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Nota iniziale: Un
paio di parole sul titolo di questo capitolo. Dopo Lavanda e Lupini
Ornamentali, il fiore che dà il nome a questo penultimo capitolo è la
Robinia Pseudoacacia (in inglese Locust Tree).
Nel linguaggio dei fiori questa pianta (e i suoi fiori) ha il significato un po'
triste dell'amore che va oltre la morte.
Grazie a
sara che ha recensito.
AMARCORD
Bgm:
The Icicles – Sugar Sweet
Oh
baby you're sugar sweet
and your loving knocks me off my feet
***
Non è
facile alzarsi quando si ha ancora tempo per poltrire.
Anche per
chi ricorda di non aver mai amato tanto l’idea di restare a crogiolarsi nella
mollezza delle lenzuola calde, con le loro promesse carnali, fasulle, di un
oblio intervallato da sogni, intervallato da niente.
Non l’hanno
mai sedotto cose simili.
Ricorda
invece l’oscurità più nera della barriera delle ciglia serrate di notti insonni,
talami inviolati e cortine scostate appena per non insospettire. C’è un intero
cielo commosso con le stelle a luccicargli negli occhi che lo sormonta.
Tutto è
silenzio e attesa immobile.
La notte
amica potrebbe durare in eterno.
L’uomo ha
tutto il tempo del mondo per accendersi una sigaretta.
Un’abitudine orribile, rimugina disgustato, dovrei decidermi a smettere.
Ma è un
vizio segreto che si porta dietro da anni e fa parte di lui: dai tempi della
scuola, quando la notte, di nascosto, ne prelevava una o due dalla giacca di
Sirius per poi restare ore davanti alla finestra spalancata a dosare ogni
boccata per far durare quanto più possibile quei piccoli tesori.
Gli è
sempre piaciuto sentire il fresco della sera sulla pelle accaldata dalla vampa
soffocante di un’umida sera d’estate. Il vento a scompigliare i capelli e a
rincorrere il fumo, in bocca il sapore amaro e deciso del tabacco.
Allora
c’era il cornicione di pietra a grattare piacevolmente i gomiti.
Ora solo il
gelo della ringhiera di ferro corroso dalla ruggine a grattare via la pelle
ruvida.
E’ vecchia
e pericolante, non dovrebbe appoggiarvisi con tutto il peso.
Prima o
poi dovrei decidermi a fare qualcosa, pensa ancora.
Poi
ovviamente procrastinerà all’infinito.
Una voce lo
risucchia dove ancora gli orologi cadenzano i secondi.
“Dovremmo
andare.”, sbadiglia una voce roca e impastata di sonno da qualche parte alle sue
spalle. L’uomo si volta appena in direzione del giaciglio.
“No.”, si
ribella seccato. “Abbiamo ancora tempo.”
“Ma io non
ce la faccio più ad aspettare.”
E’ un
gemito capriccioso, da bambino.
“Ho detto
non ancora, Sirius.”
L’altro
tace, sgomento.
Non è
abituato a simili rifiuti.
Ha sempre
avuto una fretta del diavolo, Sirius.
Amici, vita
o donne. Ha sempre corso da qualche parte, senza sapere esattamente dove fosse
diretto.
Non che
importasse.
Bastava
solo avanzare.
E tutti si
sono sempre lasciati trascinare dalla sua furia impenitente.
Tranne lui.
A lui è sempre piaciuto fermarsi e attendere.
Per poter
riflettere e ricordare.
Per
un’ultima boccata.
La prima la
ricorda ancora: aveva quattordici anni e una smorfia disgustata a deformargli la
bocca come una cicatrice storta. La sigaretta, stretta tra l’indice è il medio
come aveva visto fare a Sirius di nascosto, ma non con la stessa baldanza, aveva
un sapore sporco di cenere e putredine.
Ma era
bello inspirare a fondo dal filtro e sentirsi invadere i polmoni infiammati da
uno sgradevole calore nocivo.
E poi
espellerlo ridendo piano.
Lo
osservava salire in alto come inebetito.
Assieme al
fumo se ne andavano anche tutti i pensieri.
Persi in
quel cielo sostenuto da stelle tremule e velato di nebbia.
L’uomo
lascia al di là delle palpebre calate, come intrusi, il cielo che ammicca
ambiguo e la luna che allatta di luce una città assopita; le forme sfocate delle
case di mattoni e la strada che splende, spennellata di pietre scure e
impregnate di bruma. Non c’è più neppure il lago nero a scintillare d’argento
nei suoi ricordi, né le chiome piene degli alberi scuri a nereggiare nella
foresta in lontananza.
Neppure gli
ansimi o i singulti soffocati.
O il lieve
sospiro d’amore che segue.
“Ti amo.”
L’uomo
nemmeno si volta.
Sono
ricordi, non parole per lui.
Nella testa
il suono di cortine tirate e chiuse.
Lo schiocco
di un bacio, poi passi rapidi e pesanti.
Accoglie
con stranito stupore quelle braccia forti a cingerlo da dietro: una mano scende
a strofinarsi lungo la vita, con i polpastrelli a premere sullo stomaco, a
giocherellare con la fine peluria bionda sotto i vestiti, poi a vellicare con le
unghie il bordo rappreso di qualche cicatrice antica che solca la pelle fresca,
mentre l’altra a tradimento da sopra la spalla abbranca la cicca storta che
stringe tra le labbra e la getta oltre la finestra con uno schiocco esperto
delle dita dopo averla finita in fretta con un tiro lungo e veloce.
Nemmeno il
rude frusciare di una guancia non rasata contro il viso o il tanfo
insopportabile di cenere che gli viene soffiato rozzamente sul viso riescono a
strappare dalla mente i ricordi di quel Sirius giovane ed impudente.
Coi suoi
capelli scomposti, gli occhi brillanti.
Col sorriso
sornione e soddisfatto nell’osservarlo ogni volta con la sigaretta accesa tra le
dita l’istante prima di scippargliela. La sola idea di aver “sporcato” il
perfetto, angelico Remus con uno dei suoi turpi vizi da poco di buono sembrava
riempirlo ogni volta di un’esultanza folle.
L’uomo apre
gli occhi e ricambia il ghigno che gli viene rivolto sul viso sbrindellato
quando il ragazzo che era al solo sentirlo accanto avrebbe distolto lo sguardo
con la scusa di aver qualcosa da vedere oltre le sagome scure delle colline,
avvinto da tutta quella sciocca, infantile melanconia. Qualcosa che lui non
avrebbe potuto capire, perché era un “normale”. Benché la parola lo facesse
sempre sorridere un po’, specie se associata a Sirius.
Avrebbe
fissato la notte.
Un abisso
annebbiato di fumo e nebbia.
Lo
compatisce, adesso, quel povero bimbo dagli occhi tristi, e non può far altro
che scuotere la nuca con inopportuna indulgenza.
E’ di se
stesso che ha pena, in fondo.
Sirius
poggia il mento nell’incavo della spalla sobbarcandolo di tutto il suo peso al
punto da fargli cedere le gambe un istante e preme la bocca sul collo sottile,
le labbra piegate verso alto in un riso sazio.
“Sono
esausto.”
L’uomo lo
fissa un istante.
Il ragazzo
avrebbe annuito piano, indifferente.
L’uomo
sospira piano e stringe gli occhi in un sogghigno comprensivo e una mano sale a
scardassargli i bei capelli neri, lasciando che le dita penetrino nell’intrico
d’inchiostro della chioma sciogliendo i nodi con materna tenerezza mentre
l’altro si abbandona al suo tocco con un lamento appagato.
Le labbra
aperte appena.
Le ciglia
socchiuse come al culmine dell’orgasmo.
Aveva perso
il conto di quante volte aveva sognato di farlo in gioventù.
Però sapeva
che Sirius non gliel’avrebbe permesso, allora.
Non ha mai
concepito simili effusioni tra maschi.
Ricorda la
brutale malizia del ragazzo.
Il sarcasmo
crudelmente imposto.
Persino
l’adulto logoro e sfilacciato che gli aveva restituito Azkaban non si era
risparmiato frecciate tra le righe, a volte.
Ora
null’altro che amabilità struggente mentre si piega verso di lui per poi
sfiorargli le labbra gelide e pallide con le proprie, calde e ardenti. L’uomo si
tira immediatamente indietro con un sobbalzo atterrito, mentre una mano sale
istintiva a pulirsi dalla bocca le tracce di quel bacio.
E’
inaspettato.
E freddo.
“Che
succede?”, domanda Sirius piegando appena la testa di lato, assumendo un’aria di
stranita preoccupazione.
Le dita
congelano le loro premurose carezze.
Con gli
occhi castani innaturalmente spalancati e la bocca schiusa in una O di muto
stupore, con le mani che tremano appena e la voce surgelata in gola l’uomo torna
il ragazzo colto la prima volta sul fatto in quella fredda sera di inizio
primavera del quarto anno: quando Sirius, alzatosi per chiudere la finestra del
dormitorio borbottando maledizioni in direzione dell’ “idiota che l’ha
lasciata aperta”, senza nemmeno avere la decenza di mettersi qualcosa
addosso, se l’era ritrovato davanti con una delle sue sigarette accesa tra le
labbra, lo sguardo sfuggente e le guance paonazze di vergogna.
Non era
sembrato stupito quanto avrebbe dovuto di quella tacita presenza.
Si sarebbe
quasi detto lusingato.
“Hai
ascoltato qualcosa di tuo gusto?”, aveva ghignato davanti al suo disagio, la
voce roca stemperata di volgare compiacimento di sé, mentre l’altro non aveva
potuto far altro che tacere deglutendo una boccata di fumo disgustoso, e pregare
di trovare la forza di non strappargli dalla faccia quella stupida espressione
orgogliosa.
Di non
lasciarsi annientare da un amore disperato.
Da parole
ironiche e sprezzanti.
“Va tutto
bene?”
L’uomo
scuote la testa.
“Certo.
Perché non dovrebbe?”
Il sorriso
che gli gela la bocca è studiato, frutto di anni di finzioni.
Era sempre
stato facile per lui. Persino quel patetico ragazzo ci riusciva.
Bastava
stirare e stendere i muscoli del viso fino al punto di rottura, fino a sentire
lo strappo sotto la pelle, piegare in alto gli angoli delle labbra lasciando
appena scoperti i denti (solo un po’) e arricciare il naso. Riusciva addirittura
a far brillare gli occhi di una luce gaia, quando le lacrime vi premevano forte
agli spigoli.
Allora
Sirius gli posava una mano sulla spalla.
Lo
stringeva a sé con tenerezza paterna.
Poi lo
guardava di sottecchi.
“Sei
davvero carino.”
E rideva.
Rideva
piano.
Beffardo
come la luna.
Scotendo
appena le spalle e il petto robusto.
Stringendo
la bocca in una linea esangue a trattenere il fiato.
Perché solo
Sirius poteva scambiare l’amore per santocchieria.
Un’improvvisa folata di vento gelida cristallizza quell’istante e lo lascia
scivolare via lungo la spina dorsale come il brivido che lo scuote in interezza
e gli fa sfuggire di bocca un’imprecazione mentre si cinge le braccia con le
mani.
L’uomo
chiude gli occhi sentendoseli pizzicare.
Stringe i
denti per non ascoltarli battere.
Merlino,
sta gelando dentro e fuori.
Di ardente
c’è solo il sussurro ardente che preme contro l’orecchio e quelle mani che lo
stringono ancora, dolci.
“Non
preoccuparti. Passerà presto.”
L’uomo
annuisce a fatica scosso dai brividi, ma sa che non è vero.
E sorride
ancora, ed è un sorriso diaccio, al ricordo delle stesse identiche parole
pronunciate da una ragazza dai capelli fini e dallo sguardo brillante: ricorda
le mani e i gomiti poggiati fermamente sul tavolo, le dita sottili intrecciate
strette come nodi di una corda bagnata, allentate solo per rigirarsi il
bell’anello all’anulare sinistro; c’è quel sorriso teso sulle labbra sottili che
elargiscono tè e parole di conforto a poco prezzo, e lo sguardo chiazzato di
efelidi rade a verdeggiare fuggevole e lontano.
La voce è
l’unica cosa che non ricorda.
Eppure
parlavano per ore.
Quando si
trovavano da soli gli dispensava consigli e tempo prezioso, e la testa scarlatta
si protendeva languidamente in avanti con fare intimo di confidenza schietta, ma
non l’ha mai ascoltata.
Annuiva
meccanicamente.
Perché gli
chiedeva di dimenticare.
Di
aspettare che il tempo liquefacesse il dolore.
“Innamorarsi di una persona come Sirius significa irrimediabilmente soffrire.”,
sentenziava affranta, e le sopracciglia naturalmente tendenti al broncio si
accartocciavano in una mossa pia di dispiacere che non faceva altro che
tingergli la lingua del sapore amaro della vergogna.
Si sentiva
falso, e insulto.
Lily aveva
ragione, almeno un po’.
Ma
innamorarsi di Sirius non era solo quello.
Significava
anche passare notti insonni davanti a una finestra aperta a contaminarsi i
polmoni col fumo delle sigarette babbane e ad ascoltare notte dopo notte, anno
dopo anno, i gemiti soffocati di piacere delle sue amanti, mordersi le labbra
fino a sentire la pelle tenera del labbro spezzarsi tra i denti acuminati in
preda a una furia cieca.
Lanciare
occhiate fugaci in direzione del letto e delle cortine malamente tirate a
scorgere brandelli di lunghe chiome brillare alla luce della luna, di seni tondi
e forme morbide intrecciate a muscoli guizzanti.
Torcersi le
mani fino a spezzarsi le unghie, graffiarsi le falangi nel disperato tentativo
di non cedere al desiderio che suo malgrado lo avvinceva assieme all’invidia e
al disgusto per se stesso per poi arrendersi agli impulsi quando alla fine,
inevitabilmente, avevano la meglio.
Era rapido.
Triste e
penoso.
Come un
mare senza onde.
Come un
bosco ammantato di neve.
Un’ombra si
intromette tra quel quadro immaginario mortalmente vivido e la squallida
stradina inondata di luce notturna che gli si para innanzi con l’innaturale
silenzio di quegli istanti di notte profonda e quieta. L’uomo dischiude lento le
ciglia e quel Sirius tenero e attento è ancora lì, a piegare la testa di lato
stringendo gli occhi in un sorriso compiaciuto. Si abbandonerebbe contro quel
corpo vivo col singulto strozzato che il ragazzo e l’adulto si sono sempre
negati; affonderebbe le dita informicolite nel tessuto delle sue vesti calde,
conficcandoli come spille fino a spingere e pungere la carne sotto di esse, con
una disperazione istintiva che aveva sempre creduto appartenere al lupo e
soltanto ad esso; si concederebbe la pace stucchevole e melensa che brama.
Ma c’è
questa tetra melanconia che lo raggela.
Gli ha
ingolfato le membra.
Agghiacciato la voce e condensato quella logica petulante ed ostinata in soffici
sbuffi di fiato cagliato.
E poi c’è
la luna.
Non è mai
stata così bella.
Nascosta
dietro stracci di nuvole nere e viola, sottili come rami d’albero.
Con la sua
luce azzurra e muta.
Ignobilmente gravida.
Gonfia.
Piena.
“Remus…”
Lo chiama.
L’uomo non
si volta.
Incerto di
ciò che vedrà.
Ma dita
rudi e ruvide sono fatte solo per stringere e graffiare, non per concedere
carezze e la dolce consolazione dell’incertezza: si sente afferrare per il mento
e incivilmente torto di lato, a incontrare un altro paio d’occhi.
Hanno
qualcosa di spudorato che lo indispone, quelle iridi grigie e ardite di chi non
ha niente da temere o da perdere, a cui nulla importa se non di loro stesse, ma
allo stesso tempo lo tranquillizzano con la loro familiarità.
“Non voglio
restare qui un secondo di più”, sogghigna minaccioso, con le labbra piegate in
un ghigno compunto e teatrale mentre la presa si fa forte, quasi a far male.
All’uomo fa stringere il cuore ricordare il folle scoramento di quelle parole
pronunciate dalla stessa bocca, e quasi ride al pensiero di quella giovane e
limpida donna che sbattendosi la porta alle spalle per l’ultima volta gli aveva
gridato tutt’altro, solo poche sere fa.
Ce l’ha un
cuore, allora.
E’ un cuore
un po’ triste e strano che non gioisce al ritmo degli altri, che resta immoto e
mutolo nel trionfo e scoppia di esultanza nel riflesso pallido di ricordi
sbrecciati e malinconici.
Però c’è.
Così come
c’era di fronte al lampo sconfortato sul viso pallido, illuminato dalla tenue
luce di un turchese artificiale della bacchetta, e davanti alle ciocche nere e
pesanti dei capelli scivolare sulle guance ad ogni scatto furibondo del capo,
rigandole d’inchiostro. Davanti alle labbra trasfigurate in una smorfia
spiacevole e acre.
Davanti
alla voglia infantile di sentirsi utile.
E alla sua
folle corsa verso la fine.
Adesso come
allora, avvinto, l’uomo annuisce stanco.
"Va bene,
andiamo."
Poi
accoglie quell’abbraccio contento che improvviso l’avvolge come l’arrivo
dell’alba da ragazzo.
Quando solo
assisteva alla morte ingloriosa della notte, lasciata sola dietro finestre
opportunamente chiuse, soffocata da un tenue, implacabile ammantarsi di rosa e
lilla; quando coi polpastrelli scabri seguiva quei primi tiepidi fili scarlatti
di sole lungo la superficie del vetro, stupendosi ogni volta del bizzarro
contrasto tra il fuoco di quel globo di luce ardente e il gelo freddo sotto le
dita.
Adesso
invece non è più così strano.
L’uomo
sorride in quell’abbraccio.
Ricorda
quel giovane triste e patetico che volgeva lo sguardo a quel letto estraneo, non
la prigione da cui fuggire, ma il rifugio in cui ripararsi. Tra le cortine
scostate appena, nei guizzi fumosi di una luce timida del primo giorno, avrebbe
visto un giovane dai tratti armoniosi riverso di gusto sulle lenzuola: sdraiato
supino coi capelli neri e mossi selvaggiamente intrecciati al bianco della
federa, a spandere le membra nude sul materasso.
Il ragazzo
arrossiva sentendosi sciocco.
Sapeva che
avrebbe dovuto distogliere lo sguardo, magari tornare a letto prima che qualcun
altro si svegliasse e lo vedesse lì, ma una curiosità sconosciuta e
incontrollabile, che nei pensieri arrivava a volte a giudicare oscena,
l’attraeva verso la visione proibita: allora tornava a spiare quel viso che
scorgeva appena tra le increspature di stoffa vermiglia screziata di calda luce
color arancio.
Oltre le
ciglia nere a nascondere gli occhi alteri e gli zigomi alti, il naso sottile un
po’ ingobbito al centro arrogantemente teso all’insù e le labbra piene e rosse
appena socchiuse in una piega dolce.
Con
tenerezza si soffermava sulla mano stretta a pugno intorno all’aria, come i
bambini, e segue la linea morbida dell’arto fino a quel punto tra spalla e
clavicola che tanto l’attrae, e lo sguardo si imbronciava alla vista dei segni
scuri di un possesso ingannevole e illusorio di una donna che era niente.
Fuggita
prima del levarsi di Venere.
Come le
altre prima di lei e quelle che sarebbero seguite.
Come la
luna ghignante che oltre l’orizzonte ogni notte annega.
Allora il
ragazzo distoglieva lo sguardo.
Poggiava la
fronte al vetro e fissava il cielo.
“Non sentirà la tua mancanza.”,
soffiava ridendo.
“Il mondo non si ferma solo
perché tu non ci sei più.”
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