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Disclaimer: i personaggi presenti in
questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a
scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per
citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio
esplicito permesso.
Capitolo III
Della venuta degli Elfi e della cattività di Melkor, ovvero:
si stava meglio quando si stava peggio e Melkor è molto Cattivo.
Per lunghe ere i Valar dimorarono della
beatitudine alla luce degli Alberi al di là delle Montagne di Aman, ma tutta la
Terra di Mezzo giaceva nel crepuscolo sotto le stelle.
Questo, ovviamente, è un modo
particolarmente poetico per ribadire un concetto già abbastanza chiaro un po’ a
tutti: l’incapacità dei Valar.
E’ vero: millenni prima il buon Ilúvatar
aveva peccato d’ottimismo nel momento in cui aveva lasciato Arda alle cure dei
suoi pargoli. I pargoli, tuttavia, non sembravano avere la benché minima
intenzione di riparare alla loro millenaria condotta di gnorri.
D’altro canto, è bene ribadire che il Re era
Manwë, e con Manwë al comando non è che uno si potesse aspettare poi
granchè…
Così accadeva che, mentre ad Aman si
mangiava, si beveva e si truffava e ad Utumno Melkor perfezionava i suoi
block-notes di conquista del mondo; nella Terra di Mezzo sconsolate palle di
fieno rotolavano su parecchi strati di polvere, con i corvi in sottofondo (i
corvi, si sa, accorrono quando c’è bisogno di far scena).
I Valar, fedeli alla loro condotta, se ne
sbattevano. Gli unici che si dolevano di questa situazione erano Yavanna ed
Oromë.
Non per nobiltà d’animo, sia ben chiaro!
Yavanna aveva guardato con occhio bramoso ai grandi campi potenzialmente
coltivabili della Terra di Mezzo, con scopi più che intuibili; l’idea di tanto
spazio vuoto sfagiolava anche Oromë, che ad Aman cominciava a sentirsi stretto
per via di alcune voci di corridoio sui suoi… uh, passatempi col cavallo
Nahar.
Di rado i Valar si recavano in quelle terre
e in quelle foreste, salvo dunque i soli Yavanna ed Oromë; e lì Yavanna
camminava tra le ombre (occhio alle ombre, Yavanna! Se nitriscono, scappa! N.d.A.), dolendosi perché la crescita delle sue nuove
piantine andava a rilento.
Da un po’ di tempo aveva cominciato a fare
esperimenti d’innesti fra le sue piantine nei campi della Terra di Mezzo, ma
(vuoi perché la temperatura non collaborava, vuoi anche perché gli esperimenti
di Yavanna non è che fossero proprio normali…) finora non era riuscita a
ottenere nemmeno un raccolto. In attesa di tempi migliori, ella pose allora
il sonno su molte cose che erano sorte durante la Primavera, in modo che esse
non invecchiassero, ma che attendessero un tempo del risveglio che ancora
sarebbe venuto.
Sì, in parole povere Yavanna aveva appena
inventato i surgelati.
***
Nel nord, però, Melkor costituì la propria
forza, o almeno di questo era convinto.
Perché c’è da dire che negli ultimi tempi
anche Melkor cominciava a subire qualche acciacco.
Innanzitutto, i suoi deliranti schemi di
conquista del mondo cominciavano a diventare preoccupanti. Melkor ne disegnava
ovunque; su quaderni, libri, post-it, block-notes, lavagnette magnetiche, sulle
mura, sul frigorifero, sulle mani, sulle magliette e dovunque gli riuscisse di
imbrattare. Ne era ossessionato, non dormiva quasi più, e quando accadeva lo si
sentiva urlare «POTERE!» nel sonno; di mattina, la prima cosa che faceva era
controllare che i foglietti sulle pareti fossero ancora tutti al loro posto e
che nessuno glieli avesse scombinati o sbirciati.
«Padrone, Voi vi dovete rasserenare, state
tranquillo…» gli dicevano i suoi sottoposti.
«NO! Come posso stare tranquillo? Eh?
Oh, non ci riuscirò mai, non ci riuscirò mai, mi ritiro!» urlava lui, agitando
la testa sopra pile di appiccicose tazze di caffè.
Cioè, cose che nemmeno mia sorella agli
esami di maturità… Ma passiamo oltre.
Quando Melkor non ne poteva più, quando i
nervi gli crollavano, quando si sentiva morire, quando finiva con lo strappare
gli schemini a cui lavorava da settimane - ben conscio che il giorno dopo li
riavrebbe rassegnatamente incollati ad uno ad uno con la colla vinilica - quando
gli accadeva questo, Melkor si gettava esausto su una poltrona, con gli occhi a
palla e i capelli quasi vivi, lasciando friggere in libertà la stanchissima
materia grigia.
Momenti del genere erano sempre più
frequenti, e ogni volta che Melkor crollava in questo stato l’intera Utumno si
rigirava nell’indecisione e nell’imbarazzo. Sì, perché l’immediato sottoposto
dell’Oscuro Signore era ancora il sicilianissimo, imprevedibile
Sauron.
Egli non era migliorato nel tempo. Girava
ancora con la fedele lupara sotto l’ascella, teneva la sua collezione di coppole
con una cura religiosa e sottolineava la mole dei suoi baffetti con sempre
maggiore orgoglio. Continuava a rivolgersi a Melkor con sparate del tipo
«Patrone, come comanda Vossignoria», rischiando la vita ogni volta che lo
faceva, certo, ma senza che un brivido facesse tentennare la sua identità
mafiosa.
Semmai era peggiorato, dato che col tempo
era anche venuto fuori che Sauron aveva anche dei gusti discutibili in fatto di
strumenti di tortura…
In quel tempo Melkor stava radunando attorno
a sé i propri demoni, quegli spiriti che per primi gli si erano uniti nei giorni
del suo splendore e che gli erano divenuti massimamente simili nella sua
corruzione: i Balrog.
Ora, sapete tutti come sono fatti i Balrog,
no? Corna, fruste di fiamme e tutto il resto.
Melkor, fiero di avere degli alleati tanto
spaventosi, li condusse ad Utumno.
Sauron, però, come vide le fruste dei
Balrog, venne colto da uno di quei colpi di genio che tanto spesso gli fecero
rischiare la carriera. Approfittò di uno dei momenti di stanchezza del suo
«patrone» e impose ai Balrog fruste di pelo rosa, corredandoli anche di manette
con i glitter e perizoma leopardati, per fare più fashion.
I sottoposti di Melkor erano annichiliti,
tanto più dal fatto che i Balrog parevano apprezzare la trovata. Sauron, mafioso
dalla lacrima facile, stava giustappunto iniziando a commuoversi, sennonché il
sesto senso di Melkor, fiutando la catastrofe, fece scattare il campanello
d’allarme nella mente di questi.
E lì vi furono urla, fulmini e saette,
preghiere accorate in siciliano e minacce di mutilazioni varie e ripetute fino a
che Melkor, anche per salvaguardare quel poco di sanità mentale che gli era
rimasta, decise di inviare il luogotenente… diremmo oggi «a dirigere il
traffico».
Sauron fu infatti delegato alla gestione di
Angband, arroccatissimo, sperduto, inutile e solitario arsenale di Utumno.
Felicissimo e onorato per motivi noti unicamente a lui, Sauron accettò
l’incarico con gioia, cominciando fin da subito a rinominare Angband « ‘u
Cciarduni».*
***
Ignari (o forse no? Tanto la differenza non
si nota…) di questi avvenimenti, i Valar se ne stavano tranquilli nel loro Reame
Beato.
Certe volte, ma solo raramente, si
ricordavano di cosa li aveva portati su Arda, riflettevano sulla loro colpa
verso Ilúvatar e si dicevano che, beh, sì, il Padreterno li aveva mandati sulla
terra come castigo, ma alla luce dei fatti la loro esistenza in Aman non si
poteva definire un castigo, anzi, era tutto il contrario!
…Essi, poveri stolti, avevano dimenticato la
seconda parte del castigo d’Ilúvatar.
Ilúvatar, però, non aveva dimenticato. Egli
aveva osservato col cannocchiale le faccende dei suoi pargoli, aveva visto i
loro vizi, la loro immoralità, aveva visto il malgoverno di Manwë e i traffici
di Yavanna, soprattutto aveva ascoltato – con l’aggeggino della Amplifon, perché
gli anni passano per tutti – tutte le idiozie che ogni giorno volavano libere in
zona Valar. E tutto questo non faceva che rafforzare sempre di più in Eru la
convinzione dell’impellente necessità di trovare ai Valar qualcosa da fare…
qualcosa di impegnativo e snervante da fare.
Un bel dì, Yavanna si svegliò con un
improvviso scrupolo di coscienza. Si alzò e, dimentica perfino di dare l’acqua
alla piantina che teneva sul comodino, si diresse verso la porta senza una
parola.
Ad Aulë, marito rassegnato ma attento, non
sfuggì quest’anomalia. «Dove vai?», le chiese.
«Dal Re… vieni?» cantilenò lei.
«Eh? L’ultima volta che sei stata da Manwë
dopo ti sei messa a blaterare di alberi parlanti e io e Varda ti abbiamo dovuta
stordire, ricordi?» le fece notare pazientemente il marito.
«Uhu…» accennò Yavanna con sguardo vacuo,
dando l’impressione di essere posseduta. Ed in effetti era proprio così:
Ilúvatar la stava manovrando.
Aulë, non poco preoccupato, si grattò
l’orecchio in un gesto a lui solito e s’incamminò dietro la sposa.
Giunti che furono alla corte di Manwë, essi
trovarono il Re impegnato in una mano di scopone scientifico particolarmente
difficile, assieme ad una buona metà dei Valar e a un certo numero di
Maiar.
«Buondì, Yavanna…» cominciò cautamente il
Re, memore dell’ultima visita. «Qual buon vento ti mena?», e a questo punto
tutti i presenti, nascosti dietro le carte, cominciarono a scambiarsi battutine
sul vento e a ridacchiare. Manwë s’incupì e Aulë sospirò, ma Yavanna non batté
ciglio e disse tutto d’un fiato, come se l’avesse imparato a memoria:
«Potenti di Arda, la Visione d’Ilúvatar fu breve e presto rimossa, così che
forse noi non siamo in grado di indovinare con sufficiente esattezza l’ora
stabilita. Ma di questo state certi: l’ora si avvicina ed entro quest’era la
nostra speranza verrà rivelata, e i Figli si desteranno. Lasceremo dunque
desolate e in preda al male le terre dove dimoreranno? Dovranno essi camminare
nell’oscurità mentre noi abbiamo luce? Dovranno essi chiamare Melkor signore
mentre Manwë siede sul Taniquetil?».
Si fece silenzio e tutti guardarono Manwë,
che per la precisione in quel momento più che sedere sul Taniquetil sedeva su
una poltrona girevole, roteando su se stesso con aria beata e del tutto
indifferente alla questione.
Allora tutti si voltarono di nuovo verso
Yavanna, come se attendessero da lei delucidazioni, ma la Valië emise un suono
strozzato, sbatté gli occhi, si guardò attorno stralunata e assunse di botto il
colorito violaceo tipico di quando andava in overdose. La situazione tornò alla
normalità non appena Aulë, avvezzo a questi momenti, ebbe rabbonito la consorte
con un colpo di tagliacarte sulle gengive; i Valar poterono quindi scambiarsi le
loro opinioni.
Tulkas gridò: «Sì… Le parole di Yavanna sono
veritiere! Dobbiamo entrare subito in guerra contro Melkor, l’avvento dei Figli
d’Ilúvatar s’avvicina!». Subito dopo, nel silenzio generale, aggiunse:
«Mpphhffff… Ah ah ah ah, ah ah ah ah!».
Manwë, improvvisamente interessato, smise di
roteare sulla sedia girevole e esclamò: «Sì, è giusto che ci opponiamo a Melkor,
non ci siamo forse ripresi dalle nostre fatiche?».
Tutti annuirono, poco convinti; in realtà si
chiedevano: «quali fatiche?», e soprattutto sospettavano di quest’improvvisa
buona volontà di Manwë – che in realtà, nel profondo del suo cuore aspirava solo
a menare Melkor, sogno sadico a cui non aveva mai rinunciato.
La decisione era incerta: a pochi Valar
andava seriamente di alzarsi e andare incontro a morte sicura.
Manwë, sbuffando dell’indecisione dei suoi
amici e cercando l’appoggio di qualcuno che alla parola «morte» avrebbe fatto le
capriole di gioia, si rivolse alla sua destra.
«Mandos?» disse, «tu cosa ne
pensi?».
Per sfortuna di Manwë e fortuna di tutti gli
altri, Mandos quel giorno era di cattivo umore. Aveva mal di denti, gli si era
rotto lo stereo e continuava a perdere a scopone scientifico, cose che
basterebbero per rendere di cattivo umore anche una persona dall’indole più
solare di Mandos. Egli si limitò a incrociare le braccia al petto e a guardare
male il Re, senza proferire verbo.
I Valar, che da lui si erano aspettati le
solite allegre manifestazioni di tendenza al suicidio, sbatterono gli occhi,
sbigottiti. Manwë divenne corrucciato, ma lo chiamò di nuovo: «Mandos? Ho
bisogno del tuo parere, sei il Giudice di Arda…».
Al che Mandos, che le aveva già
particolarmente girate, si girò di scatto, ringhiò, abbaiò, morse un dito a
Manwë e, incupito, disse: «Sì, che palle, in questa era arriveranno davvero i
Figli d’Ilúvatar, d’accordo? Ma non è ancora il momento! Inoltre è destino che i
Primogeniti giungano nella tenebra…»
«Che culo…» commentarono gli
altri.
«…e che per prima cosa guardino le
stelle».
«Poveracci…» mormorò Manwë, che odiava le
stelle per questione di principio.
«Grande luce ci sarà per il loro declino!»
annunciò Mandos, e già la profezia di un grande e rovinoso declino lo rallegrò
un po’. «E sempre invocheranno Varda nel momento del bisogno» concluse. Varda
era in brodo di giuggiole.
«Sentito? Gli Elfi invocheranno il mio nome
nel momento del bisogno!» cinguettò la Regina delle Stelle battendosi le
mani.
«Umph, dipende da cosa intende con ‘momento
del bisogno’…» bofonchiò acido fra sé e sé Manwë, che in realtà c’era rimasto un
po’ male ed era invidioso.
Allora Varda si allontanò dal consiglio, e
guardò giù dalla cima del Taniquetil e vide la tenebra della Terra di Mezzo
sotto le stelle innumerevoli, fioche e lontane.
E siccome Varda, pur essendo immensamente
stupida, era una Valië per bene, pensò di fare un’opera buona, e creò nuove e
più lucenti stelle per la venuta degli Elfi; così che ella, il cui nome fin
dalle profondità del tempo e delle doglie di Eä fu Tintallë, Colei che Accende,
venne in seguito chiamata dagli Elfi Elentári, Regina delle Stelle… anche se
gli Elfi non la pensavano proprio così, in realtà.
Così Varda fece nuove stelle. All’inizio si
mise d’impegno e fece le cose per bene, e creò Alcarinquë, Elemmírë, Wilwarin,
Telumendil, Soronúmë, Anarríma e Menelcamar e tutte quelle costellazioni dai
nomi impossibili che tanto avrebbero fatto felici i giovani Elfi studenti di
geografia astronomica.
Poi però ci prese gusto, impazzì e creò in
cielo la Stella Cometa, la Stella di Davide, le cinquantadue Stelle della
bandiera americana, il cacciavite a Stella, i Pan di Stelle, Un Due Tre Stella,
il Mercante di Stelle, Guerre Stellari, Van Gogh e la Notte Stellata, Ballando
con le Stelle e le Stelle di Natale.
E infine alta nel Nord, come una sfida a
Melkor, ella sospese la corona di sette possenti stelle, la Valacirca, la Falce
dei Valar: in realtà questa altro non era che una
falce e martello, ma effettivamente Melkor avrebbe potuto prenderla piuttosto
male…
***
Si racconta che, proprio mentre Varda
terminava le proprie fatiche, in quell’ora si destarono i Figli della Terra, i
Primogeniti d’Ilúvatar.
Gli Elfi dormivano placidamente presso un
lago chiamato Cuiviénen, quando le stelle di Varda splendettero luminose nel
cielo.
Un Elfo che dormiva della grossa disteso
all’ombra degli alberi, scattò a sedere di botto con il cuore in gola. Spinto da
una conoscenza ancestrale, cominciò a cercare a tentoni accanto a sé la corda di
una serranda, ma non la poté trovare. Egli si chiamava Imin.
«Ma…» bofonchiò, «…ah, porca
Elbereth!».
Fu così che gli Elfi si destarono incazzati
come bisce alla luce delle stelle, e come prima cosa maledirono il nome di
Varda.
Vicino ad Imin dormivano altri due Elfi che,
imbestialiti quanto lui, stavano imprecando contro tutti gli appellativi di
Varda.
«Ah, Elbereth Giltoníel! Ti cadano gli
occhi! Ah, Varda Elentári! Possa tuo marito riempirti di corna! Ah, Tintallë…»
stava sibilando inviperito uno dei due Elfi, e avrebbe continuato ancora per
molto tempo se Imin non l’avesse interrotto.
«Io sono Imin, tu come ti
chiami?».
«Tata» rispose l’altro, e visto che sembrava
già abbastanza preso male di suo, Imin evitò di ridere.
«E quello come si chiama?» chiese, indicando
l’altro Elfo che se ne stava tutto corrucciato a sbadigliare e stropicciarsi gli
occhi.
«Si chiama Enel», rispose Tata.
«Enel?» chiesero gli altri cinquecento Elfi,
che nel frattempo si erano avvicinati. «Enel, hai detto? Allora è colpa
sua!», esclamarono in coro.
Il povero Enel, che non capiva il nesso fra
il suo nome e tutta quell’indesiderata luce, venne pesantemente preso a
randellate dai primi Elfi che, ricordiamolo, erano un popolo gentile e
aristocratico.
A lungo i Primogeniti dimorarono nella loro
prima casa accanto all’acqua sotto le stelle; e incominciarono a creare una
lingua e a dare nome a tutte le cose di cui si rendevano conto.
Chiamarono se stessi Quendi, che recenti
studi hanno tradotto con «coloro che volevano solo dormire e non ci pensavano
proprio a tutte quelle guerre»; e passavano il loro tempo cantando,
chiacchierando (sì, prima erano dei gran chiacchieroni, è dopo che sono
peggiorati…) e cercando di recuperare il sonno perduto.
E una volta capitò che Oromë cavalcasse
verso oriente andando, disse lui, «a caccia», e che passasse sotto le ombre
degli Orocarni, le Montagne dell’Est.
Poi, all’improvviso, Nahar emise un forte
nitrito e restò immobile. Oromë sbuffò.
«No, Nahar, stupido cavallo, non qui…»
disse, credendo che l’equino fosse impaziente di appagare gli istinti del
padrone. «Cavallo goloso…» aggiunse poi con un sorriso malizioso, accarezzando
il collo del destriero.
Nahar, che se avesse potuto parlare gliene
avrebbe dette in tutte le lingue, restò zitto e muto. Quando però Oromë cominciò
a sussurrargli nell’orecchio frasi oscene, il cavallo ebbe una crisi di nervi,
disarcionò il suo cavaliere e scappò lontano verso la libertà.
Oromë ci restò malissimo. Rimase a lungo in
silenzio ad osservare il suo ‘amato’ cavallo che si allontanava ad una velocità
impressionante e gli parve, nel silenzio, di udire da lontano molte dolci voci
che cantavano.
Fu così che finalmente i Valar trovarono,
come per caso, coloro che avevano tanto a lungo atteso (mah, a me
sembra che se ne siano fregati fino ad ora. N.d.A. ) e, guardando gli Elfi, Oromë fu colto da meraviglia.
Tuttavia l’istinto dello scassapalle che
c’era in lui ebbe il sopravvento sulla meraviglia. Il Vala si slacciò dal collo
Valaróma, il suo grande corno da caccia bianco e argentato; in verità egli non
l’aveva mai usato per cacciare (la caccia era tutta una messinscena per coprire
le sue vere attività), ma in quel momento esso gli parve una bellissima
cosa.
Oromë guardò gli Elfi. Alcuni se ne stavano
sulle rive del lago a guardare il riflesso delle stelle sull’acqua, ma la
maggior parte sembrava felicemente assopita.
Il Vala si portò il corno alle labbra e
soffiò.
«EEEEEK!!!».
«Di nuovo?».
«Ma basta!».
«Avanti, chi è l’imbecille che s’è
permesso…».
«Ah, Elbereth Giltoníel!» imprecò qualcuno.
Varda questa volta non c’entrava niente, ma ormai l’abitudine di maledirla era
entrata nel folklore elfico.
Oromë rideva divertito nascosto dietro un
cespuglio: lo scherzo gli era riuscito!
Accarezzando il corno, decise di comportarsi
da persona seria e ancora con un mezzo ghigno si diresse sulle sponde di
Cuiviénen, dove mille incazzosissimi Elfi stavano cercando il colpevole di quel
gran casino.
«Buondì» disse Oromë agitando la manina. Gli
Elfi smisero subito di azzuffarsi e si voltarono verso il Vala. Un Elfo, Finwë,
che era di mente acuta, scorse il corno d’argento d’Oromë e capì
tutto.
«Crepa» borbottò a mò di saluto.
«Come?» chiese Oromë, che era duro
d’orecchie.
« ‘Crepa’… in Alto Elfico significa ‘Ave a
te, Grande Signore delle Praterie’ » buttò lì Finwë con la nonchalance di un
professionista.
«Ah!» manco a dirlo, il Vala se la bevve
facile facile. Poi si soffermò un poco a guardare da vicino gli Elfi.
Al principio, essi erano più forti e più
grandi di quanto non siano divenuti in seguito e, a dispetto di quanto
riferiscono le leggende, sì, erano indubbiamente anche molto più belli.
Gli Elfi del Signore degli Anelli fanno
tutti schifo, avanti… avete presente Celeborn? Ed Elrond? E dei poveri Elrohir
ed Elladan che mi dite? Si salva solo Legolas.
Non c’è dubbio che in principio gli Elfi
dovessero essere molto più belli di questi, ma poi la natura s’è confusa e Peter
Jackson ha dovuto adeguarsi. Beh, ma non divaghiamo.
Dunque, c’era Oromë che, disarcionato e
abbandonato, si trovava di fronte questo gran numero di belle creature
attraenti, che ora lo guardavano, alcuni interessati, altri, come Finwë, con un
cipiglio decisamente torvo. Però erano belli. Molto belli. Così, finì che il
Vala fu colto dal desiderio di… uh, condurre con sé gli Elfi a
Valinor.
«Perché non venite a Valinor con me? Sapete,
c’è l’aria buona, gli alberi luminosi e tutto il resto…» disse, con un sorriso
che gli andava da un orecchio all’altro e che trasudava lussuria.
Gli Elfi, nessuno escluso, aggrottarono le
sopracciglia e fecero un passo indietro. Ci fo un «no, grazie»
corale.
«Perché no?» chiese Oromë, sempre sorridendo
e annuendo con decisione.
Un Elfo chiamato Ingwë fece un passo avanti:
«La mamma non vuole che andiamo con gli sconosciuti», disse con aria
impassibile. Alcuni ridacchiarono.
A questo punto Oromë cominciò a sentirsi
preso per i fondelli e il suo sorriso si fece più stretto.
«Ma… sarebbe folle da parte vostra rifiutare
l’invito dei Valar! Dai, che avete da perdere?».
«La faccia… e speriamo nient’altro» borbottò
qualcuno allontanandosi discretamente da Oromë, facendo bene attenzione a non
dargli le spalle.
Vedendo che la situazione volgeva a suo
sfavore, il Vala decise di tentare tutte le sue carte.
«Ma a Valinor non si muore mai!»
esclamò.
«Ma tanto noi siamo immortali» notarono gli
Elfi.
«A Valinor c’è tanta luce!».
«Per carità, abbiamo avuto una brutta
esperienza con la luce…».
«Ma, umh, a Valinor sarete al sicuro dalle
insidie di Melkor…» sbuffò Oromë, che non sapeva più cosa tentare.
«E chi è Melkor?» risposero gli Elfi con una
tranquillità disarmante.
«Ah… insomma, a Valinor… si vende
erba!».
Silenzio.
Finwë si fece avanti: «Beh, potremmo farci
un pensierino…».
Oromë esultò fra sé e sé: carne fresca per
tutti!
Alla fine quasi tutti gli Elfi si convinsero
a fare marcia verso Valinor, ma alcuni sospettavano ancora di Oromë. Diffidavano
infatti dagli sconosciuti da quando alcuni Elfi erano stati irretiti dalle spie
di Melkor e non erano più tornati.
Infatti un terrore sconosciuto si aggirava
fra le pianure della Terra di Mezzo; ed esso altri non era che Silviolo, il Nano
malefico fuggito dalle fucine di Aulë e passato al lato oscuro. Costui era la
spia preferita di Melkor, che lo sguinzagliava per le lande desolate della Terra
di Mezzo in cerca di vittime e di alleati.
Tutti gli Elfi che, ahimè, si erano
imbattuti in Silviolo e nel suo lifting avevano finito con l’impazzire,
esasperati da continui discorsi efficacissimi sull’importanza di essere di Forza
Italia, e alla fine le sue vittime subivano anche un processo d’involuzione
indotta, facendosi più brutti e più scemi. Fu semplicemente così che Melkor
riuscì a generare l’immonda razza degli Orchi.
Alcuni Elfi, dunque, memori degl’inganni di
Silviolo (e anche sospettosi delle intenzioni del nuovo arrivato, per la verità)
erano piuttosto restii ad accettare l’invito.
Colsero dunque due piccioni con una fava e
dissero ad Oromë che l’avrebbero seguito solo se i Valar avessero fatto qualcosa
per sgominare il terrore scatenato dal Nano malvagio.
Oromë non chiedeva di meglio.
Il Vala si soffermò alquanto fra gli Elfi,
poi tornò rapidamente (per quel che glielo
consentivano le sue gambe prive di cavalcatura) verso Valinor attraverso
terre e mari onde recare ai Valar la notizia.
«Manwë! Manwë!» urlava Oromë lungo le vie
della città. «Ho grandi novità!».
Manwë, che in quel momento stava facendo una
gara di sudoku contro Aulë – e perdeva decisamente – fu ben lieto di avere un
pretesto per svignarsela.
«Dimmi, Oromë. Che cos’hai visto? Cosa ti
rende tanto inquieto? E… Oromë, ma dov’è il tuo cavallo?» chiese allora, notando
l’assenza del millenario compagno del Vala.
«Nahar… non ne voglio parlare!» rispose
Oromë con un tono di voce più alto del dovuto. «Manwë… Ho visto gli Elfi!»
esclamò sorridendo.
«Sì… e mia moglie ha visto gli asini
volanti, ma quello è normale…» bofonchiò Aulë stiracchiandosi.
«No, è vero!» s’impose Oromë, deluso.
«Manwë, ero… uh, a caccia, a Cuiviénen, ed è pieno di Elfi!» dichiarò con l’aria
di uno che ha trovato il paese dei balocchi.
«Ah… sul serio? Sì, in effetti stamattina
Mandos mi aveva accennato qualcosa del genere, era tutto contento perché dice
che ha sognato sangue… comunque…» rispose pensieroso il Re, «E tu cosa hai
fatto, Oromë?».
Il Vala aprì la bocca per raccontare lo
scherzo del corno, ma poi ebbe il buon senso di ripensarci. «Io… li ho invitati
a venire a Valinor!».
«Bravo!» sentenziò Manwë soddisfatto. Nuovi
cittadini, nuove tasse! «E loro?».
«Emh… non penso che si siano fidati tanto…»
rispose il Vala in imbarazzo.
«Perché?».
«Li avrai mica guardati con quella tua
faccia che ti fa sembrare un ubriacone davanti ad una damigiana di vino, eh
Oromë?» chiese preoccupato Aulë.
«No! Io, no, mai!» rispose l’altro con una
fretta quanto mai eloquente. «No, giuro… è che hanno paura di Melkor. Dicono che
non si fidano degli sconosciuti».
Manwë sbuffò e alzò le braccia al cielo:
«Ah, Melkor, Melkor, ma che palle, sempre lui è! Che ha fatto
stavolta?».
«Manda gli emissari, pare voglia convincere
gli Elfi a passare a Forza Italia…».
Il Re andò alla finestra e rimase in
silenzio. Poi si volse verso Aulë: «Chiama Mandos, chiedigli se secondo lui
stavolta è il caso di entrare in guerra e… no, Aulë, non fare quella faccia!...
e fammi arrivare la risposta. Vai.».
Aulë, che era un pacifico Vala tutto casa e
officina, si allontanò quasi piangendo, mentre Oromë andava a cercarsi una nuova
cavalcatura.
Dopo che Aulë gli ebbe riferito il ‘sì’
entusiasta di Mandos, Manwë sedette a lungo pensieroso sul water… sul
Taniquetil, e cercò il consiglio d’Ilúvatar, che però in quel momento teneva la
segreteria telefonica. Allora Manwë ridiscese a Valinor (dal water! E ci mise cinque giorni. I water a
Valinor sono molto alti… N.d.A.) e
convocò i Valar all’Anello del Destino.
«Ma poi perché proprio ‘Anello del
Destino’, è un nome di merda e porta sfiga…» si lamentava a bassa voce Manwë,
che aveva un cattivo presentimento.
«Toh, c’è pure il panzone…» Ulmo era giunto
dal Mare Esterno con tutte le sue carriole di lardo. Quando prese posto, gli si
fece il vuoto attorno. Ci furono delle basse risate. Qualcuno si soffiò il naso.
Oromë sbuffò in modo molto equino.
Allora Manwë prese la parola e disse ai
Valar: «Questo è il consiglio che Ilúvatar ha posto nel mio cuore: che noi si
riprenda il dominio di Arda, a qualsiasi prezzo, e che si liberino gli Elfi
dall’ombra di Melkor».
Tutti i presenti ammutolirono, non tanto per
la profondità di quanto detto, ma soprattutto perché era raro che Manwë usasse
nei suoi discorsi qualcosa che andava oltre il soggetto, il verbo e il
complemento.
Per quanto riguarda Manwë, egli si preparava
quel discorso da secoli, e metà l’aveva copiata dai fumetti. Inoltre era una
cazzata il riferimento a Ilúvatar, ma sapeva che avrebbe fatto scena.
Ad ogni modo Tulkas fu lieto di tale
decisione - essendo un povero scemo buono solo a dare legnate - , ma Aulë se ne
rattristò, prevedendo le ferite che sarebbero derivate al mondo (anche se lui si
preoccupava più della sua artrite) da quello scontro. Mandos, poi, stava
praticamente ballando di gioia.
Fu così che i Valar si mossero per andare in
guerra. Gente che cantava, gente che rideva, gente che ogni due passi scuoteva
le spalle e sospirava, gente che malediva Manwë…
Beh, insomma, in questo clima di leggerezza
generale i Valar andarono ad assalire e distruggere le roccaforti del nemico.
Mai Melkor dimenticò che questa guerra venne
scatenata per amore degli Elfi e che furono essi la causa della sua caduta.
Eppure gli Elfi - poveri ‘nnuccenti - non
ebbero alcuna parte in quei fatti e poco sanno della cavalcata della potenza
dell’Occidente contro il Nord al principio dei loro giorni.
Poi i Valar passarono oltre la Terra di
Mezzo e posero la guardia su Cuiviénen; e dunque i Quendi non seppero mai nulla
dalla grande Battaglia delle Potenze, salvo che la
Terra tremò e gemette sotto di loro, e che le acque si agitarono, e che nel nord
si accesero bagliori come di fuochi immani.
A questo punto viene da chiedersi: ma che
schifo di guardia fecero i Valar a Cuivienén?! Si sentiva tutto!
Boh.
***
Ad Utumno, Melkor era nel suo lettino che
mandava giù lentamente un Triaminic. Appoggiò la testa al cuscino e cercò di
dormire, ma lo sguardo gli cadde su un foglietto pieno di schemi che penzolava
moscio dalla parete. Gemette e si coprì il volto con il piumone, torcendosi nel
letto.
Con un gesto secco si scosse le coperte di
dosso e si mise a sedere prendendosi la testa fra le mani. Era in queste
condizioni dall’ultima crisi di nervi e ancora non accennava a
migliorare!
Proprio ora che i Valar s’erano decisi a
dargli del filo da torcere… dopo millenni di nullafacenza, poi!
Melkor scosse il capo, scese dal letto,
infilò le sue ciabattine scozzesi a prese a girare nervosamente su e giù per
camera sua.
Questa situazione non gli piaceva. Da quando
il sistema nervoso l’aveva abbandonato per lidi migliori, l’Oscuro Signore si
era trovato costretto a lasciare il comando di tutto a Sauron… e in mano sua
stava degenerando tutto velocissimamente.
Avrebbe preferito di gran lunga affidare la
gestione dei suoi affari al fedele Silviolo, ma qualcuno gliel’aveva fatto
trovare appeso a testa in giù da una grondaia. Era un’offesa intollerabile, e il
Nano, indignato, s’era rifiutato di collaborare, ritirandosi nelle sue stanze
con un aspro «mi consenta!».
Come se non bastasse, Melkor non riusciva
più ad elaborare nessuno dei suoi subdoli e contorti piani di conquista del
mondo che tanto lo avevano infervorato in passato. Il medico che, povero audace,
gli aveva consigliato una cura a base di vitamine, una vacanza e una terapia
psichiatrica, era morto ammazzato.
«Tutto questo… mi esaspera!» stridette il
Vala Oscuro, fermandosi al centro della stanza e tirandosi quei quattro capelli
che gli rimanevano. Era lì che rifletteva sulla miseria della sua condizione,
quando dei violenti colpi si abbatterono sulla sua porta.
«Patrone! Aprite! Patrone!».
Gli occhi di Melkor si iniettarono di
sangue.
«Sauron… è aperto, Sauron… E’… aperto…»
sputacchiò il Vala.
«Oh» bofonchiò Sauron, dopodichè entro, si
sistemò la coppola, diede un paio di colpetti al panciotto, si mise sull’attenti
e declamò: «Patrone, abbiamo un problema, abbiamo».
Melkor, mani ai capelli, occhi grondanti
sangue, ghigno isterico, pigiama e ciabatte scozzesi, si voltò appena verso il
luogotenente. Il suo collo emise un ‘griiin’ molto udibile.
«Sì, Sauron… lo so che hai un
problema, ma fosse solo uno…» rispose, sfogando il suo isterismo sul sottoposto,
che parve non capire.
«No, no, Patrone, dissi che ‘abbiamo’ un
problema; è una cosa collettiva, Patrone, di tutti, una cosa grave, sissì, grave
assai» enunciò Sauron serissimo.
Lo sguardo pazzo del Vala - che aveva
l’obiettivo di fare tacere Sauron, possibilmente per sempre - parve invece
indurre il luogotenente a proseguire sullo stesso tono.
«Questa ingiuria è, Patrone mio, ingiuria
gravissima! Ci stanno entrando dentro casa, quei fetenti; ma io dico
d’ammazzarli tutti, che noi non baciamo le mani a nessuno…».
A quel punto Melkor si morse le labbra,
serrò i pugni, i capelli gli divennero dritti e fumanti sulla testa, gli occhi
gli fuoriuscirono di sei centimetri e mezzo dal cranio e le ciabattine scozzesi
gli presero fuoco. Sauron scappò e lasciò il suo patrone in preda ad una crisi
isterico-epilettica, che rideva, piangeva, faceva i versi degli animali e
cantava Tiziano Ferro alternativamente.
Fu in questo stato che mezz’ora dopo i Valar
lo ritrovarono. Tulkas, che era già fornito di cintura da wrestling ci rimase
male quando gli fu detto che non era necessario picchiare il nemico, e Manwë,
piuttosto che soddisfazione, provò quasi pena. Aulë, che fino a quel momento
aveva già recitato dodici rosari – ignorando, fra l’altro, cosa fosse di preciso
un rosario - tirò un sospiro di sollievo e si asciugò la fronte con un
fazzoletto; Mandos invece se ne stava un po’ indietro tutto contento a contare i
cadaveri dei nemici.
Così, terminata la Battaglia, i Valar
legarono Melkor con una camicia di forza chiamata Angainor, cucita da Aulë – che
nel tempo libero si dilettava di cucito, sì - , lo fecero prigioniero e lo
condussero a Valinor. Fu una camminata lunga e penosa, perché tutti erano
stanchi e perché nessuno riuscì in nessuno modo a fare smettere Melkor di
cantare a squarciagola Tiziano Ferro.
Arrivati a Valinor, Manwë insistette per
portare subito Melkor all’Anello del Destino.
«Ma… neanche il tempo di un pediluvio?»
gemette Aulë.
«Ma io ho lasciato la lavatrice in
moto…».
«Ma io devo dar da mangiare al
cavallo…».
«No!» ribattè il Re. «Anello del Destino ho
detto e Anello del Destino sarà».
Tutti obbedirono molto di malavoglia, anche
perché Melkor alla parola ‘anello’ diede di matto e solo la potentissima camicia
di forza impedì che mordesse gli sventurati che lo trascinavano.
Una volta che fu condotto a destinazione,
venne bendato e legato mani e piedi – qualcuno per sicurezza gli mise anche una
mela cotogna in bocca; Manwë gli si mise davanti e cominciò a leggere una
lunghissima pergamena.
«Dunque, dunque… che cos’abbiamo qui?
Truffa, frode, furto, assassinio, oltraggio a pubblico ufficiale, corruzione,
rapina a mano armata, stupro, violenza sugli anziani, scasso di automobile,
falsificazione, taccheggio, colesterolo alto, un tre in latino del dodici
ottobre, le scarpe slacciate, la forfora, hai rubato le caramelle ai bambini…»
elencò il Re mentre il ghigno sulla sua faccia si allargava sempre di più.
Melkor, in un momento di lucidità, si rese
conto che le cose si stavano mettendo piuttosto male. Fece appello alle sue
ultime forze, sputò la mela cotogna e si gettò ai piedi di Manwë invocando
pietà, e facendo nel frattempo bene attenzione a pestargli i numerosi
calli.
«Dai… non ti fa pena? Poverino…» intervenne
Varda, Valië dal cuore d’oro e dal cervello di sughero.
«No, certe volte mi fai più pena tu,
guarda…» rispose acidamente Manwë tentando di scrollarsi il nemico di dosso, che
nel frattempo era caduto di nuovo preda dello stordimento – a causa forse anche
del mortale odore dei piedi del Re.
Nel frattempo Aulë seguiva con lo sguardo
una mosca che gli svolazzava attorno alla testa e gran parte dei Valar
sbadigliava vistosamente.
«E avanti, e su, e basta…».
«Eh, l’abbiamo capito, sbattilo in galera e
non se ne parli più…».
«Bah, quanto ci sta marciando…».
«Dai che abbiamo sonno…».
Manwë, irritato per l’interruzione,
riavvolse la pergamena – che era bianca, s’era inventato tutto lui al momento,
tanto non lo ascoltava nessuno – e si rivolse al nemico.
«E sia. In prigione a Mandos per tre ere,
poi vediamo se ti mandano in cassazione» decretò.
«A Mandos?» saltò su Melkor, terrorizzato.
«Mi vuoi mandare nelle Aule di Mandos? Ma Mandos è pazzo!» urlò, «E se mi fa del
male?».
«Perché, ha l’aria di qualcuno che fa del
male alla gente?» chiese Manwë con un’innocenza ben poco credibile. Mandos, alle
sue spalle, saltellava da un piede all’altro brandendo una grande falce
insanguinata.
«Su… dai… pòrtatelo…» ordinò il Re. Mandos,
tutto contento, afferrò un lembo della camicia di forza di Melkor e se lo
trascinò canticchiando fino alle sue prigioni mentre il prigioniero, ormai
psichicamente e moralmente distrutto, si lasciava trainare con un sorriso
assente cantando con un filo di voce ‘London bridge is falling
down’.
Dopo che ebbero sconfitto ed imprigionato
Melkor, dunque, i Valar convocarono gli Elfi a Valinor affinché vi si
radunassero ai piedi delle Potenze nella luce sempiterna degli Alberi; e Mandos
ruppe il proprio silenzio e disse: «Così è destino che sia».
Da questa convocazione derivarono però molte
delle sciagure che si verificarono in seguito – ed
era proprio questo a rendere Mandos così allegro.
Quando si trattò di scegliere un volontario
per guidare agli Elfi lungo il viaggio per Valinor, Oromë non se lo fece
ripetere due volte e già in sella al cavallo partì a rotta di collo per
Cuiviénen. Guardandolo allontanarsi, i Valar non ebbero più dubbi sulle reali
intenzioni di Oromë nei confronti degli Elfi…
«Poveri ‘nnuccenti…» commentò tristemente
Lórien, che spesso si era dovuto prendere cura di Nahar quando Oromë ci andava
giù troppo pesante. «Vado a preparare nuovi posti letto nei Giardini, temo che
serviranno…», e si allontanò.
Alcuni Elfi sulle rive di Cuiviénen, si
stavano girando i pollici, dicendosi cose tristi e malinconiche.
«Com’è breve la bellezza…».
«Eh, sì…».
«Quant’è triste essere
immortali…».
«Eh, già…».
«Quant’è lunga e vuota
quest’esistenza…».
«Uhu, proprio vero…».
«No, ma che palle!» sbottò all’improvviso
Finwë, che passava di là per caso. «Questa vita è uno strazio. Le stelle e il
lago; il lago e le stelle; le stelle, il lago e il prato… ma basta, no?» sbuffò
buttandosi a sedere.
«Sì, era quello che stavamo dicendo anche
noi in termini più romantici, Finwë», commentò un Elfo. Gli altri
annuirono.
«Perché non ci troviamo qualcosa da fare?»
propose un Elfo chiamato Olwë.
«Ma dove te lo devi trovare qualcosa da
fare, che qua hanno tutti la vitalità di un pensionato, gioia mia?» abbaiò Finwë
che, come sappiamo, in futuro avrebbe trasmesso questo carattere di merda a
tutta la sua discendenza.
«Era solo una proposta» bofonchiò l’altro.
Passarono alcuni istanti di silenzio,
durante i quali si udiva solo lo stormir delle fronde e il gorgogliare
dell’acqua sulle pietre, suoni di cui gli Elfi ne avevano già fin sopra la punta
delle orecchie – e le orecchie degli Elfi sono anche lunghe!
«Ma alla fine se n’è saputo più niente di
quello che ci doveva portare nella Terra Promessa, là?» chiese qualcuno in tono
ironico.
«Amico mio, mettiti pure il cuore in pace,
che quello ci ha bidonati» decretò Finwë facendo ‘ciao ciao’ all’orizzonte con
la manina, pratico come sempre.
«In effetti non mi è mai piaciuto» disse
Ingwë in tono grave. «Dico, avete visto con che faccia ci guardava? Non vorrei
essere malpensante, ma sembrava proprio che…».
Proprio mentre stava finendo la frase, un
fragoroso scalpicciar di zoccoli si intromise prepotentemente nella sequenza
‘strormir di fronde-gorgoliare d’acqua’.
«Ma che casino che fa, è uno solo e sembra
la Cavalleria Rusticana…» disse secco Finwë mentre il gruppetto di Elfi si
alzava dalle rive del lago.
Poco dopo Oromë giunse davanti agli Elfi,
con una faccia stravolta che forse i più ottimisti avrebbero attribuito alla
lunga cavalcata, ma che assunse ben altro significato agli occhi dei
Quendi.
Oromë li guardò ad uno ad uno stralunato e
col fiatone, poi parlò.
«Allora, cominciamo ad andare? Avete già
avvertito le vostre stirpi? Più siamo meglio è!».
«Al mio ‘tre’ scappiamo» sussurrò a denti
stretti Ingwë dando di gomito a Finwë.
«No, lui corre più veloce…» gli rispose
sibilando l’altro, che continuava a tenere d’occhio Oromë con un sorriso a
trentadue denti assolutamente poco credibile.
Olwë parlò sforzandosi di mantenere un’aria
tranquilla, ma il modo in cui si torceva le mani lo tradiva: «Uh, emh, sì, hai
ragione. Dobbiamo andare ad avvisare gli altri che sei arrivato e che dobbiamo
prepararci alla partenza. Andiamo… andiamo!» disse sorridendo e spingendo
davanti a sé gli altri, che annuivano con gravità.
«Tornate presto!» li salutò il Vala, che
aveva quasi una paresi facciale e continuava a sorridere in una maniera che
definire «terrificante» è poco.
«Contaci!» risposero gli Elfi, falsi come
una carta da sei euro. Quindi cercarono di allontanarsi, ma sfortunatamente
altri Elfi, incuriositi dal rumore, si erano già radunati lì attorno.
«Oh! E’ tornato un Signore dell’Occidente!»
disse uno dei Vanyar, che era la stirpe d’Ingwë.
«Egli è uno di coloro che ci hanno liberato
dal terrore di Silviolo! Onoriamolo!» esclamarono altri.
«Egli è giunto per portarci con sé al di là
del Grande Mare!» urlarono eccitati molti Elfi Teleri, la stirpe di Olwë e di
suo fratello Elwë.
«Egli è giunto per condurci nelle Terre
Beate!» fu l’acclamazione generale. «Seguiamolo!».
Gran parte degli Elfi dunque, poveri cuori
innocenti, era ben contenta di seguire Oromë in Occidente. Ma c’era una fazione
di Elfi che se ne stava dietro a guardare la scena con occhio critico, scuotendo
la testa. Essi erano i Noldor, la stirpe di Finwë; la razza di Elfi più acida,
malfidente, asociale e pericolosa di tutti i tempi.
Oromë ebbe il suo bel daffare a convincere i
Noldor dell’onestà delle proprie intenzioni.
«Ma perché, do l’impressione di essere un
Vala inaffidabile, scusatemi?».
«Bah guarda, non lo so, ma io non ti seguo
finché non fai sparire quel corno, che non si sa mai…» sentenziò Finwë. I Noldor
annuirono.
«Tutto qua? E che ci voleva, ecco, ora
possiamo andare…».
«No, non ti seccare ma io e la mia schiera
preferiamo tenerci un po’ dietro, sai, ci dà fastidio il rumore…».
«E va bene, ma ogni tanto dovrò pure
avvicinarmi per sapere se va tutto bene…».
«Oh, sono sicuro che tra la schiera d’Ingwë
ci sarà qualche ambasciatore di buona volontà che lo farà al tuo
posto…».
«Oh… ah, basta, porco Melkor;
andiamo!».
Fu così che gli Elfi intrapresero dunque una
grande marcia dalle loro prime dimore in oriente; molti tuttavia rifiutarono
l’invito, preferendo la luce delle stelle e i vasti spazi della Terra di Mezzo
alle luci degli Alberi; e costoro sono gli Avari,
detti anche ‘gli Spilorci’, che come dimostra il loro nome, si rifiutarono di
muoversi giacché spaventati dalle spese di viaggio. Rimasero dunque lungo le
rive di Cuiviénen per millenni, e in questo modo si risparmiarono tanti e tali
casini che talvolta agli Elfi che seguirono Oromë viene ancora da chiedersi: «Ma
chi ce l’ha fatto fare?».
Lunga e lenta fu la marcia degli Eldar
nell’ovest, giacchè la Terra di Mezzo si estendeva per leghe innumerevoli, e
aspre e non battute. Né gli Eldar volevano affrettarsi perché colmi di
meraviglia per tutto quanto vedevano, e
soprattutto anche perché molti cominciavano a pentirsene e a provare invidia per
gli Spilorci, che da lontano li salutavano facendo ‘ciao ciao’ col fazzolettino;
e benché tutti volessero migrare, molti temevano, più di quanto non avessero
sperato, la fine del viaggio (grazie, i Noldor avevano sparso la voce che Oromë è un pazzo
violentatore. N.d.A.).
Così, ogniqualvolta Oromë si allontanava, di
tanto in tanto richiamato da altre incombenze
(doveva fare la pipì.
N.d.A.), gli Elfi sostavano senza più
procedere – avevano paura di muoversi perché temevano che il Vala facesse le
imboscate - fino a che egli non ritornava a guidarli.
E accadde, dopo molti anni di siffatto
viaggio, che gli Eldar entrassero in una foresta e giungessero a un grande
fiume, più ampio di quanti mai ne avessero visti.
«Oooooh…» dissero i Teleri, che come
vedevano l’acqua diventavano cretini.
«Questo» esclamò allora Oromë, felice di
poter fare bella figura, «è il grande fiume Anduin!».
Mentre gli Elfi e il Vala stavano osservando
lo scorrere del fiume, davanti a loro, su una piccola imbarcazione, passò il
corpo di un soldato con un corno bianco spezzato in due sul petto.
«OOOOH!» esclamarono a questo punto tutti
gli Elfi, che non avevano mai visto un Uomo, e soprattutto non avevano mai visto
un morto.
«Ma…» bofonchiò Oromë cercando di
raccapezzarsi. «Ma… che cosa…?».
In quel momento, su una seconda
imbarcazione, un uomo corpulento con un cappello da baseball, una camicia a
quadri, occhiali da vista e megafono passò rapidamente davanti a loro, remando
affannosamente.
«Torna qui, Sean, torna qui, stupido
ragazzo!... Scusate, ragazzi, mentre giravamo l’ultima scena della Compagnia
dell’Anello la barchetta funebre di Boromir c’è scappata di mano e… ah, le
rapide! PRENDETELO!».
Una terza imbarcazione con sopra un Uomo
molto trascurato con i capelli lunghi, un Nano con la barba rossa e un Elfo
dalle lunghe chiome bionde passò sfrecciando accanto a quella dell’uomo
corpulento.
«Scusate… scusate ancora… ce ne andiamo
subito!» disse l’uomo con un sorriso affabile.
«N-no… nessun problema, si figuri…» rispose
Oromë, che a questo punto avrebbe avuto qualcosa da raccontare di ritorno a
Valinor.
Allora si levò uno dalla schiera di Olwë,
Lenwë era il suo nome. Egli prese la parola e
disse: «E dopo questa, signori miei, io me ne vado. Mi do all’eremitaggio.
Qualcuno mi vuole seguire?».
Milleottocento Elfi alzarono la mano e
seguirono Lenwë lungo il sud del grande fiume, e la
loro gente non ne ebbe più notizia per molti e molti anni. Costoro erano i
Nandor e divennero un popolo a sé; e la conoscenza che essi avevano delle cose
viventi, alberi ed erbe, uccelli e animali terrestri, era maggiore di quella
posseduta da tutti gli altri Elfi.
In anni successivi, Denethor, figlio di
Lenwë, alla fine riprese il cammino verso ovest e…
«…Denethor?» esclamò a questo punto il
professor Tolkien, alzando lo sguardo da ciò che stava scrivendo.
«Denethor figlio di Lenwë?! Ma che c’entra?»
si disse, mordicchiando la matita.
«Ma poi ‘Denethor’ non l’avevo già messo da
qualche altra parte?» borbottò il professore cominciando a sfogliare i suoi
appunti. Qualcuno gli bussò sulla spalla.
«Sì, cosa…? Oh…» il professore ammutolì.
Davanti a lui un anziano signore con lunghi capelli grigi e l’Albero di Gondor
ricamato sulla veste lo guardava male, cercando di applicarsi due orecchie a
punta di plastica sulle vere orecchie.
«Allora, come vado come Elfo?»
sbottò.
«Oh.. emh, perdonami! E’ che, insomma, ho
scritto più di diecimila pagine in tutto, non è che mi posso ricordare tutti i
nomi!» concluse, e accigliato riprese a scrivere.
…Alla lunga, i Vanyar e i Noldor giunsero al
di là degli Ered Luin, i Monti Azzurri; e le primissime compagnie superarono la
Valle del Sirion e discesero alle rive del Grande Mare tra Drengist e la Baia di
Balar.
Solo che alcuni Elfi Ilúvatar li aveva fatti
male e gli erano venuti idrofobi, per cui questi alla vista del Grande Mare si
fecero un calcolo e ci ripensarono in extremis.
Poi Oromë, per motivi noti solo al professor
Tolkien, se ne andò per tornare a Valinor a cercare il consiglio di Manwë, e li
lasciò.
Ma fu un bene, perché in questo modo gli
Elfi poterono cessare di preoccuparsi per la propria incolumità e,
tranquillizzati, fecero un sacco di strada con un peso di meno nel
cuore.
Nel prossimo capitolo parleremo di come uno
di loro, tale Elwë Singollo, fece un favore a tutti e soprattutto a Finwë
sparendo dalla circolazione per l’eternità.
Ma per ora ci possiamo fermare, che dodici
pagine sono tante e io devo andare in camera mia a chiedere perdono al Maestro
per quest’affronto che gli sto facendo.
***
Note:
…
Ehr… Buon Anno a tutti! ^__^
Sì, ok, lo so. Alla fine dello scorso capitolo avevo
promesso che avrei aggiornato in tempi dignitosi, e giuro (giurin giuretto) che
ci ho provato!
Ma che vi posso dire? Evidentemente gli dèi non vogliono
che io aggiorni, e me lo impediscono in così tanti modi che starne a parlare qui
stonerebbe col tono comico del De Ignoto Silmarillion.
Ad ogni modo, miei cari: piaciuto il capitolo? A me piace
parecchio, anche se in certi punti mi sono messa a delirare (l’apparizione di
Peter Jackson mi lascia ancora parecchio dubbiosa, ma beh…).
Vi lascio ringraziandovi per tutte le bellissime
recensioni che mi lasciate (le leggo un sacco di volte al giorno, mi rendono
così felice!), e vi auguro un bel 2007.
Per quel che riguarda la fic… abbiate fiducia, Milako non
si arrende mai e a poco a poco la finirà! :D
Baci, ragazzi. A presto!
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