Ero sdraiato sul mio letto. Nella "mia" camera dalle ridotte dimensioni.
Casa di mio padre.
Era un noiosissimo e inutile pomeriggio di un sabato invernale, doveva
essere Febbraio,Dicembre, Novembre o Gennaio.
Non lo ricordo.
Ricordo soltanto il sapore pastoso della tristezza che stava
schiaffeggiando, con una certa dolcezza il mio palato.
Fuori pioveva.
Dentro di me pioveva.
Osservavo il bianco niveo e latteo del tetto in cemento che si ergeva
sopra la mia testa.
Non avevo mai visto un bianco così immacolato e
incontaminato, sembrava quasi di stare in una sala di ospedale.
La stanza era piccola e sfoglia di qualsiasi decorazione, neutra.
Il pavimento di cotto era ricoperto da un velo di polvere
così fitta da poterci scrivere con le dita.
Le pareti erano prive di ornamenti, vi erano solo il letto dal
materasso
vecchio e fradicio su cui ero sdraiato e una scrivania in legno noce
nella parete destra.
Dal materasso emanava un fastidioso odore di rancido e di
zolfo, che stava irritando le mie narici a tal punto da crearmi
un'allergia.
L'albastrino colore delle pareti mi stava dando alla testa, mi sentivo
come sedato e a breve avrei vomitato le mie mebra per lo sdegno.
Avrei tanto voluto mascherare e imbrattare quelle pareti di vernice,
inciderle con i mie colori preferiti.
Non avevo con me il mio amatissimo foglio di carta e la mia fedelissima
matita di china, non sapevo come distrarmi, volevo disegnare e volevo
suonare, strimpellare quella chitarra che tenevo nell'armadio a casa di
mia madre, volevo sfogarmi.
Volevo urlare la rabbia, l'angoscia e il dolore che avevo dentro.
Volevo materializzare tutte le lacrime represse che non riuscivo a
cacciare fuori, volevo renderle materiali, inciderle su carta
attraverso delle note e poi riprodurle.
Il mio petto sarebbe esploso da lì a poco, dalla tristezza
che mi premeva dentro come la lama del boia.
Le immacolate mura intangibili che mi circondavano, presto si sarebbero
macchiate di rosso.
Abbassai lo sguardo. L'enorme finestra d'innanzi ai miei occhi stava
piangendo tutta la pioggia che le era sbattuta contro. I vetri venivano
solcati da innumerevoli stille d'acqua che venivano giù
copiosamente come goccioline di sangue dalle labbra di una ferita, o,
semplicemente, come lacrimoni che rigavano un volto piangente.
Mi ritrovavo a invidiare una finestra, in maniera esageratamente
stupida.
Funziona così.
Le lacrime non cadono.
Mentre dentro ti senti un macigno farti peso sul petto.
Un vetro rotto si è scagliato dentro di te e adesso le sue
schegge ti stanno tagliando e spezzettando l'anima in maniera minimale.
È come un veleno che ti torce le membra fino ai limiti della
resistenza.
È peggio di una lama che penetra nella carne.
È un fuoco che arde e se non farai qualcosa per fermarlo,
finirà per bruciarti fuori e dentro.
Non capivo la natura di tutto quel dolore o, forse, non riuscivo ad
accettarla.
L'incessante silenzio che era calato nella stanza, era per i
miei timpani così fastidioso, da essere paragonato allo
stridulo rumore delle unghia su un piano fatto di Ardesia.
Dovevo mettere fine a quella tortura.
Mi alzai dal letto e scorsi sopra la scrivania in legno, un vecchio
quaderno usato.
Raggiunsi la scrivania e mi sedetti sullo sgabello che le stava sotto,
dopo aver cercato una matita nel cassetto sottostante.
Mi misi in posizione comoda e afferrai la matita fra le dita,
sfogliando il quaderno.
Operazioni algebriche.
Preferii andare avanti con le pagine.
Il quaderno era tutto scritto e non c'era nenache un angolino vuoto su
cui abbozzare un disegno o almeno esprimere un pensiero.
Notai che l'ultima pagina era vuota, bianca, immutata, come la stanza
in cui alloggiavo.
Le mani stranamente mi tremavano, come se scosse da misteriose forze
soprannaturali. Strinsi ancora di più la matita che tenevo
fra le lunghe dita, così da farmi quasi male ai
polpastrelli. Premetti la punta affilatissima contro il foglio. La
punta si ridusse in tanti piccoli frammenti di carbone, per la forza
che esircitai sul foglio di carta. La mia mano cominciò a
scivolare leggiadra sul foglio,proprio come accadeva quando disegnavo,
solo che io stavo scrivendo.
Il rumore che produceva la matita,scorrendo fra le righe del foglio,
era l'unico rumore percepibile in quel posto, dopo il mio
respiro,ovviamente.
Scrissi una frase e non mi accorsi nemmeno di quello che
avevo appena scritto, come se la mia mano lavorasse indipendentemente
dal resto del corpo.
Scorreva perfettamente su quella pagina, come una ballerina danza sulle
punte.
La mia mano stava praticando una danza mistica, sotto i miei
occhi stupiti e increduli.
Bloccai il polso e in seguito la mano.
La sollevai lentamente e lessi quel che avevo appena scritto.
" I
FEEL ALONE.
"
Non ebbi nemmeno il tempo di ragionare sul perchè di quel
gesto, che alle mie orecchie giunse un rumore che squarciò
l'immacolato silenzio.
Un rumore metallico, simile allo schiocco della serratura di una porta.
Doveva essere mio padre appena tornato da lavoro, lui lavorava anche
il sabato.
Strappai l'ultima pagina del quaderno su cui avevo scritto
pochi attimi prima.
L'accartocciai con tutta la mia forza, e con la stessa foga la gettai a
terra.
Non volevo ammettere che in realtà, sentivo davvero un vuoto
dentro di me.
Mi alzai dalla scrivania e raggiunsi mio padre,
chiudendomi la porta
della stanza dietro le mie spalle.
Era meglio se fossi rimasto solo almeno per altre cinque ore.
____
Okay, questo era il
primo capitolo. Insomma...abbastanza breve e privo di azione. Avevo
pensato fin dall'inizio a una struttura del genere per il primo
capitolo, tanto per rendere un po' l'idea e l'atmosfera, spero di non
essere stata abbastanza pesante, intanto aspetto le vostre recensioni!
A presto.
_Berle.
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