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Autore: Milako    30/12/2006    12 recensioni
Ciò che Tolkien non ci ha mai rivelato.
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
Capitoli:
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Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.


Capitolo III

Della venuta degli Elfi
e della cattività di Melkor,
ovvero: si stava meglio quando si stava peggio
e Melkor è molto Cattivo.

Per lunghe ere i Valar dimorarono della beatitudine alla luce degli Alberi al di là delle Montagne di Aman, ma tutta la Terra di Mezzo giaceva nel crepuscolo sotto le stelle.

Questo, ovviamente, è un modo particolarmente poetico per ribadire un concetto già abbastanza chiaro un po’ a tutti: l’incapacità dei Valar.

E’ vero: millenni prima il buon Ilúvatar aveva peccato d’ottimismo nel momento in cui aveva lasciato Arda alle cure dei suoi pargoli. I pargoli, tuttavia, non sembravano avere la benché minima intenzione di riparare alla loro millenaria condotta di gnorri.

D’altro canto, è bene ribadire che il Re era Manwë, e con Manwë al comando non è che uno si potesse aspettare poi granchè…

Così accadeva che, mentre ad Aman si mangiava, si beveva e si truffava e ad Utumno Melkor perfezionava i suoi block-notes di conquista del mondo; nella Terra di Mezzo sconsolate palle di fieno rotolavano su parecchi strati di polvere, con i corvi in sottofondo (i corvi, si sa, accorrono quando c’è bisogno di far scena).

I Valar, fedeli alla loro condotta, se ne sbattevano. Gli unici che si dolevano di questa situazione erano Yavanna ed Oromë.

Non per nobiltà d’animo, sia ben chiaro! Yavanna aveva guardato con occhio bramoso ai grandi campi potenzialmente coltivabili della Terra di Mezzo, con scopi più che intuibili; l’idea di tanto spazio vuoto sfagiolava anche Oromë, che ad Aman cominciava a sentirsi stretto per via di alcune voci di corridoio sui suoi… uh, passatempi col cavallo Nahar.

Di rado i Valar si recavano in quelle terre e in quelle foreste, salvo dunque i soli Yavanna ed Oromë; e lì Yavanna camminava tra le ombre (occhio alle ombre, Yavanna! Se nitriscono, scappa! N.d.A.), dolendosi perché la crescita delle sue nuove piantine andava a rilento.

Da un po’ di tempo aveva cominciato a fare esperimenti d’innesti fra le sue piantine nei campi della Terra di Mezzo, ma (vuoi perché la temperatura non collaborava, vuoi anche perché gli esperimenti di Yavanna non è che fossero proprio normali…) finora non era riuscita a ottenere nemmeno un raccolto. In attesa di tempi migliori, ella pose allora il sonno su molte cose che erano sorte durante la Primavera, in modo che esse non invecchiassero, ma che attendessero un tempo del risveglio che ancora sarebbe venuto.

Sì, in parole povere Yavanna aveva appena inventato i surgelati.

***

Nel nord, però, Melkor costituì la propria forza, o almeno di questo era convinto.

Perché c’è da dire che negli ultimi tempi anche Melkor cominciava a subire qualche acciacco.

Innanzitutto, i suoi deliranti schemi di conquista del mondo cominciavano a diventare preoccupanti. Melkor ne disegnava ovunque; su quaderni, libri, post-it, block-notes, lavagnette magnetiche, sulle mura, sul frigorifero, sulle mani, sulle magliette e dovunque gli riuscisse di imbrattare. Ne era ossessionato, non dormiva quasi più, e quando accadeva lo si sentiva urlare «POTERE!» nel sonno; di mattina, la prima cosa che faceva era controllare che i foglietti sulle pareti fossero ancora tutti al loro posto e che nessuno glieli avesse scombinati o sbirciati.

«Padrone, Voi vi dovete rasserenare, state tranquillo…» gli dicevano i suoi sottoposti.

«NO! Come posso stare tranquillo? Eh? Oh, non ci riuscirò mai, non ci riuscirò mai, mi ritiro!» urlava lui, agitando la testa sopra pile di appiccicose tazze di caffè.

Cioè, cose che nemmeno mia sorella agli esami di maturità… Ma passiamo oltre.

Quando Melkor non ne poteva più, quando i nervi gli crollavano, quando si sentiva morire, quando finiva con lo strappare gli schemini a cui lavorava da settimane - ben conscio che il giorno dopo li riavrebbe rassegnatamente incollati ad uno ad uno con la colla vinilica - quando gli accadeva questo, Melkor si gettava esausto su una poltrona, con gli occhi a palla e i capelli quasi vivi, lasciando friggere in libertà la stanchissima materia grigia.

Momenti del genere erano sempre più frequenti, e ogni volta che Melkor crollava in questo stato l’intera Utumno si rigirava nell’indecisione e nell’imbarazzo. Sì, perché l’immediato sottoposto dell’Oscuro Signore era ancora il sicilianissimo, imprevedibile Sauron.

Egli non era migliorato nel tempo. Girava ancora con la fedele lupara sotto l’ascella, teneva la sua collezione di coppole con una cura religiosa e sottolineava la mole dei suoi baffetti con sempre maggiore orgoglio. Continuava a rivolgersi a Melkor con sparate del tipo «Patrone, come comanda Vossignoria», rischiando la vita ogni volta che lo faceva, certo, ma senza che un brivido facesse tentennare la sua identità mafiosa.

Semmai era peggiorato, dato che col tempo era anche venuto fuori che Sauron aveva anche dei gusti discutibili in fatto di strumenti di tortura…

In quel tempo Melkor stava radunando attorno a sé i propri demoni, quegli spiriti che per primi gli si erano uniti nei giorni del suo splendore e che gli erano divenuti massimamente simili nella sua corruzione: i Balrog.

Ora, sapete tutti come sono fatti i Balrog, no? Corna, fruste di fiamme e tutto il resto.

Melkor, fiero di avere degli alleati tanto spaventosi, li condusse ad Utumno.

Sauron, però, come vide le fruste dei Balrog, venne colto da uno di quei colpi di genio che tanto spesso gli fecero rischiare la carriera. Approfittò di uno dei momenti di stanchezza del suo «patrone» e impose ai Balrog fruste di pelo rosa, corredandoli anche di manette con i glitter e perizoma leopardati, per fare più fashion.

I sottoposti di Melkor erano annichiliti, tanto più dal fatto che i Balrog parevano apprezzare la trovata. Sauron, mafioso dalla lacrima facile, stava giustappunto iniziando a commuoversi, sennonché il sesto senso di Melkor, fiutando la catastrofe, fece scattare il campanello d’allarme nella mente di questi.

E lì vi furono urla, fulmini e saette, preghiere accorate in siciliano e minacce di mutilazioni varie e ripetute fino a che Melkor, anche per salvaguardare quel poco di sanità mentale che gli era rimasta, decise di inviare il luogotenente… diremmo oggi «a dirigere il traffico».

Sauron fu infatti delegato alla gestione di Angband, arroccatissimo, sperduto, inutile e solitario arsenale di Utumno. Felicissimo e onorato per motivi noti unicamente a lui, Sauron accettò l’incarico con gioia, cominciando fin da subito a rinominare Angband « ‘u Cciarduni».*

***

Ignari (o forse no? Tanto la differenza non si nota…) di questi avvenimenti, i Valar se ne stavano tranquilli nel loro Reame Beato.

Certe volte, ma solo raramente, si ricordavano di cosa li aveva portati su Arda, riflettevano sulla loro colpa verso Ilúvatar e si dicevano che, beh, sì, il Padreterno li aveva mandati sulla terra come castigo, ma alla luce dei fatti la loro esistenza in Aman non si poteva definire un castigo, anzi, era tutto il contrario!

…Essi, poveri stolti, avevano dimenticato la seconda parte del castigo d’Ilúvatar.

Ilúvatar, però, non aveva dimenticato. Egli aveva osservato col cannocchiale le faccende dei suoi pargoli, aveva visto i loro vizi, la loro immoralità, aveva visto il malgoverno di Manwë e i traffici di Yavanna, soprattutto aveva ascoltato – con l’aggeggino della Amplifon, perché gli anni passano per tutti – tutte le idiozie che ogni giorno volavano libere in zona Valar. E tutto questo non faceva che rafforzare sempre di più in Eru la convinzione dell’impellente necessità di trovare ai Valar qualcosa da fare… qualcosa di impegnativo e snervante da fare.

Un bel dì, Yavanna si svegliò con un improvviso scrupolo di coscienza. Si alzò e, dimentica perfino di dare l’acqua alla piantina che teneva sul comodino, si diresse verso la porta senza una parola.

Ad Aulë, marito rassegnato ma attento, non sfuggì quest’anomalia. «Dove vai?», le chiese.

«Dal Re… vieni?» cantilenò lei.

«Eh? L’ultima volta che sei stata da Manwë dopo ti sei messa a blaterare di alberi parlanti e io e Varda ti abbiamo dovuta stordire, ricordi?» le fece notare pazientemente il marito.

«Uhu…» accennò Yavanna con sguardo vacuo, dando l’impressione di essere posseduta. Ed in effetti era proprio così: Ilúvatar la stava manovrando.

Aulë, non poco preoccupato, si grattò l’orecchio in un gesto a lui solito e s’incamminò dietro la sposa.

Giunti che furono alla corte di Manwë, essi trovarono il Re impegnato in una mano di scopone scientifico particolarmente difficile, assieme ad una buona metà dei Valar e a un certo numero di Maiar.

«Buondì, Yavanna…» cominciò cautamente il Re, memore dell’ultima visita. «Qual buon vento ti mena?», e a questo punto tutti i presenti, nascosti dietro le carte, cominciarono a scambiarsi battutine sul vento e a ridacchiare. Manwë s’incupì e Aulë sospirò, ma Yavanna non batté ciglio e disse tutto d’un fiato, come se l’avesse imparato a memoria: «Potenti di Arda, la Visione d’Ilúvatar fu breve e presto rimossa, così che forse noi non siamo in grado di indovinare con sufficiente esattezza l’ora stabilita. Ma di questo state certi: l’ora si avvicina ed entro quest’era la nostra speranza verrà rivelata, e i Figli si desteranno. Lasceremo dunque desolate e in preda al male le terre dove dimoreranno? Dovranno essi camminare nell’oscurità mentre noi abbiamo luce? Dovranno essi chiamare Melkor signore mentre Manwë siede sul Taniquetil?».

Si fece silenzio e tutti guardarono Manwë, che per la precisione in quel momento più che sedere sul Taniquetil sedeva su una poltrona girevole, roteando su se stesso con aria beata e del tutto indifferente alla questione.

Allora tutti si voltarono di nuovo verso Yavanna, come se attendessero da lei delucidazioni, ma la Valië emise un suono strozzato, sbatté gli occhi, si guardò attorno stralunata e assunse di botto il colorito violaceo tipico di quando andava in overdose. La situazione tornò alla normalità non appena Aulë, avvezzo a questi momenti, ebbe rabbonito la consorte con un colpo di tagliacarte sulle gengive; i Valar poterono quindi scambiarsi le loro opinioni.

Tulkas gridò: «Sì… Le parole di Yavanna sono veritiere! Dobbiamo entrare subito in guerra contro Melkor, l’avvento dei Figli d’Ilúvatar s’avvicina!». Subito dopo, nel silenzio generale, aggiunse: «Mpphhffff… Ah ah ah ah, ah ah ah ah!».

Manwë, improvvisamente interessato, smise di roteare sulla sedia girevole e esclamò: «Sì, è giusto che ci opponiamo a Melkor, non ci siamo forse ripresi dalle nostre fatiche?».

Tutti annuirono, poco convinti; in realtà si chiedevano: «quali fatiche?», e soprattutto sospettavano di quest’improvvisa buona volontà di Manwë – che in realtà, nel profondo del suo cuore aspirava solo a menare Melkor, sogno sadico a cui non aveva mai rinunciato.

La decisione era incerta: a pochi Valar andava seriamente di alzarsi e andare incontro a morte sicura.

Manwë, sbuffando dell’indecisione dei suoi amici e cercando l’appoggio di qualcuno che alla parola «morte» avrebbe fatto le capriole di gioia, si rivolse alla sua destra.

«Mandos?» disse, «tu cosa ne pensi?».

Per sfortuna di Manwë e fortuna di tutti gli altri, Mandos quel giorno era di cattivo umore. Aveva mal di denti, gli si era rotto lo stereo e continuava a perdere a scopone scientifico, cose che basterebbero per rendere di cattivo umore anche una persona dall’indole più solare di Mandos. Egli si limitò a incrociare le braccia al petto e a guardare male il Re, senza proferire verbo.

I Valar, che da lui si erano aspettati le solite allegre manifestazioni di tendenza al suicidio, sbatterono gli occhi, sbigottiti. Manwë divenne corrucciato, ma lo chiamò di nuovo: «Mandos? Ho bisogno del tuo parere, sei il Giudice di Arda…».

Al che Mandos, che le aveva già particolarmente girate, si girò di scatto, ringhiò, abbaiò, morse un dito a Manwë e, incupito, disse: «Sì, che palle, in questa era arriveranno davvero i Figli d’Ilúvatar, d’accordo? Ma non è ancora il momento! Inoltre è destino che i Primogeniti giungano nella tenebra…»

«Che culo…» commentarono gli altri.

«…e che per prima cosa guardino le stelle».

«Poveracci…» mormorò Manwë, che odiava le stelle per questione di principio.

«Grande luce ci sarà per il loro declino!» annunciò Mandos, e già la profezia di un grande e rovinoso declino lo rallegrò un po’. «E sempre invocheranno Varda nel momento del bisogno» concluse. Varda era in brodo di giuggiole.

«Sentito? Gli Elfi invocheranno il mio nome nel momento del bisogno!» cinguettò la Regina delle Stelle battendosi le mani.

«Umph, dipende da cosa intende con ‘momento del bisogno’…» bofonchiò acido fra sé e sé Manwë, che in realtà c’era rimasto un po’ male ed era invidioso.

Allora Varda si allontanò dal consiglio, e guardò giù dalla cima del Taniquetil e vide la tenebra della Terra di Mezzo sotto le stelle innumerevoli, fioche e lontane.

E siccome Varda, pur essendo immensamente stupida, era una Valië per bene, pensò di fare un’opera buona, e creò nuove e più lucenti stelle per la venuta degli Elfi; così che ella, il cui nome fin dalle profondità del tempo e delle doglie di Eä fu Tintallë, Colei che Accende, venne in seguito chiamata dagli Elfi Elentári, Regina delle Stelle… anche se gli Elfi non la pensavano proprio così, in realtà.

Così Varda fece nuove stelle. All’inizio si mise d’impegno e fece le cose per bene, e creò Alcarinquë, Elemmírë, Wilwarin, Telumendil, Soronúmë, Anarríma e Menelcamar e tutte quelle costellazioni dai nomi impossibili che tanto avrebbero fatto felici i giovani Elfi studenti di geografia astronomica.

Poi però ci prese gusto, impazzì e creò in cielo la Stella Cometa, la Stella di Davide, le cinquantadue Stelle della bandiera americana, il cacciavite a Stella, i Pan di Stelle, Un Due Tre Stella, il Mercante di Stelle, Guerre Stellari, Van Gogh e la Notte Stellata, Ballando con le Stelle e le Stelle di Natale.

E infine alta nel Nord, come una sfida a Melkor, ella sospese la corona di sette possenti stelle, la Valacirca, la Falce dei Valar: in realtà questa altro non era che una falce e martello, ma effettivamente Melkor avrebbe potuto prenderla piuttosto male…

***

Si racconta che, proprio mentre Varda terminava le proprie fatiche, in quell’ora si destarono i Figli della Terra, i Primogeniti d’Ilúvatar.

Gli Elfi dormivano placidamente presso un lago chiamato Cuiviénen, quando le stelle di Varda splendettero luminose nel cielo.

Un Elfo che dormiva della grossa disteso all’ombra degli alberi, scattò a sedere di botto con il cuore in gola. Spinto da una conoscenza ancestrale, cominciò a cercare a tentoni accanto a sé la corda di una serranda, ma non la poté trovare. Egli si chiamava Imin.

«Ma…» bofonchiò, «…ah, porca Elbereth!».

Fu così che gli Elfi si destarono incazzati come bisce alla luce delle stelle, e come prima cosa maledirono il nome di Varda.

Vicino ad Imin dormivano altri due Elfi che, imbestialiti quanto lui, stavano imprecando contro tutti gli appellativi di Varda.

«Ah, Elbereth Giltoníel! Ti cadano gli occhi! Ah, Varda Elentári! Possa tuo marito riempirti di corna! Ah, Tintallë…» stava sibilando inviperito uno dei due Elfi, e avrebbe continuato ancora per molto tempo se Imin non l’avesse interrotto.

«Io sono Imin, tu come ti chiami?».

«Tata» rispose l’altro, e visto che sembrava già abbastanza preso male di suo, Imin evitò di ridere.

«E quello come si chiama?» chiese, indicando l’altro Elfo che se ne stava tutto corrucciato a sbadigliare e stropicciarsi gli occhi.

«Si chiama Enel», rispose Tata.

«Enel?» chiesero gli altri cinquecento Elfi, che nel frattempo si erano avvicinati. «Enel, hai detto? Allora è colpa sua!», esclamarono in coro.

Il povero Enel, che non capiva il nesso fra il suo nome e tutta quell’indesiderata luce, venne pesantemente preso a randellate dai primi Elfi che, ricordiamolo, erano un popolo gentile e aristocratico.

A lungo i Primogeniti dimorarono nella loro prima casa accanto all’acqua sotto le stelle; e incominciarono a creare una lingua e a dare nome a tutte le cose di cui si rendevano conto.

Chiamarono se stessi Quendi, che recenti studi hanno tradotto con «coloro che volevano solo dormire e non ci pensavano proprio a tutte quelle guerre»; e passavano il loro tempo cantando, chiacchierando (sì, prima erano dei gran chiacchieroni, è dopo che sono peggiorati…) e cercando di recuperare il sonno perduto.

E una volta capitò che Oromë cavalcasse verso oriente andando, disse lui, «a caccia», e che passasse sotto le ombre degli Orocarni, le Montagne dell’Est.

Poi, all’improvviso, Nahar emise un forte nitrito e restò immobile. Oromë sbuffò.

«No, Nahar, stupido cavallo, non qui…» disse, credendo che l’equino fosse impaziente di appagare gli istinti del padrone. «Cavallo goloso…» aggiunse poi con un sorriso malizioso, accarezzando il collo del destriero.

Nahar, che se avesse potuto parlare gliene avrebbe dette in tutte le lingue, restò zitto e muto. Quando però Oromë cominciò a sussurrargli nell’orecchio frasi oscene, il cavallo ebbe una crisi di nervi, disarcionò il suo cavaliere e scappò lontano verso la libertà.

Oromë ci restò malissimo. Rimase a lungo in silenzio ad osservare il suo ‘amato’ cavallo che si allontanava ad una velocità impressionante e gli parve, nel silenzio, di udire da lontano molte dolci voci che cantavano.

Fu così che finalmente i Valar trovarono, come per caso, coloro che avevano tanto a lungo atteso (mah, a me sembra che se ne siano fregati fino ad ora. N.d.A. ) e, guardando gli Elfi, Oromë fu colto da meraviglia.

Tuttavia l’istinto dello scassapalle che c’era in lui ebbe il sopravvento sulla meraviglia. Il Vala si slacciò dal collo Valaróma, il suo grande corno da caccia bianco e argentato; in verità egli non l’aveva mai usato per cacciare (la caccia era tutta una messinscena per coprire le sue vere attività), ma in quel momento esso gli parve una bellissima cosa.

Oromë guardò gli Elfi. Alcuni se ne stavano sulle rive del lago a guardare il riflesso delle stelle sull’acqua, ma la maggior parte sembrava felicemente assopita.

Il Vala si portò il corno alle labbra e soffiò.

«EEEEEK!!!».

«Di nuovo?».

«Ma basta!».

«Avanti, chi è l’imbecille che s’è permesso…».

«Ah, Elbereth Giltoníel!» imprecò qualcuno. Varda questa volta non c’entrava niente, ma ormai l’abitudine di maledirla era entrata nel folklore elfico.

Oromë rideva divertito nascosto dietro un cespuglio: lo scherzo gli era riuscito!

Accarezzando il corno, decise di comportarsi da persona seria e ancora con un mezzo ghigno si diresse sulle sponde di Cuiviénen, dove mille incazzosissimi Elfi stavano cercando il colpevole di quel gran casino.

«Buondì» disse Oromë agitando la manina. Gli Elfi smisero subito di azzuffarsi e si voltarono verso il Vala. Un Elfo, Finwë, che era di mente acuta, scorse il corno d’argento d’Oromë e capì tutto.

«Crepa» borbottò a mò di saluto.

«Come?» chiese Oromë, che era duro d’orecchie.

« ‘Crepa’… in Alto Elfico significa ‘Ave a te, Grande Signore delle Praterie’ » buttò lì Finwë con la nonchalance di un professionista.

«Ah!» manco a dirlo, il Vala se la bevve facile facile. Poi si soffermò un poco a guardare da vicino gli Elfi.

Al principio, essi erano più forti e più grandi di quanto non siano divenuti in seguito e, a dispetto di quanto riferiscono le leggende, sì, erano indubbiamente anche molto più belli.

Gli Elfi del Signore degli Anelli fanno tutti schifo, avanti… avete presente Celeborn? Ed Elrond? E dei poveri Elrohir ed Elladan che mi dite? Si salva solo Legolas.

Non c’è dubbio che in principio gli Elfi dovessero essere molto più belli di questi, ma poi la natura s’è confusa e Peter Jackson ha dovuto adeguarsi. Beh, ma non divaghiamo.

Dunque, c’era Oromë che, disarcionato e abbandonato, si trovava di fronte questo gran numero di belle creature attraenti, che ora lo guardavano, alcuni interessati, altri, come Finwë, con un cipiglio decisamente torvo. Però erano belli. Molto belli. Così, finì che il Vala fu colto dal desiderio di… uh, condurre con sé gli Elfi a Valinor.

«Perché non venite a Valinor con me? Sapete, c’è l’aria buona, gli alberi luminosi e tutto il resto…» disse, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro e che trasudava lussuria.

Gli Elfi, nessuno escluso, aggrottarono le sopracciglia e fecero un passo indietro. Ci fo un «no, grazie» corale.

«Perché no?» chiese Oromë, sempre sorridendo e annuendo con decisione.

Un Elfo chiamato Ingwë fece un passo avanti: «La mamma non vuole che andiamo con gli sconosciuti», disse con aria impassibile. Alcuni ridacchiarono.

A questo punto Oromë cominciò a sentirsi preso per i fondelli e il suo sorriso si fece più stretto.

«Ma… sarebbe folle da parte vostra rifiutare l’invito dei Valar! Dai, che avete da perdere?».

«La faccia… e speriamo nient’altro» borbottò qualcuno allontanandosi discretamente da Oromë, facendo bene attenzione a non dargli le spalle.

Vedendo che la situazione volgeva a suo sfavore, il Vala decise di tentare tutte le sue carte.

«Ma a Valinor non si muore mai!» esclamò.

«Ma tanto noi siamo immortali» notarono gli Elfi.

«A Valinor c’è tanta luce!».

«Per carità, abbiamo avuto una brutta esperienza con la luce…».

«Ma, umh, a Valinor sarete al sicuro dalle insidie di Melkor…» sbuffò Oromë, che non sapeva più cosa tentare.

«E chi è Melkor?» risposero gli Elfi con una tranquillità disarmante.

«Ah… insomma, a Valinor… si vende erba!».

Silenzio.

Finwë si fece avanti: «Beh, potremmo farci un pensierino…».

Oromë esultò fra sé e sé: carne fresca per tutti!

Alla fine quasi tutti gli Elfi si convinsero a fare marcia verso Valinor, ma alcuni sospettavano ancora di Oromë. Diffidavano infatti dagli sconosciuti da quando alcuni Elfi erano stati irretiti dalle spie di Melkor e non erano più tornati.

Infatti un terrore sconosciuto si aggirava fra le pianure della Terra di Mezzo; ed esso altri non era che Silviolo, il Nano malefico fuggito dalle fucine di Aulë e passato al lato oscuro. Costui era la spia preferita di Melkor, che lo sguinzagliava per le lande desolate della Terra di Mezzo in cerca di vittime e di alleati.

Tutti gli Elfi che, ahimè, si erano imbattuti in Silviolo e nel suo lifting avevano finito con l’impazzire, esasperati da continui discorsi efficacissimi sull’importanza di essere di Forza Italia, e alla fine le sue vittime subivano anche un processo d’involuzione indotta, facendosi più brutti e più scemi. Fu semplicemente così che Melkor riuscì a generare l’immonda razza degli Orchi.

Alcuni Elfi, dunque, memori degl’inganni di Silviolo (e anche sospettosi delle intenzioni del nuovo arrivato, per la verità) erano piuttosto restii ad accettare l’invito.

Colsero dunque due piccioni con una fava e dissero ad Oromë che l’avrebbero seguito solo se i Valar avessero fatto qualcosa per sgominare il terrore scatenato dal Nano malvagio.

Oromë non chiedeva di meglio.

Il Vala si soffermò alquanto fra gli Elfi, poi tornò rapidamente (per quel che glielo consentivano le sue gambe prive di cavalcatura) verso Valinor attraverso terre e mari onde recare ai Valar la notizia.

«Manwë! Manwë!» urlava Oromë lungo le vie della città. «Ho grandi novità!».

Manwë, che in quel momento stava facendo una gara di sudoku contro Aulë – e perdeva decisamente – fu ben lieto di avere un pretesto per svignarsela.

«Dimmi, Oromë. Che cos’hai visto? Cosa ti rende tanto inquieto? E… Oromë, ma dov’è il tuo cavallo?» chiese allora, notando l’assenza del millenario compagno del Vala.

«Nahar… non ne voglio parlare!» rispose Oromë con un tono di voce più alto del dovuto. «Manwë… Ho visto gli Elfi!» esclamò sorridendo.

«Sì… e mia moglie ha visto gli asini volanti, ma quello è normale…» bofonchiò Aulë stiracchiandosi.

«No, è vero!» s’impose Oromë, deluso. «Manwë, ero… uh, a caccia, a Cuiviénen, ed è pieno di Elfi!» dichiarò con l’aria di uno che ha trovato il paese dei balocchi.

«Ah… sul serio? Sì, in effetti stamattina Mandos mi aveva accennato qualcosa del genere, era tutto contento perché dice che ha sognato sangue… comunque…» rispose pensieroso il Re, «E tu cosa hai fatto, Oromë?».

Il Vala aprì la bocca per raccontare lo scherzo del corno, ma poi ebbe il buon senso di ripensarci. «Io… li ho invitati a venire a Valinor!».

«Bravo!» sentenziò Manwë soddisfatto. Nuovi cittadini, nuove tasse! «E loro?».

«Emh… non penso che si siano fidati tanto…» rispose il Vala in imbarazzo.

«Perché?».

«Li avrai mica guardati con quella tua faccia che ti fa sembrare un ubriacone davanti ad una damigiana di vino, eh Oromë?» chiese preoccupato Aulë.

«No! Io, no, mai!» rispose l’altro con una fretta quanto mai eloquente. «No, giuro… è che hanno paura di Melkor. Dicono che non si fidano degli sconosciuti».

Manwë sbuffò e alzò le braccia al cielo: «Ah, Melkor, Melkor, ma che palle, sempre lui è! Che ha fatto stavolta?».

«Manda gli emissari, pare voglia convincere gli Elfi a passare a Forza Italia…».

Il Re andò alla finestra e rimase in silenzio. Poi si volse verso Aulë: «Chiama Mandos, chiedigli se secondo lui stavolta è il caso di entrare in guerra e… no, Aulë, non fare quella faccia!... e fammi arrivare la risposta. Vai.».

Aulë, che era un pacifico Vala tutto casa e officina, si allontanò quasi piangendo, mentre Oromë andava a cercarsi una nuova cavalcatura.

Dopo che Aulë gli ebbe riferito il ‘sì’ entusiasta di Mandos, Manwë sedette a lungo pensieroso sul water… sul Taniquetil, e cercò il consiglio d’Ilúvatar, che però in quel momento teneva la segreteria telefonica. Allora Manwë ridiscese a Valinor (dal water! E ci mise cinque giorni. I water a Valinor sono molto alti… N.d.A.) e convocò i Valar all’Anello del Destino.

«Ma poi perché proprio ‘Anello del Destino’, è un nome di merda e porta sfiga…» si lamentava a bassa voce Manwë, che aveva un cattivo presentimento.

«Toh, c’è pure il panzone…» Ulmo era giunto dal Mare Esterno con tutte le sue carriole di lardo. Quando prese posto, gli si fece il vuoto attorno. Ci furono delle basse risate. Qualcuno si soffiò il naso. Oromë sbuffò in modo molto equino.

Allora Manwë prese la parola e disse ai Valar: «Questo è il consiglio che Ilúvatar ha posto nel mio cuore: che noi si riprenda il dominio di Arda, a qualsiasi prezzo, e che si liberino gli Elfi dall’ombra di Melkor».

Tutti i presenti ammutolirono, non tanto per la profondità di quanto detto, ma soprattutto perché era raro che Manwë usasse nei suoi discorsi qualcosa che andava oltre il soggetto, il verbo e il complemento.

Per quanto riguarda Manwë, egli si preparava quel discorso da secoli, e metà l’aveva copiata dai fumetti. Inoltre era una cazzata il riferimento a Ilúvatar, ma sapeva che avrebbe fatto scena.

Ad ogni modo Tulkas fu lieto di tale decisione - essendo un povero scemo buono solo a dare legnate - , ma Aulë se ne rattristò, prevedendo le ferite che sarebbero derivate al mondo (anche se lui si preoccupava più della sua artrite) da quello scontro. Mandos, poi, stava praticamente ballando di gioia.

Fu così che i Valar si mossero per andare in guerra. Gente che cantava, gente che rideva, gente che ogni due passi scuoteva le spalle e sospirava, gente che malediva Manwë…

Beh, insomma, in questo clima di leggerezza generale i Valar andarono ad assalire e distruggere le roccaforti del nemico.

Mai Melkor dimenticò che questa guerra venne scatenata per amore degli Elfi e che furono essi la causa della sua caduta. Eppure gli Elfi - poveri ‘nnuccenti - non ebbero alcuna parte in quei fatti e poco sanno della cavalcata della potenza dell’Occidente contro il Nord al principio dei loro giorni.

Poi i Valar passarono oltre la Terra di Mezzo e posero la guardia su Cuiviénen; e dunque i Quendi non seppero mai nulla dalla grande Battaglia delle Potenze, salvo che la Terra tremò e gemette sotto di loro, e che le acque si agitarono, e che nel nord si accesero bagliori come di fuochi immani.

A questo punto viene da chiedersi: ma che schifo di guardia fecero i Valar a Cuivienén?! Si sentiva tutto!

Boh.

***

Ad Utumno, Melkor era nel suo lettino che mandava giù lentamente un Triaminic. Appoggiò la testa al cuscino e cercò di dormire, ma lo sguardo gli cadde su un foglietto pieno di schemi che penzolava moscio dalla parete. Gemette e si coprì il volto con il piumone, torcendosi nel letto.

Con un gesto secco si scosse le coperte di dosso e si mise a sedere prendendosi la testa fra le mani. Era in queste condizioni dall’ultima crisi di nervi e ancora non accennava a migliorare!

Proprio ora che i Valar s’erano decisi a dargli del filo da torcere… dopo millenni di nullafacenza, poi!

Melkor scosse il capo, scese dal letto, infilò le sue ciabattine scozzesi a prese a girare nervosamente su e giù per camera sua.

Questa situazione non gli piaceva. Da quando il sistema nervoso l’aveva abbandonato per lidi migliori, l’Oscuro Signore si era trovato costretto a lasciare il comando di tutto a Sauron… e in mano sua stava degenerando tutto velocissimamente.

Avrebbe preferito di gran lunga affidare la gestione dei suoi affari al fedele Silviolo, ma qualcuno gliel’aveva fatto trovare appeso a testa in giù da una grondaia. Era un’offesa intollerabile, e il Nano, indignato, s’era rifiutato di collaborare, ritirandosi nelle sue stanze con un aspro «mi consenta!».

Come se non bastasse, Melkor non riusciva più ad elaborare nessuno dei suoi subdoli e contorti piani di conquista del mondo che tanto lo avevano infervorato in passato. Il medico che, povero audace, gli aveva consigliato una cura a base di vitamine, una vacanza e una terapia psichiatrica, era morto ammazzato.

«Tutto questo… mi esaspera!» stridette il Vala Oscuro, fermandosi al centro della stanza e tirandosi quei quattro capelli che gli rimanevano. Era lì che rifletteva sulla miseria della sua condizione, quando dei violenti colpi si abbatterono sulla sua porta.

«Patrone! Aprite! Patrone!».

Gli occhi di Melkor si iniettarono di sangue.

«Sauron… è aperto, Sauron… E’… aperto…» sputacchiò il Vala.

«Oh» bofonchiò Sauron, dopodichè entro, si sistemò la coppola, diede un paio di colpetti al panciotto, si mise sull’attenti e declamò: «Patrone, abbiamo un problema, abbiamo».

Melkor, mani ai capelli, occhi grondanti sangue, ghigno isterico, pigiama e ciabatte scozzesi, si voltò appena verso il luogotenente. Il suo collo emise un ‘griiin’ molto udibile.

«Sì, Sauron… lo so che hai un problema, ma fosse solo uno…» rispose, sfogando il suo isterismo sul sottoposto, che parve non capire.

«No, no, Patrone, dissi che ‘abbiamo’ un problema; è una cosa collettiva, Patrone, di tutti, una cosa grave, sissì, grave assai» enunciò Sauron serissimo.

Lo sguardo pazzo del Vala - che aveva l’obiettivo di fare tacere Sauron, possibilmente per sempre - parve invece indurre il luogotenente a proseguire sullo stesso tono.

«Questa ingiuria è, Patrone mio, ingiuria gravissima! Ci stanno entrando dentro casa, quei fetenti; ma io dico d’ammazzarli tutti, che noi non baciamo le mani a nessuno…».

A quel punto Melkor si morse le labbra, serrò i pugni, i capelli gli divennero dritti e fumanti sulla testa, gli occhi gli fuoriuscirono di sei centimetri e mezzo dal cranio e le ciabattine scozzesi gli presero fuoco. Sauron scappò e lasciò il suo patrone in preda ad una crisi isterico-epilettica, che rideva, piangeva, faceva i versi degli animali e cantava Tiziano Ferro alternativamente.

Fu in questo stato che mezz’ora dopo i Valar lo ritrovarono. Tulkas, che era già fornito di cintura da wrestling ci rimase male quando gli fu detto che non era necessario picchiare il nemico, e Manwë, piuttosto che soddisfazione, provò quasi pena. Aulë, che fino a quel momento aveva già recitato dodici rosari – ignorando, fra l’altro, cosa fosse di preciso un rosario - tirò un sospiro di sollievo e si asciugò la fronte con un fazzoletto; Mandos invece se ne stava un po’ indietro tutto contento a contare i cadaveri dei nemici.

Così, terminata la Battaglia, i Valar legarono Melkor con una camicia di forza chiamata Angainor, cucita da Aulë – che nel tempo libero si dilettava di cucito, sì - , lo fecero prigioniero e lo condussero a Valinor. Fu una camminata lunga e penosa, perché tutti erano stanchi e perché nessuno riuscì in nessuno modo a fare smettere Melkor di cantare a squarciagola Tiziano Ferro.

Arrivati a Valinor, Manwë insistette per portare subito Melkor all’Anello del Destino.

«Ma… neanche il tempo di un pediluvio?» gemette Aulë.

«Ma io ho lasciato la lavatrice in moto…».

«Ma io devo dar da mangiare al cavallo…».

«No!» ribattè il Re. «Anello del Destino ho detto e Anello del Destino sarà».

Tutti obbedirono molto di malavoglia, anche perché Melkor alla parola ‘anello’ diede di matto e solo la potentissima camicia di forza impedì che mordesse gli sventurati che lo trascinavano.

Una volta che fu condotto a destinazione, venne bendato e legato mani e piedi – qualcuno per sicurezza gli mise anche una mela cotogna in bocca; Manwë gli si mise davanti e cominciò a leggere una lunghissima pergamena.

«Dunque, dunque… che cos’abbiamo qui? Truffa, frode, furto, assassinio, oltraggio a pubblico ufficiale, corruzione, rapina a mano armata, stupro, violenza sugli anziani, scasso di automobile, falsificazione, taccheggio, colesterolo alto, un tre in latino del dodici ottobre, le scarpe slacciate, la forfora, hai rubato le caramelle ai bambini…» elencò il Re mentre il ghigno sulla sua faccia si allargava sempre di più.

Melkor, in un momento di lucidità, si rese conto che le cose si stavano mettendo piuttosto male. Fece appello alle sue ultime forze, sputò la mela cotogna e si gettò ai piedi di Manwë invocando pietà, e facendo nel frattempo bene attenzione a pestargli i numerosi calli.

«Dai… non ti fa pena? Poverino…» intervenne Varda, Valië dal cuore d’oro e dal cervello di sughero.

«No, certe volte mi fai più pena tu, guarda…» rispose acidamente Manwë tentando di scrollarsi il nemico di dosso, che nel frattempo era caduto di nuovo preda dello stordimento – a causa forse anche del mortale odore dei piedi del Re.

Nel frattempo Aulë seguiva con lo sguardo una mosca che gli svolazzava attorno alla testa e gran parte dei Valar sbadigliava vistosamente.

«E avanti, e su, e basta…».

«Eh, l’abbiamo capito, sbattilo in galera e non se ne parli più…».

«Bah, quanto ci sta marciando…».

«Dai che abbiamo sonno…».

Manwë, irritato per l’interruzione, riavvolse la pergamena – che era bianca, s’era inventato tutto lui al momento, tanto non lo ascoltava nessuno – e si rivolse al nemico.

«E sia. In prigione a Mandos per tre ere, poi vediamo se ti mandano in cassazione» decretò.

«A Mandos?» saltò su Melkor, terrorizzato. «Mi vuoi mandare nelle Aule di Mandos? Ma Mandos è pazzo!» urlò, «E se mi fa del male?».

«Perché, ha l’aria di qualcuno che fa del male alla gente?» chiese Manwë con un’innocenza ben poco credibile. Mandos, alle sue spalle, saltellava da un piede all’altro brandendo una grande falce insanguinata.

«Su… dai… pòrtatelo…» ordinò il Re. Mandos, tutto contento, afferrò un lembo della camicia di forza di Melkor e se lo trascinò canticchiando fino alle sue prigioni mentre il prigioniero, ormai psichicamente e moralmente distrutto, si lasciava trainare con un sorriso assente cantando con un filo di voce ‘London bridge is falling down’.

Dopo che ebbero sconfitto ed imprigionato Melkor, dunque, i Valar convocarono gli Elfi a Valinor affinché vi si radunassero ai piedi delle Potenze nella luce sempiterna degli Alberi; e Mandos ruppe il proprio silenzio e disse: «Così è destino che sia».

Da questa convocazione derivarono però molte delle sciagure che si verificarono in seguito – ed era proprio questo a rendere Mandos così allegro.

Quando si trattò di scegliere un volontario per guidare agli Elfi lungo il viaggio per Valinor, Oromë non se lo fece ripetere due volte e già in sella al cavallo partì a rotta di collo per Cuiviénen. Guardandolo allontanarsi, i Valar non ebbero più dubbi sulle reali intenzioni di Oromë nei confronti degli Elfi…

«Poveri ‘nnuccenti…» commentò tristemente Lórien, che spesso si era dovuto prendere cura di Nahar quando Oromë ci andava giù troppo pesante. «Vado a preparare nuovi posti letto nei Giardini, temo che serviranno…», e si allontanò.

Alcuni Elfi sulle rive di Cuiviénen, si stavano girando i pollici, dicendosi cose tristi e malinconiche.

«Com’è breve la bellezza…».

«Eh, sì…».

«Quant’è triste essere immortali…».

«Eh, già…».

«Quant’è lunga e vuota quest’esistenza…».

«Uhu, proprio vero…».

«No, ma che palle!» sbottò all’improvviso Finwë, che passava di là per caso. «Questa vita è uno strazio. Le stelle e il lago; il lago e le stelle; le stelle, il lago e il prato… ma basta, no?» sbuffò buttandosi a sedere.

«Sì, era quello che stavamo dicendo anche noi in termini più romantici, Finwë», commentò un Elfo. Gli altri annuirono.

«Perché non ci troviamo qualcosa da fare?» propose un Elfo chiamato Olwë.

«Ma dove te lo devi trovare qualcosa da fare, che qua hanno tutti la vitalità di un pensionato, gioia mia?» abbaiò Finwë che, come sappiamo, in futuro avrebbe trasmesso questo carattere di merda a tutta la sua discendenza.

«Era solo una proposta» bofonchiò l’altro.

Passarono alcuni istanti di silenzio, durante i quali si udiva solo lo stormir delle fronde e il gorgogliare dell’acqua sulle pietre, suoni di cui gli Elfi ne avevano già fin sopra la punta delle orecchie – e le orecchie degli Elfi sono anche lunghe!

«Ma alla fine se n’è saputo più niente di quello che ci doveva portare nella Terra Promessa, là?» chiese qualcuno in tono ironico.

«Amico mio, mettiti pure il cuore in pace, che quello ci ha bidonati» decretò Finwë facendo ‘ciao ciao’ all’orizzonte con la manina, pratico come sempre.

«In effetti non mi è mai piaciuto» disse Ingwë in tono grave. «Dico, avete visto con che faccia ci guardava? Non vorrei essere malpensante, ma sembrava proprio che…».

Proprio mentre stava finendo la frase, un fragoroso scalpicciar di zoccoli si intromise prepotentemente nella sequenza ‘strormir di fronde-gorgoliare d’acqua’.

«Ma che casino che fa, è uno solo e sembra la Cavalleria Rusticana…» disse secco Finwë mentre il gruppetto di Elfi si alzava dalle rive del lago.

Poco dopo Oromë giunse davanti agli Elfi, con una faccia stravolta che forse i più ottimisti avrebbero attribuito alla lunga cavalcata, ma che assunse ben altro significato agli occhi dei Quendi.

Oromë li guardò ad uno ad uno stralunato e col fiatone, poi parlò.

«Allora, cominciamo ad andare? Avete già avvertito le vostre stirpi? Più siamo meglio è!».

«Al mio ‘tre’ scappiamo» sussurrò a denti stretti Ingwë dando di gomito a Finwë.

«No, lui corre più veloce…» gli rispose sibilando l’altro, che continuava a tenere d’occhio Oromë con un sorriso a trentadue denti assolutamente poco credibile.

Olwë parlò sforzandosi di mantenere un’aria tranquilla, ma il modo in cui si torceva le mani lo tradiva: «Uh, emh, sì, hai ragione. Dobbiamo andare ad avvisare gli altri che sei arrivato e che dobbiamo prepararci alla partenza. Andiamo… andiamo!» disse sorridendo e spingendo davanti a sé gli altri, che annuivano con gravità.

«Tornate presto!» li salutò il Vala, che aveva quasi una paresi facciale e continuava a sorridere in una maniera che definire «terrificante» è poco.

«Contaci!» risposero gli Elfi, falsi come una carta da sei euro. Quindi cercarono di allontanarsi, ma sfortunatamente altri Elfi, incuriositi dal rumore, si erano già radunati lì attorno.

«Oh! E’ tornato un Signore dell’Occidente!» disse uno dei Vanyar, che era la stirpe d’Ingwë.

«Egli è uno di coloro che ci hanno liberato dal terrore di Silviolo! Onoriamolo!» esclamarono altri.

«Egli è giunto per portarci con sé al di là del Grande Mare!» urlarono eccitati molti Elfi Teleri, la stirpe di Olwë e di suo fratello Elwë.

«Egli è giunto per condurci nelle Terre Beate!» fu l’acclamazione generale. «Seguiamolo!».

Gran parte degli Elfi dunque, poveri cuori innocenti, era ben contenta di seguire Oromë in Occidente. Ma c’era una fazione di Elfi che se ne stava dietro a guardare la scena con occhio critico, scuotendo la testa. Essi erano i Noldor, la stirpe di Finwë; la razza di Elfi più acida, malfidente, asociale e pericolosa di tutti i tempi.

Oromë ebbe il suo bel daffare a convincere i Noldor dell’onestà delle proprie intenzioni.

«Ma perché, do l’impressione di essere un Vala inaffidabile, scusatemi?».

«Bah guarda, non lo so, ma io non ti seguo finché non fai sparire quel corno, che non si sa mai…» sentenziò Finwë. I Noldor annuirono.

«Tutto qua? E che ci voleva, ecco, ora possiamo andare…».

«No, non ti seccare ma io e la mia schiera preferiamo tenerci un po’ dietro, sai, ci dà fastidio il rumore…».

«E va bene, ma ogni tanto dovrò pure avvicinarmi per sapere se va tutto bene…».

«Oh, sono sicuro che tra la schiera d’Ingwë ci sarà qualche ambasciatore di buona volontà che lo farà al tuo posto…».

«Oh… ah, basta, porco Melkor; andiamo!».

Fu così che gli Elfi intrapresero dunque una grande marcia dalle loro prime dimore in oriente; molti tuttavia rifiutarono l’invito, preferendo la luce delle stelle e i vasti spazi della Terra di Mezzo alle luci degli Alberi; e costoro sono gli Avari, detti anche ‘gli Spilorci’, che come dimostra il loro nome, si rifiutarono di muoversi giacché spaventati dalle spese di viaggio. Rimasero dunque lungo le rive di Cuiviénen per millenni, e in questo modo si risparmiarono tanti e tali casini che talvolta agli Elfi che seguirono Oromë viene ancora da chiedersi: «Ma chi ce l’ha fatto fare?».

Lunga e lenta fu la marcia degli Eldar nell’ovest, giacchè la Terra di Mezzo si estendeva per leghe innumerevoli, e aspre e non battute. Né gli Eldar volevano affrettarsi perché colmi di meraviglia per tutto quanto vedevano, e soprattutto anche perché molti cominciavano a pentirsene e a provare invidia per gli Spilorci, che da lontano li salutavano facendo ‘ciao ciao’ col fazzolettino; e benché tutti volessero migrare, molti temevano, più di quanto non avessero sperato, la fine del viaggio (grazie, i Noldor avevano sparso la voce che Oromë è un pazzo violentatore. N.d.A.).

Così, ogniqualvolta Oromë si allontanava, di tanto in tanto richiamato da altre incombenze (doveva fare la pipì. N.d.A.), gli Elfi sostavano senza più procedere – avevano paura di muoversi perché temevano che il Vala facesse le imboscate - fino a che egli non ritornava a guidarli.

E accadde, dopo molti anni di siffatto viaggio, che gli Eldar entrassero in una foresta e giungessero a un grande fiume, più ampio di quanti mai ne avessero visti.

«Oooooh…» dissero i Teleri, che come vedevano l’acqua diventavano cretini.

«Questo» esclamò allora Oromë, felice di poter fare bella figura, «è il grande fiume Anduin!».

Mentre gli Elfi e il Vala stavano osservando lo scorrere del fiume, davanti a loro, su una piccola imbarcazione, passò il corpo di un soldato con un corno bianco spezzato in due sul petto.

«OOOOH!» esclamarono a questo punto tutti gli Elfi, che non avevano mai visto un Uomo, e soprattutto non avevano mai visto un morto.

«Ma…» bofonchiò Oromë cercando di raccapezzarsi. «Ma… che cosa…?».

In quel momento, su una seconda imbarcazione, un uomo corpulento con un cappello da baseball, una camicia a quadri, occhiali da vista e megafono passò rapidamente davanti a loro, remando affannosamente.

«Torna qui, Sean, torna qui, stupido ragazzo!... Scusate, ragazzi, mentre giravamo l’ultima scena della Compagnia dell’Anello la barchetta funebre di Boromir c’è scappata di mano e… ah, le rapide! PRENDETELO!».

Una terza imbarcazione con sopra un Uomo molto trascurato con i capelli lunghi, un Nano con la barba rossa e un Elfo dalle lunghe chiome bionde passò sfrecciando accanto a quella dell’uomo corpulento.

«Scusate… scusate ancora… ce ne andiamo subito!» disse l’uomo con un sorriso affabile.

«N-no… nessun problema, si figuri…» rispose Oromë, che a questo punto avrebbe avuto qualcosa da raccontare di ritorno a Valinor.

Allora si levò uno dalla schiera di Olwë, Lenwë era il suo nome. Egli prese la parola e disse: «E dopo questa, signori miei, io me ne vado. Mi do all’eremitaggio. Qualcuno mi vuole seguire?».

Milleottocento Elfi alzarono la mano e seguirono Lenwë lungo il sud del grande fiume, e la loro gente non ne ebbe più notizia per molti e molti anni. Costoro erano i Nandor e divennero un popolo a sé; e la conoscenza che essi avevano delle cose viventi, alberi ed erbe, uccelli e animali terrestri, era maggiore di quella posseduta da tutti gli altri Elfi.

In anni successivi, Denethor, figlio di Lenwë, alla fine riprese il cammino verso ovest e…

«…Denethor?» esclamò a questo punto il professor Tolkien, alzando lo sguardo da ciò che stava scrivendo.

«Denethor figlio di Lenwë?! Ma che c’entra?» si disse, mordicchiando la matita.

«Ma poi ‘Denethor’ non l’avevo già messo da qualche altra parte?» borbottò il professore cominciando a sfogliare i suoi appunti. Qualcuno gli bussò sulla spalla.

«Sì, cosa…? Oh…» il professore ammutolì. Davanti a lui un anziano signore con lunghi capelli grigi e l’Albero di Gondor ricamato sulla veste lo guardava male, cercando di applicarsi due orecchie a punta di plastica sulle vere orecchie.

«Allora, come vado come Elfo?» sbottò.

«Oh.. emh, perdonami! E’ che, insomma, ho scritto più di diecimila pagine in tutto, non è che mi posso ricordare tutti i nomi!» concluse, e accigliato riprese a scrivere.

…Alla lunga, i Vanyar e i Noldor giunsero al di là degli Ered Luin, i Monti Azzurri; e le primissime compagnie superarono la Valle del Sirion e discesero alle rive del Grande Mare tra Drengist e la Baia di Balar.

Solo che alcuni Elfi Ilúvatar li aveva fatti male e gli erano venuti idrofobi, per cui questi alla vista del Grande Mare si fecero un calcolo e ci ripensarono in extremis.

Poi Oromë, per motivi noti solo al professor Tolkien, se ne andò per tornare a Valinor a cercare il consiglio di Manwë, e li lasciò.

Ma fu un bene, perché in questo modo gli Elfi poterono cessare di preoccuparsi per la propria incolumità e, tranquillizzati, fecero un sacco di strada con un peso di meno nel cuore.

Nel prossimo capitolo parleremo di come uno di loro, tale Elwë Singollo, fece un favore a tutti e soprattutto a Finwë sparendo dalla circolazione per l’eternità.

Ma per ora ci possiamo fermare, che dodici pagine sono tante e io devo andare in camera mia a chiedere perdono al Maestro per quest’affronto che gli sto facendo.


***

Note:

Ehr… Buon Anno a tutti! ^__^

Sì, ok, lo so. Alla fine dello scorso capitolo avevo promesso che avrei aggiornato in tempi dignitosi, e giuro (giurin giuretto) che ci ho provato!

Ma che vi posso dire? Evidentemente gli dèi non vogliono che io aggiorni, e me lo impediscono in così tanti modi che starne a parlare qui stonerebbe col tono comico del De Ignoto Silmarillion.

Ad ogni modo, miei cari: piaciuto il capitolo? A me piace parecchio, anche se in certi punti mi sono messa a delirare (l’apparizione di Peter Jackson mi lascia ancora parecchio dubbiosa, ma beh…).

Vi lascio ringraziandovi per tutte le bellissime recensioni che mi lasciate (le leggo un sacco di volte al giorno, mi rendono così felice!), e vi auguro un bel 2007.

Per quel che riguarda la fic… abbiate fiducia, Milako non si arrende mai e a poco a poco la finirà! :D

Baci, ragazzi. A presto!

   
 
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