
Impongo
giustizia,
insegno ad estranei come si vive in un mondo che non mi appartiene e
che neppure conosco.
Era come se lui lo avesse detto.
Era un Re, comprese senza
più dubbi Serenity.
L'arroganza delle sue azioni e delle sue convinzioni era possibile,
davanti a una Regina come lei, solo per un
regnante che fosse convinto di essere un suo pari. Privo di forza
com'era, egli conservava ugualmente la dignità che ogni
sovrano
o sovrana doveva portare in sé, quale anima del proprio
pianeta.
Ma sulla Luna egli era un
ospite. Umile
personaggio comune, se
lei decideva
di trattarlo come tale.
Lo straniero era un Re senza pianeta, che
invocava implorante il
perdono di un mondo
lontano.
Fu solo per pietà che Serenity
decise di essere
clemente con lui, ma
non per questo si arrese. Osservò il luccichio dello
strumento che si era posato sul fondo dell'acqua e mosse veloce la
gamba, poggiando il piede in avanti, sul pavimento, e dandosi il giusto
slancio. Col corpo disegnò in aria un arco che
sparì nel fresco della fonte.
Acqua, dolce acqua in cui non vi
erano regine o
potenti, solo
respiro e silenzio.
Aprì gli occhi e
dimenticò il
proprio abbandono.
Si spinse verso il basso, sino a chiudere tra le dita l'impugnatura
dell'utensile che aveva creato secondo le credenze dell'alieno. Egli
desiderava una lama? Lei gliene aveva data una e ora Sian
di Àven,
in una maniera o nell'altra, ne avrebbe fatto uso.
Riemerse. Nuotando,
tornò davanti a lui,
imponendo ai suoi occhi la vista del coltello, un dono forzato che
doveva essere accettato.
Fu un attimo, un errore: per
sollevare il braccio
sopra l'acqua smise
di sostenersi coi muscoli e lo fece col potere.
Allertato, lui l'afferrò per la
spallina della veste e la trascinò verso di sé,
chiudendola nella morsa delle gambe.
Così la tenne fuori dall'acqua, con la punta della lama che
toccava la sua gola scoperta.
"Riòndas
àisami, àisanemisra."
Il coltello tagliò, entrò sottopelle.
"Làren sa àcarisca. Carìs...
Carìs, mèsa."
Un soffio in più e
la lama avrebbe
reciso il vaso sacro, il
tubo di carne morbida che proteggeva il percorso vitale del sangue
verso la testa. Sarebbero stati sufficienti pochi momenti: forse non
sarebbe riuscita a comandare alla pelle di ricompattarsi in tempo,
forse la sua mente si sarebbe spenta prima. Il suo termine poteva
giungere... ora.
Eccolo il suo riposo, in pace, nella
fonte del suo
giardino. Le rose, il loro
profumo
lontano nelle narici. Il suo corpo nell'acqua fresca, dove non sarebbe
mai stata ritrovata. Il riposo nella culla della sua Luna, che non
aveva
amato abbastanza da vivere.
Deglutì e
accettò il dolore
del taglio come la
giusta
punizione per una regina che non meritava il proprio pianeta. Poi mosse
il
braccio per allontanare la mano di lui, la protezione di
potere già pronta a difendere tutto il suo corpo. Sian
di Àven sciolse la presa prima di lei.
Serenity galleggiò
all'indietro. Il
sangue della ferita sul
collo andò a mischiarsi ai rivoli d'acqua che le cadevano
dai
capelli.
Con un dito, chiuse il taglio
sulla pelle.
Uno sciabordio si
abbatté
su di lei con un'onda
lieve: Sian
di Àven era entrato in acqua, la lama che l'aveva
ferita in mano, tesa verso di
lei.
"Carìsmi."
Appoggiò la
schiena contro il bordo
della
fonte e annuì, umile. "Carìsmi.
Sànaa." Lui concordò con un inespresso proposito
e sollevò il
capo,
scoprendo il collo chiazzato di peli biondi e sangue.
"Sànaa"
ripeté, insistendo nell'aprire verso
di lei il palmo col coltello.
Le offriva, capì
Serenity, la stessa
punizione finale che
era stato sul punto di infliggerle.
Così
termina anche questo,
pensò lei. Chiuderemo
la vita inutile di un uomo inutile, che non trova
più ragioni per esistere.
Prese la lama e nuotò
verso di lui. Si
sostenne anche con il
potere, di proposito, osservando il modo in cui Sian l'alieno
accettò rassegnato di non contrastarla più,
convinto di
non avere più un motivo di farlo.
"È un primo passo"
sussurrò
lei,
teletrasportando nel palmo della mano libera un velo d'unguento. Glielo
spalmò sul viso prima che lui potesse opporsi, sentendolo
tremare
per lo sforzo di controllarsi. Gli schiacciò la testa di
lato
con un palmo aperto, studiando la maniera migliore per far scivolare il
filo della lama sulla sua guancia.
"Fa' silenzio" gli disse, quando
percepì
che egli stava per
parlare e farneticare di nuovo di riòndas
e àisanee
che non significavano nulla sulla Luna.
Non lo avrebbe ucciso. Sarebbe
stata la sua
punizione, se insisteva
tanto nel cercarne una.
Sarebbero sopravvissuti
entrambi, a forza se
necessario, fino a che non
fossero tornati umani, capaci di non guardare alla morte come a una
soluzione.
Come sovrani, rappresentavano l'ordine nel cosmo. Spettava a
loro combattere contro il caos, invece di diventarne lo strumento.
Dovevano vivere. Avevano
qualcosa per cui vivere.
La
mia gente.
La mia Luna.
Sollevò gli occhi al
cielo e
passò delicatamente la
lama sulla pelle di lui, senza ferirlo.
Sei
la mia Luna, il mio pianeta. Per il momento
in cui mi sono arresa... Perdonami.
Riuscì a non piangere.
CONTINUA
NdA: sarà
una storia in tre
parti -_- . O quattro?
Se non
riesco a terminare in altri 30KB la loro storia, le parti saranno
quattro.
Mi sono accorta di essere
arrivata alla stessa
lunghezza del primo
capitolo con questa seconda parte e che... andava bene fermarsi qui.
Serenity in questo capitolo
prova a comunicare con
Sian e finisce col
comunicare molto a se stessa.
Cosa pensate di lei? E di lui?
Le reazioni di Sian e le sue
motivazioni non sono
ancora chiare, spero
di riuscire a farvi capire bene la ragione di tutte le sue azioni.
ellephedre