Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: TwinStar    05/12/2006    1 recensioni
C’è un’intera realtà
scandita di ricordi
che aspetta solo d’essere vista con occhi nuovi.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Coppie: Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nuova pagina 1

Nota iniziale: Un paio di parole sul titolo di questo capitolo. Dopo Lavanda e Lupini Ornamentali, il fiore che dà il nome a questo penultimo capitolo è la Robinia Pseudoacacia (in inglese Locust Tree). Nel linguaggio dei fiori questa pianta (e i suoi fiori) ha il significato un po' triste dell'amore che va oltre la morte.

 

Grazie a sara che ha recensito.

 

 

AMARCORD

 

Bgm: The Icicles – Sugar Sweet

Oh baby you're sugar sweet
and your loving knocks me off my feet

 

***

Non è facile alzarsi quando si ha ancora tempo per poltrire.

Anche per chi ricorda di non aver mai amato tanto l’idea di restare a crogiolarsi nella mollezza delle lenzuola calde, con le loro promesse carnali, fasulle, di un oblio intervallato da sogni, intervallato da niente.

Non l’hanno mai sedotto cose simili.

Ricorda invece l’oscurità più nera della barriera delle ciglia serrate di notti insonni, talami inviolati e cortine scostate appena per non insospettire. C’è un intero cielo commosso con le stelle a luccicargli negli occhi che lo sormonta.

Tutto è silenzio e attesa immobile.

La notte amica potrebbe durare in eterno.

L’uomo ha tutto il tempo del mondo per accendersi una sigaretta.

Un’abitudine orribile, rimugina disgustato, dovrei decidermi a smettere.

Ma è un vizio segreto che si porta dietro da anni e fa parte di lui: dai tempi della scuola, quando la notte, di nascosto, ne prelevava una o due dalla giacca di Sirius per poi restare ore davanti alla finestra spalancata a dosare ogni boccata per far durare quanto più possibile quei piccoli tesori.

Gli è sempre piaciuto sentire il fresco della sera sulla pelle accaldata dalla vampa soffocante di un’umida sera d’estate. Il vento a scompigliare i capelli e a rincorrere il fumo, in bocca il sapore amaro e deciso del tabacco.

Allora c’era il cornicione di pietra a grattare piacevolmente i gomiti.

Ora solo il gelo della ringhiera di ferro corroso dalla ruggine a grattare via la pelle ruvida.

E’ vecchia e pericolante, non dovrebbe appoggiarvisi con tutto il peso.

Prima o poi dovrei decidermi a fare qualcosa, pensa ancora.

Poi ovviamente procrastinerà all’infinito.

Una voce lo risucchia dove ancora gli orologi cadenzano i secondi.

“Dovremmo andare.”, sbadiglia una voce roca e impastata di sonno da qualche parte alle sue spalle. L’uomo si volta appena in direzione del giaciglio.

“No.”, si ribella seccato. “Abbiamo ancora tempo.”

“Ma io non ce la faccio più ad aspettare.”

E’ un gemito capriccioso, da bambino.

“Ho detto non ancora, Sirius.”

L’altro tace, sgomento.

Non è abituato a simili rifiuti.

Ha sempre avuto una fretta del diavolo, Sirius.

Amici, vita o donne. Ha sempre corso da qualche parte, senza sapere esattamente dove fosse diretto.

Non che importasse.

Bastava solo avanzare.

E tutti si sono sempre lasciati trascinare dalla sua furia impenitente.

Tranne lui. A lui è sempre piaciuto fermarsi e attendere.

Per poter riflettere e ricordare.

Per un’ultima boccata.

La prima la ricorda ancora: aveva quattordici anni e una smorfia disgustata a deformargli la bocca come una cicatrice storta. La sigaretta, stretta tra l’indice è il medio come aveva visto fare a Sirius di nascosto, ma non con la stessa baldanza, aveva un sapore sporco di cenere e putredine.

Ma era bello inspirare a fondo dal filtro e sentirsi invadere i polmoni infiammati da uno sgradevole calore nocivo.

E poi espellerlo ridendo piano.

Lo osservava salire in alto come inebetito.

Assieme al fumo se ne andavano anche tutti i pensieri.

Persi in quel cielo sostenuto da stelle tremule e velato di nebbia.

L’uomo lascia al di là delle palpebre calate, come intrusi, il cielo che ammicca ambiguo e la luna che allatta di luce una città assopita; le forme sfocate delle case di mattoni e la strada che splende, spennellata di pietre scure e impregnate di bruma. Non c’è più neppure il lago nero a scintillare d’argento nei suoi ricordi, né le chiome piene degli alberi scuri a nereggiare nella foresta in lontananza.

Neppure gli ansimi o i singulti soffocati.

O il lieve sospiro d’amore che segue.

“Ti amo.”

L’uomo nemmeno si volta.

Sono ricordi, non parole per lui.

Nella testa il suono di cortine tirate e chiuse.

Lo schiocco di un bacio, poi passi rapidi e pesanti.

Accoglie con stranito stupore quelle braccia forti a cingerlo da dietro: una mano scende a strofinarsi lungo la vita, con i polpastrelli a premere sullo stomaco, a giocherellare con la fine peluria bionda sotto i vestiti, poi a vellicare con le unghie il bordo rappreso di qualche cicatrice antica che solca la pelle fresca, mentre l’altra a tradimento da sopra la spalla abbranca la cicca storta che stringe tra le labbra e la getta oltre la finestra con uno schiocco esperto delle dita dopo averla finita in fretta con un tiro lungo e veloce.

Nemmeno il rude frusciare di una guancia non rasata contro il viso o il tanfo insopportabile di cenere che gli viene soffiato rozzamente sul viso riescono a strappare dalla mente i ricordi di quel Sirius giovane ed impudente.

Coi suoi capelli scomposti, gli occhi brillanti.

Col sorriso sornione e soddisfatto nell’osservarlo ogni volta con la sigaretta accesa tra le dita l’istante prima di scippargliela. La sola idea di aver “sporcato” il perfetto, angelico Remus con uno dei suoi turpi vizi da poco di buono sembrava riempirlo ogni volta di un’esultanza folle.

L’uomo apre gli occhi e ricambia il ghigno che gli viene rivolto sul viso sbrindellato quando il ragazzo che era al solo sentirlo accanto avrebbe distolto lo sguardo con la scusa di aver qualcosa da vedere oltre le sagome scure delle colline, avvinto da tutta quella sciocca, infantile melanconia. Qualcosa che lui non avrebbe potuto capire, perché era un “normale”. Benché la parola lo facesse sempre sorridere un po’, specie se associata a Sirius.

Avrebbe fissato la notte.

Un abisso annebbiato di fumo e nebbia.

Lo compatisce, adesso, quel povero bimbo dagli occhi tristi, e non può far altro che scuotere la nuca con inopportuna indulgenza.

E’ di se stesso che ha pena, in fondo.

Sirius poggia il mento nell’incavo della spalla sobbarcandolo di tutto il suo peso al punto da fargli cedere le gambe un istante e preme la bocca sul collo sottile, le labbra piegate verso alto in un riso sazio.

“Sono esausto.”

L’uomo lo fissa un istante.

Il ragazzo avrebbe annuito piano, indifferente.

L’uomo sospira piano e stringe gli occhi in un sogghigno comprensivo e una mano sale a scardassargli i bei capelli neri, lasciando che le dita penetrino nell’intrico d’inchiostro della chioma sciogliendo i nodi con materna tenerezza mentre l’altro si abbandona al suo tocco con un lamento appagato.

Le labbra aperte appena.

Le ciglia socchiuse come al culmine dell’orgasmo.

Aveva perso il conto di quante volte aveva sognato di farlo in gioventù.

Però sapeva che Sirius non gliel’avrebbe permesso, allora.

Non ha mai concepito simili effusioni tra maschi.

Ricorda la brutale malizia del ragazzo.

Il sarcasmo crudelmente imposto.

Persino l’adulto logoro e sfilacciato che gli aveva restituito Azkaban non si era risparmiato frecciate tra le righe, a volte.

Ora null’altro che amabilità struggente mentre si piega verso di lui per poi sfiorargli le labbra gelide e pallide con le proprie, calde e ardenti. L’uomo si tira immediatamente indietro con un sobbalzo atterrito, mentre una mano sale istintiva a pulirsi dalla bocca le tracce di quel bacio.

E’ inaspettato.

E freddo.

“Che succede?”, domanda Sirius piegando appena la testa di lato, assumendo un’aria di stranita preoccupazione.

Le dita congelano le loro premurose carezze.

Con gli occhi castani innaturalmente spalancati e la bocca schiusa in una O di muto stupore, con le mani che tremano appena e la voce surgelata in gola l’uomo torna il ragazzo colto la prima volta sul fatto in quella fredda sera di inizio primavera del quarto anno: quando Sirius, alzatosi per chiudere la finestra del dormitorio borbottando maledizioni in direzione dell’ “idiota che l’ha lasciata aperta”, senza nemmeno avere la decenza di mettersi qualcosa addosso, se l’era ritrovato davanti con una delle sue sigarette accesa tra le labbra, lo sguardo sfuggente e le guance paonazze di vergogna.

Non era sembrato stupito quanto avrebbe dovuto di quella tacita presenza.

Si sarebbe quasi detto lusingato.

“Hai ascoltato qualcosa di tuo gusto?”, aveva ghignato davanti al suo disagio, la voce roca stemperata di volgare compiacimento di sé, mentre l’altro non aveva potuto far altro che tacere deglutendo una boccata di fumo disgustoso, e pregare di trovare la forza di non strappargli dalla faccia quella stupida espressione orgogliosa.

Di non lasciarsi annientare da un amore disperato.

Da parole ironiche e sprezzanti.

“Va tutto bene?”

L’uomo scuote la testa.

“Certo. Perché non dovrebbe?”

Il sorriso che gli gela la bocca è studiato, frutto di anni di finzioni.

Era sempre stato facile per lui. Persino quel patetico ragazzo ci riusciva.

Bastava stirare e stendere i muscoli del viso fino al punto di rottura, fino a sentire lo strappo sotto la pelle, piegare in alto gli angoli delle labbra lasciando appena scoperti i denti (solo un po’) e arricciare il naso. Riusciva addirittura a far brillare gli occhi di una luce gaia, quando le lacrime vi premevano forte agli spigoli.

Allora Sirius gli posava una mano sulla spalla.

Lo stringeva a sé con tenerezza paterna.

Poi lo guardava di sottecchi.

“Sei davvero carino.”

E rideva.

Rideva piano.

Beffardo come la luna.

Scotendo appena le spalle e il petto robusto.

Stringendo la bocca in una linea esangue a trattenere il fiato.

Perché solo Sirius poteva scambiare l’amore per santocchieria.

Un’improvvisa folata di vento gelida cristallizza quell’istante e lo lascia scivolare via lungo la spina dorsale come il brivido che lo scuote in interezza e gli fa sfuggire di bocca un’imprecazione mentre si cinge le braccia con le mani.

L’uomo chiude gli occhi sentendoseli pizzicare.

Stringe i denti per non ascoltarli battere.

Merlino, sta gelando dentro e fuori.

Di ardente c’è solo il sussurro ardente che preme contro l’orecchio e quelle mani che lo stringono ancora, dolci.

“Non preoccuparti. Passerà presto.”

L’uomo annuisce a fatica scosso dai brividi, ma sa che non è vero.

E sorride ancora, ed è un sorriso diaccio, al ricordo delle stesse identiche parole pronunciate da una ragazza dai capelli fini e dallo sguardo brillante: ricorda le mani e i gomiti poggiati fermamente sul tavolo, le dita sottili intrecciate strette come nodi di una corda bagnata, allentate solo per rigirarsi il bell’anello all’anulare sinistro; c’è quel sorriso teso sulle labbra sottili che elargiscono tè e parole di conforto a poco prezzo, e lo sguardo chiazzato di efelidi rade a verdeggiare fuggevole e lontano.

La voce è l’unica cosa che non ricorda.

Eppure parlavano per ore.

Quando si trovavano da soli gli dispensava consigli e tempo prezioso, e la testa scarlatta si protendeva languidamente in avanti con fare intimo di confidenza schietta, ma non l’ha mai ascoltata.

Annuiva meccanicamente.

Perché gli chiedeva di dimenticare.

Di aspettare che il tempo liquefacesse il dolore.

“Innamorarsi di una persona come Sirius significa irrimediabilmente soffrire.”, sentenziava affranta, e le sopracciglia naturalmente tendenti al broncio si accartocciavano in una mossa pia di dispiacere che non faceva altro che tingergli la lingua del sapore amaro della vergogna.

Si sentiva falso, e insulto.

Lily aveva ragione, almeno un po’.

Ma innamorarsi di Sirius non era solo quello.

Significava anche passare notti insonni davanti a una finestra aperta a contaminarsi i polmoni col fumo delle sigarette babbane e ad ascoltare notte dopo notte, anno dopo anno, i gemiti soffocati di piacere delle sue amanti, mordersi le labbra fino a sentire la pelle tenera del labbro spezzarsi tra i denti acuminati in preda a una furia cieca.

Lanciare occhiate fugaci in direzione del letto e delle cortine malamente tirate a scorgere brandelli di lunghe chiome brillare alla luce della luna, di seni tondi e forme morbide intrecciate a muscoli guizzanti.

Torcersi le mani fino a spezzarsi le unghie, graffiarsi le falangi nel disperato tentativo di non cedere al desiderio che suo malgrado lo avvinceva assieme all’invidia e al disgusto per se stesso per poi arrendersi agli impulsi quando alla fine, inevitabilmente, avevano la meglio.

Era rapido.

Triste e penoso.

Come un mare senza onde.

Come un bosco ammantato di neve.

Un’ombra si intromette tra quel quadro immaginario mortalmente vivido e la squallida stradina inondata di luce notturna che gli si para innanzi con l’innaturale silenzio di quegli istanti di notte profonda e quieta. L’uomo dischiude lento le ciglia e quel Sirius tenero e attento è ancora lì, a piegare la testa di lato stringendo gli occhi in un sorriso compiaciuto. Si abbandonerebbe contro quel corpo vivo col singulto strozzato che il ragazzo e l’adulto si sono sempre negati; affonderebbe le dita informicolite nel tessuto delle sue vesti calde, conficcandoli come spille fino a spingere e pungere la carne sotto di esse, con una disperazione istintiva che aveva sempre creduto appartenere al lupo e soltanto ad esso; si concederebbe la pace stucchevole e melensa che brama.

Ma c’è questa tetra melanconia che lo raggela.

Gli ha ingolfato le membra.

Agghiacciato la voce e condensato quella logica petulante ed ostinata in soffici sbuffi di fiato cagliato.

E poi c’è la luna.

Non è mai stata così bella.

Nascosta dietro stracci di nuvole nere e viola, sottili come rami d’albero.

Con la sua luce azzurra e muta.

Ignobilmente gravida.

Gonfia. Piena.

“Remus…”

Lo chiama.

L’uomo non si volta.

Incerto di ciò che vedrà.

Ma dita rudi e ruvide sono fatte solo per stringere e graffiare, non per concedere carezze e la dolce consolazione dell’incertezza: si sente afferrare per il mento e incivilmente torto di lato, a incontrare un altro paio d’occhi.

Hanno qualcosa di spudorato che lo indispone, quelle iridi grigie e ardite di chi non ha niente da temere o da perdere, a cui nulla importa se non di loro stesse, ma allo stesso tempo lo tranquillizzano con la loro familiarità.

“Non voglio restare qui un secondo di più”, sogghigna minaccioso, con le labbra piegate in un ghigno compunto e teatrale mentre la presa si fa forte, quasi a far male. All’uomo fa stringere il cuore ricordare il folle scoramento di quelle parole pronunciate dalla stessa bocca, e quasi ride al pensiero di quella giovane e limpida donna che sbattendosi la porta alle spalle per l’ultima volta gli aveva gridato tutt’altro, solo poche sere fa.

Ce l’ha un cuore, allora.

E’ un cuore un po’ triste e strano che non gioisce al ritmo degli altri, che resta immoto e mutolo nel trionfo e scoppia di esultanza nel riflesso pallido di ricordi sbrecciati e malinconici.

Però c’è.

Così come c’era di fronte al lampo sconfortato sul viso pallido, illuminato dalla tenue luce di un turchese artificiale della bacchetta, e davanti alle ciocche nere e pesanti dei capelli scivolare sulle guance ad ogni scatto furibondo del capo, rigandole d’inchiostro. Davanti alle labbra trasfigurate in una smorfia spiacevole e acre.

Davanti alla voglia infantile di sentirsi utile.

E alla sua folle corsa verso la fine.

Adesso come allora, avvinto, l’uomo annuisce stanco.

"Va bene, andiamo."

Poi accoglie quell’abbraccio contento che improvviso l’avvolge come l’arrivo dell’alba da ragazzo.

Quando solo assisteva alla morte ingloriosa della notte, lasciata sola dietro finestre opportunamente chiuse, soffocata da un tenue, implacabile ammantarsi di rosa e lilla; quando coi polpastrelli scabri seguiva quei primi tiepidi fili scarlatti di sole lungo la superficie del vetro, stupendosi ogni volta del bizzarro contrasto tra il fuoco di quel globo di luce ardente e il gelo freddo sotto le dita.

Adesso invece non è più così strano.

L’uomo sorride in quell’abbraccio.

Ricorda quel giovane triste e patetico che volgeva lo sguardo a quel letto estraneo, non la prigione da cui fuggire, ma il rifugio in cui ripararsi. Tra le cortine scostate appena, nei guizzi fumosi di una luce timida del primo giorno, avrebbe visto un giovane dai tratti armoniosi riverso di gusto sulle lenzuola: sdraiato supino coi capelli neri e mossi selvaggiamente intrecciati al bianco della federa, a spandere le membra nude sul materasso.

Il ragazzo arrossiva sentendosi sciocco.

Sapeva che avrebbe dovuto distogliere lo sguardo, magari tornare a letto prima che qualcun altro si svegliasse e lo vedesse lì, ma una curiosità sconosciuta e incontrollabile, che nei pensieri arrivava a volte a giudicare oscena, l’attraeva verso la visione proibita: allora tornava a spiare quel viso che scorgeva appena tra le increspature di stoffa vermiglia screziata di calda luce color arancio.

Oltre le ciglia nere a nascondere gli occhi alteri e gli zigomi alti, il naso sottile un po’ ingobbito al centro arrogantemente teso all’insù e le labbra piene e rosse appena socchiuse in una piega dolce.

Con tenerezza si soffermava sulla mano stretta a pugno intorno all’aria, come i bambini, e segue la linea morbida dell’arto fino a quel punto tra spalla e clavicola che tanto l’attrae, e lo sguardo si imbronciava alla vista dei segni scuri di un possesso ingannevole e illusorio di una donna che era niente.

Fuggita prima del levarsi di Venere.

Come le altre prima di lei e quelle che sarebbero seguite.

Come la luna ghignante che oltre l’orizzonte ogni notte annega.

Allora il ragazzo distoglieva lo sguardo.

Poggiava la fronte al vetro e fissava il cielo.

“Non sentirà la tua mancanza.”, soffiava ridendo.

“Il mondo non si ferma solo perché tu non ci sei più.”

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: TwinStar