Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
La
bambola imitatrice
Remus
Lupin/Marlene McKinnon
«Bonny-Lee
era
entusiasta della bambola che le hai regalato»
sussurrò con un
sorriso gentile Marlene, senza distogliere lo sguardo dal lato della
scuola di Kingsford che si affacciava su Triumph Road.
«Soprattutto
quando ha scoperto che poteva ripetere qualunque sua
boccaccia».
Remus
sollevò il viso
dalle pagine del Daily Mirror. Non lo stava nemmeno leggendo, si
stava limitando a scorrere vagamente da una notizia all'altra,
domandandosi per quale motivo non gli fosse venuto in mente prima di
incantare la Gazzetta del Profeta in modo che solo lui avesse potuto
riconoscerla. Avrebbe potuto sapere qualcosa sul provvedimento che il
Ministro Bagnold e Crouch volevano approvare sull'uso delle
Maledizioni Senza Perdono, e agli occhi di qualunque Babbano di ceto
medio sarebbe stato semplicemente un ventenne con lisi abiti di
seconda mano e la faccia stravolta di un tossico intento a leggere un
giornale da comunisti. Invece no, il pensiero non lo aveva sfiorato
fin quando non si era seduto sulla panchina di ferro della fermata
dell'autobus di Triumph Road.
«Ne
sono felice» le
rispose appena.
«Non
avresti dovuto
disturbarti».
«L'ho
fatto con
piacere».
Il
sorriso di Marlene
si fece un poco più largo e un po' più triste.
«Lo
so, ma non devi
sentirti in obbligo di fare regali a mia sorella».
«Era
il suo
compleanno».
«Non
importa».
“ Non era per te”
avrebbe voluto dirle Remus. “Era soltanto un regalo per
Bonny-Lee,
perché so cosa significa avere sette anni e dover restare
nascosti
in casa. Tu non c'entri, era solo per Bonny-Lee”. Invece,
rimase
zitto e distolse lo sguardo, ripetendosi che quello non era
assolutamente il momento migliore per causare un litigio con Marlene.
Non dubitava che ne avrebbero riparlato presto – con lei se
ne
riparlava sempre presto – ma quella non
era né l'ora né la
circostanza adatta.
«Eccoli»
sviò di
colpo Remus, attirando l'attenzione di Marlene su un'ordinata fila di
ragazzini che era appena uscita da una porta secondaria della
Kingsford.
Assottigliò
gli occhi
alla ricerca di una testolina bionda piena di riccioli. Nonostante la
distanza, individuare la piccola Amy Collins fu piuttosto facile:
svettava di almeno una spanna dal compagno di classe più
alto.
«Mi
chiedo come si
possa far male ad una bambina».
«È
una Nata Babbana
che non sa ancora di essere una strega» rispose apatico lui.
«Niente
potrebbe attrarre di più i Mangiamorte».
«Se
solo potessimo
beccare la spia all'Ufficio delle Relazioni con i Babbani...».
Remus
fece uno sbuffo
divertito.
«Se
solo...».
*
Alla
fine nessuno di
loro aveva potuto far qualcosa per salvare Amy Collins. Credevano di
essere preparati, credevano di aver studiato ogni
possibilità,
credevano di aver già anticipato qualunque imprevisto fosse
potuto
succedere, e forse la causa della sua morte era da imputare a tutto
quel credere. Forse, continuava a ripetersi Remus seduto nel sua
piccola cucina, avevano di nuovo sopravvalutato ciò che
potevano e
non potevano fare, e gli sarebbe importato molto meno se solo a
pagarne lo scotto non fosse stata una bambina di dieci anni.
La
campanella d'ottone
appesa nell'ingresso iniziò a trillare improvvisamente.
Remus scattò
in piedi, afferrò la bacchetta e corse verso la porta
principale,
appiattendosi contro il muro e pronto a Materializzarsi al minimo
segnale di pericolo. Avvertiva appena l'eco dei passi di qualcuno che
risaliva le scale esterne e ringraziò la buon'anima di sua
madre di
avergli lasciato quella campanella incantata per riconoscere gli
intrusi sui gradini di casa.
Chiunque
fosse
dall'altra parte della porta bussò per tre volte, rimase
immobile,
ribussò altre due volte, restò di nuovo immobile
e poi bussò
ancora un'ultima volta. Remus sentì i muscoli rilassarli un
poco:
era uno dei segnali adottati dai membri dell'Ordine, uno dei tanti
che significava semplicemente “non è detto che sia
un
Mangiamorte”.
«Chi
sei?».
«Sono
Marlene
McKinnon. Mia sorella Bonny-Lee ha compiuto sette anni tre giorni fa
e tu le hai regalato una bambola con i capelli verdi che imita le sue
smorfie. Avrei preferito non l'avessi fatto e tu sai
perché».
«Vuoi
entrare?» le
chiese lentamente Remus, serrando ancora di più la bacchetta
e
pregando che rispondesse “no”.
Era
la loro seconda
parola d'ordine, il loro ultimo tentativo di salvarsi a gli uni con
gli altri: “Vuoi entrare” intendeva “Ti
hanno preso e sono lì
con te? Devo scappare?”.
«No»
rispose in
fretta Marlene. «No, tranquillo, non voglio
entrare».
Con
un sospiro di
sollievo, Remus agitò la bacchetta e liberò la
porta dagli
incantesimi di protezione.
«Ti
farei accomodare
in soggiorno, se solo ne possedessi uno».
*
«È
tardi, dovresti
stare con la tua famiglia» osservò Remus, cercando
di non infilare
un accento critico nel proprio tono di voce. «Che ci fai
qui?».
«Casa
mia è protetta,
Remus».
Remus
prese due
bicchieri dalla credenza e una bottiglia piena di liquido ambrato che
sua madre doveva aver travasato chissà quanti anni prima.
«Whisky
Incendiario?»
chiese curiosa lei.
«E
chi può
permetterselo? Credo sia del Kilbeggan».
«Cosa?».
Remus
fece un sorriso
ironico. Nonostante tutti gli anni trascorsi in compagnia di maghi e
streghe che ben poco avevano avuto a che fare con il mondo dei
Babbani, capitava ancora che qualche domanda gli suonasse ancora
assurda. Cos'era il Kilbeggan, gli aveva chiesto... a lui, figlio di
una Babbana irlandese e momentaneamente residente nella sua vecchia
casa di Limerick.
«Whisky.
Semplice,
economico e per nulla speciale whisky».
Marlene
sorrise.
«Andrà
benissimo».
*
«Che
ci fai qui?»
ripeté con maggior insistenza Remus. «È
davvero molto tardi e di
norma la gente non si prende il disturbo di visitare un posto come
Limerick per un goccio di Kilbeggan».
Marlene
abbassò il
capo. Un ciuffo sfuggito dalla lunga treccia scura le ricadde davanti
al viso affilato.
«Non
facevo altro che
ripensare a quella bambina e tutto d'un tratto ho sentito il bisogno
di andarmene via. Sei il primo che mi è venuto in mente...
è come
se fossi sempre al centro dei miei pensieri».
Remus
la guardò in
tralice e la vide sogghignare appena. Marlene era la perfetta
personificazione del detto “lanciare il sasso e nascondere la
mano”: provocava con rapidità sconcertante,
incurante di quali
ferite sarebbe andata a punzecchiare, e poi rimaneva muta, a volte
arrossendo e a volte sorridendo sotto i baffi, come se non avesse mai
nemmeno parlato. Eppure parlava eccome, Marlene, e sapeva esattamente
quando e come parlare. Aveva una faccia pulita e genuina, con gli
occhi grandi e il sorriso aperto; una di quelle facce che
difficilmente portano la gente a pensar male, perché a
nessuno
sarebbe mai venuto in mente che una donna dall'aria tanto mite
potesse essere tanto fastidiosa.
«Marlene...»
la
rimproverò un poco esasperato Remus. «Ti
prego...».
«Era
solo una battuta»
ribatté lei a mo' di scusa, arricciando ancora le labbra in
un
sorriso tutt'altro che sereno. «Ho bisogno di distrarmi,
Remus. Ne
abbiamo bisogno entrambi».
Remus
appoggiò il
braccio allo schienale tarmato del piccolo sofà e fece un
sospiro
carico di pesante stanchezza. Si passò una mano sul volto
segnato e
si bloccò con i polpastrelli sulle palpebre, massaggiandole
con
piccolissimi movimenti rotatori.
«Era
solo una
bambina...» sentì sussurrare Marlene.
«Marlene»
la riprese
nuovamente lui, abbassando la mano per guardarla in viso.
Sul
momento, vederla
stringere con forza il bicchiere di whisky con gli occhi gonfi di
lacrime lo lasciò spiazzato. Credeva di aver imparato ad
affrontare
i piccoli cedimenti nei quali tutti loro scivolavano di tanto in
tanto, ma ogni volta capiva sempre un po' di più che la
natura umana
non poteva accettare la guerra come un'abitudine. Perlomeno, la sua
natura non ne era in grado. Silenziosa come se avesse il timore di
disturbare, Marlene piangeva seduta accanto a lui e per l'ennesima
volta Remus si rese conto che non possedevano altro che frasi di
conforto prive di senso.
Si
avvicinò a lei e
intrecciò le proprie dita con le sue. Marlene
serrò con decisione
gli occhi con un moto di dolore e poi si lasciò scivolare
sulla sua
spalle, sprofondando il viso nel tessuto sdrucito del suo maglione.
Nessuno
parlò fino
all'alba.
*
Marlene
aveva
quell'aria da ragazzina giocosa e ingenua di cui ci si sarebbe potuti
innamorare molto facilmente e Remus non credeva assolutamente di
poterne essere immune. Rideva con slancio e senza freni, e sembrava
proprio voler vivere la propria vita con il brio di una giornata di
primavera. Da quando tutto quel disastro infernale era iniziato,
tuttavia, la sua sensibilità la faceva rabbuiare
più spesso, ed era
allora che tutta la sua insicura fragilità riemergeva sul
suo viso.
Remus l'aveva vista piegarsi come un filo di grano innumerevoli volte
e si era sempre premurato di esserle a fianco, di essere lì,
di
essere pronto a ripetere che sarebbe andato tutto bene, che ogni
sarebbe finita e che dovevano solo attendere
l'opportunità
decisiva.
Non
sempre era stato
convincente; non era facile esserlo quando lui per primo avrebbe
avuto bisogno di un briciolo in più di speranza. Marlene lo
sapeva
bene e nonostante tutto lo ascoltava con tutta con se stessa, e poi
tornava a sorridere guardando le nuvole primaverili.
Remus
si era chiesto
parecchie volte se non lo stesse facendo per lui.
«Lupin»
lo chiamò il
ringhio soffocato di Moody. «Lupin, è meglio che
ce ne andiamo».
Remus
annuì con
espressione assente, senza distogliere lo sguardo da ciò che
restava
della casa dei McKinnon: calcinacci e legni rotti, pezzi di mobilia,
qualche arredo irriconoscibile e stracci colorati incastrati fra le
pietre. Quasi del tutto nascosta sotto una trave, Remus riconobbe una
piccola testolina verde. Si avvicinò con estenuante lentezza
senza
nemmeno rendersene conto, si inginocchiò e raccolse la
bambola
incantata che aveva regalato due settimane prima alla piccola
Bonny-Lee per il suo settimo compleanno. Marlene aveva detto che ne
era stata entusiasta, perché non aveva mai posseduto una
bambola in
grado di ripetere tutte le sue boccacce e i suoi sberleffi.
Remus
si sentì
invadere dal feroce bisogno di gridare, ma qualcosa dentro di
sé
continuava a frenarlo, a impedirgli di fuggire. Stretta fra le sue
mani tremanti, la bambola di Bonny-Lee continuava a piangere.
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