~egoismo
I
was there when they took all the people
I was alone in a mental
revine
You breathe life when
you break the walls down
You breathe life when
you set me free
Where is my head
Where are my bones
Why are my days so far
from home?
Where is my head
Where are my bones
Can you save me from
myself?
Bush, Head full of
ghosts.
Cassandra
passeggiava avanti e indietro per la camera quasi del tutto buia,
metodica. Aspettava. Aspettava di prendere una decisione. Dopo qualche
ora, si era finalmente calmata.
Il cadavere pareva essere lì da giorni. Cassie, una volta
prosciugata la sua energia, lo vedeva grigio. Prima era splendente.
Cosa mi è
successo?, pensò, fermandosi di colpo. La luce
fioca rendeva la situazione ancora più inquietante e
spettrale di quanto già non fosse. Le ombre del tavolo e
della libreria si allungavano a dismisura, divenendo orribili mostri
pronti a balzarle addosso, le lunghe braccia non aspettavano altro che
acchiapparla e trascinarla con loro. Che cos’hai fatto, che
cos’hai fatto, le sussurravano
nell’orecchio. Sei
una creatura del Demonio. Come noi. Vieni da noi, Cassie. Vieni.
- Non sono come voi! - urlò la ragazza alle ombre,
mentre sentiva le lacrime scenderle lungo le guance e un groppo salirle
in gola.
L’uomo era sdraiato prono sul parquet di legno scuro, con le
gambe scomposte; se non fosse stato per l’odore di muffa,
sarebbe potuto apparire semplicemente addormentato. Ma quando
sollevò il capo mostrò due orbite vuote da cui
colava un liquido nero. - Sì, tu sei un’ombra,
venuta per nutrirti delle persone vive - sussurrò, una voce
strana, gutturale, rauca. Non di questo mondo.
Cassandra urlò. Usò tutto il fiato che aveva in
corpo, un po’ per paura di un morto che le stava parlando, un
po’ per liberarsi di tutta la sua frustrazione,
dell’odio verso se stessa, verso le vicende degli ultimi
tempi. Calciò la testa dell’uomo ed
uscì dalla stanza, respirando affannosamente.
Probabilmente era stata un’allucinazione. Tutto una finzione.
Presto si sarebbe svegliata nella stanza bianca accecante di qualche
ospedale, con l’odore di disinfettante che in quel momento
avrebbe potuto anche rassicurarla. Chiuse gli occhi, se li
sfregò e poi incrociò le dita; ma quando li
riaprì si ritrovò davanti il corridoio di qualcun
altro, con la riproduzione di un Van Gogh in una cornice dorata e un
termosifone verde acqua sull’intonaco bianco. Chiuse a chiave
la porta dietro di sé e poi si appoggiò alle
proprie ginocchia con le mani, portando il viso verso il basso, a
fissare le venature del parquet. Si sforzò di
tranquillizzarsi. Recitò due Ave Maria, a bassa voce,
così velocemente che lei stessa non distingueva le parole.
Sfiorò il rosario che portava al collo, come per cercare
conforto; poi lo strappò via e lo lanciò contro
il muro, piena di rabbia.
- Io credevo in te! Perché mi hai fatto questo? -
urlò, mentre esso spariva nel termosifone e lei scivolava a
terra, in lacrime. Le guance bruciavano, ma a parte il dolore interno,
il senso di colpa che niente poteva più cancellare, si
sentiva benissimo. L’energia del padrone di casa
l’aveva invasa di un senso di completezza unico. Non che le
servisse. Era un semplice contorno per lei.
Ma cos’era, lei?
Cassandra fu colpita da questa incertezza. Sapeva cos’era
stata, ma non cosa fosse in quel momento. Si sentiva sperduta.
Aveva ucciso così tante persone.
Ed era così giovane. Così normale, fino a
pochi giorni prima.
Una diciassettenne, una semplice liceale con gli occhi blu e i capelli
neri come la notte più buia, con una frangetta piena,
smozzicata, che tentava invano di rendere aggressivo il suo viso tondo,
quasi infantile.
Ed ora? Un’assassina, una figlia del Demonio,
un essere sovrannaturale.
Se solo non fosse andata all’apertura del negozio di Arti
Magiche.
***
Era un
martedì pomeriggio lievemente freddo. Ottobre stava portando
grosse nuvole grigie, impazienti di liberarsi della loro carica
d’acqua e disperderla tra le foglie già in
procinto di cadere. Gli alberi avevano un aspetto fragile mentre
ondeggiavano obbedienti al soffio della tramontana. Così
come ondeggiava la lunga gonna di pizzo di Cassandra, che cercava di
camminare come una ragazza molto impegnata ed impaziente di raggiungere
i suoi amici al centro commerciale.
Ma non c’era alcun amico ad attenderla. Ci sarebbe stato,
forse, se lei ne avesse avuto almeno uno.
Non le pesava stare da sola, anzi, le piaceva passare il tempo in
camera sua con un buon libro o passeggiando nel parco per osservare le
persone. Chi faceva jogging, chi fumava su una panchina, ognuno di loro
aveva una storia e Cassandra si divertiva a inventarla, per poi
giungere al motivo per cui si trovavano lì, in quel parco
desolato frequentato ormai solamente da patiti della ginnastica
mattutina e anziani soli.
Il problema era stare sola in un luogo affollato. Le voci erano
così tante da confonderla, le risate e le urla la
indisponevano; il calore trasmesso da un corpo all’altro
l’avvolgeva in un affetto falso ed ipocrita, che non sapeva
se disprezzare o invidiare. La sua esagerata riservatezza le aveva
sempre impedito di farsi conoscere a fondo, o di risultare simpatica
con una semplice battuta al momento giusto. Capitava che la sua
timidezza fosse scambiata per altezzosità e Cassie fosse
universalmente emarginata, talvolta schernita. S’era abituata
ben presto a non essere considerata e le sue opinioni si erano
rassegnate a restarle nella mente. Cassandra aveva quasi iniziato a
disprezzare l’amore; sembrava essere una delle poche persone
in grado di vedere la sofferenza che esso portava e le bugie nascoste
dietro un’espressione di dolcezza.
Eppure… talvolta le capitava di sognare una migliore amica a
cui telefonare di tanto in tanto, o con cui uscire il sabato sera; un
corpo caldo accanto al suo, o anche un semplice saluto di un compagno
di classe. Si sarebbe accontentata di poco, bastava che fosse qualcosa
di più umano dei suoi libri macchiati e ormai ingialliti dal
tempo, che le conferivano un’aria triste e malinconica, come
se i vestiti larghi, scuri ed anonimi non bastassero. Non sapeva che il
suo destino sarebbe stato immerso in un lago di corpi freddi e grigi.
Cassandra non era una persona triste; amava sorridere delle piccole
cose ed era felice con poco. Per questo si stava dirigendo al centro
commerciale, anche se da sola. Non aveva intenzione di acquistare
nulla, solo sentire l’odore dell’inchiostro fresco
e delle pagine appena stampate, e vedere qualche sgargiante vestito in
saldo che lei non si sarebbe mai sognata di indossare.
Il centro commerciale distava giusto un paio di chilometri da casa sua;
per arrivarci doveva passare per il vecchio parco che tanto amava, per
cui il tragitto non le pesava mai. Con gli auricolari
dell’iPod nelle orecchie e il ritmo pulsante nel cuore, ogni
passo acquistava elasticità e grazia; tutto prendeva a
muoversi al battito della musica inudibile dal resto del mondo e lei
diveniva una semplice e divertita spettatrice di un musical dalle
strane danze.
Questa volta, come del resto tutte le altre, il tempo passò
tanto in fretta che Cassandra quasi non si accorse del grande edificio
grigio, simile a un casermone, che le si presentava davanti.
Internamente era completamente diverso. Fu accolta dalle luci accecanti
e dal calore delle persone; si muovevano indaffarate, frenetiche, a
passi tanto svelti da sembrare coinvolti in una gara di
velocità. I negozi mostravano la loro mercanzia, e commesse
alle entrate erano pronte all’assalto, cariche di campioncini
di profumi e cosmetici. Cassandra badò di tenersi alla larga
e tentò di confondersi tra la gente, diretta verso la
libreria. La sua testa si voltava ora da una parte, ora
dall’altra, ad osservare le vetrine colorate e ricolme di
stoffe unite a formare bellissimi abiti, i quali si alternavano a
negozi di elettronica che esponevano l’ultimo modello di
iPhone che nessuno avrebbe potuto permettersi. Il vociare dei bambini e
di adulti attaccati al cellulare era quasi assordante; Cassandra era
impaziente di trovare la pace e la tranquillità di infiniti
scaffali ricolmi di fantasia.
Il negozio sembrava distare chilometri, tanto che la ragazza sentiva
già le gambe stanche di muoversi: il tempo si dilata quando
si è vicini a ciò che si vuole. Dopo quelle che
sembrarono ore, l'insegna rossa e nera, con un grosso libro bianco
luminoso, le apparve davanti agli occhi. Sentì il cuore
ribaltarsi e fare capriole dalla gioia mentre varcava quella soglia e
s'immergeva nell'odore di pagine stampate. Galleggiando nella luce
appena meno intensa rispetto al centro commerciale, si
infilò nel reparto Narrativa, gli occhi finalmente accesi e
scintillanti. Si guardò intorno incuriosita, come se non
conoscesse a memoria ogni centimetro di quel luogo, alla ricerca di
nuove uscite. Le sue richieste vennero esaudite: uno stand ospitava
grossi volumi del colore del cielo notturno, il titolo impresso a
lettere dorate in una lingua che non conosceva. Una bambina con i
capelli scuri e gli occhi blu l'ammonì silenziosamente con
il suo sguardo di cartone mentre Cassie prendeva il libro sulla
sommità del mucchio e lo voltava per leggerne la trama. Una
ragazza ed un nuovo, terribile potere acquistato in un centro
commerciale... che idiozia!
Rimise a posto il volume e riprese ad addentrarsi nel reparto, con meno
entusiasmo. Se tutte le nuove uscite fossero state con una trama
simile, non avrebbe avuto più motivo di curiosare
là dentro.
Di lì in poi ebbe più fortuna: trovò
racconti divertenti, interessanti, magici. Sarebbe rimasta a leggere
per ore se non si fosse resa conto che alle cinque e mezzo, in ottobre,
la sera già cominciava a calare. Fece dietrofront,
ripercorrendo l'infinito corridoio del centro commerciale, senza
più voglia di dare un'occhiata alle vetrine: era esausta e
voleva solo dormire. Gli occhi fissi a terra, sui suoi piedi che
parevano correre su un tapis-roulant, uscì dalle porte
automatiche. Ad aspettarla trovò un'aria più
gelida e violenta del solito e una lieve pioggerellina che ben presto
si sarebbe trasformata nel preannunciato temporale. Camminò
velocemente verso casa, lasciandosi alle spalle il negozio di Arti
Magiche ancora in costruzione, coperto da manifesti che offrivano
"magia a piccole dosi".
La pioggerellina fastidiosa, abbastanza pigra da non inzupparle gli
abiti, l'accompagnò per tutta la strada; quando
arrivò a casa aveva una sgradevole sensazione di umido
addosso. Si tolse il cappotto leggero e lo appoggiò sul
termosifone del salotto, avvicinando ad esso le mani perché
un debole calore la rassicurasse. Sentiva le palpebre pesanti e il
sonno scivolarle addosso: come facevano i suoi coetanei a uscire il
sabato sera senza addormentarsi sui tavoli o sulle poltroncine del
cinema?
Osservò per qualche momento le gocce d'acqua che
picchiettavano sul vetro e cadevano sempre più grosse,
chiedendosi se anche loro si sentissero sole. Poi le gambe cedettero
alla spossatezza e Cassandra si accasciò sul divano,
sospirando. La casa le stava stretta. La sua vita le stava anche
più stretta. E presto sua madre sarebbe tornata, carica di
borse della spesa, più stanca di lei ma con l'aria radiosa
che sfoggiava da quand'era incinta.
Che assurda idea, restare incinta a quarantacinque anni. Cassie non
credeva nemmeno che fosse possibile, si era rassegnata a restare figlia
unica per il resto dei suoi giorni e nemmeno le dispiaceva. E invece,
tutt'a un tratto -bam!-, la scioccante notizia. Il suo decrepito padre
e la sua impegnata madre avevano messo in cantiere un bambino.
Cassandra non li aveva mai visti tanto felici, ma doveva ammettere di
non riuscire ad esserlo altrettanto. Un bambino avrebbe significato
responsabilità e decisione e, inevitabilmente, un lavoro da
baby sitter a tempo pieno.
Si sentì egoista mentre pensava a quanto tempo libero le
sarebbe stato tolto da quel pargolo strillante, ed incoerente
perché non desiderava quel genere di alternativa alla sua
solitudine.
Le sue riflessioni furono interrotte dal rumore secco della chiave che
girava nella serratura e dall'invocazione d'aiuto di sua madre, sepolta
dietro un oceano di cibo appena comprato. Cassie si alzò a
malincuore, le andò incontro, la liberò dei
sacchetti più grandi e li portò in cucina,
appoggiandoli sul tavolo e sulle sedie lì accanto ed
iniziando la complicata operazione di smistamento dei pacchetti;
intanto Anne, sua madre, si lasciava cadere su una sedia vicina e si
toglieva le scarpe con il tacco basso, massaggiandosi i piedi
doloranti. Nonostante l'età che avanzava inesorabile,
restava una bella donna: portava i biondi capelli ricci fino alle
spalle (quel giorno erano legati in una morbida e disordinata treccia)
e con un trucco leggero evidenziava gli occhi di un blu chiaro,
incorniciati da una pelle luminosa e quasi priva di rughe. Il suo
essere paffuta, invece di penalizzarla, le rendeva le guance rosa e
piene assolutamente irresistibili. Nel complesso sembrava una dolce
bambina appena cresciuta. Con la figlia manteneva un rapporto sereno e
pacifico: entrambe stavano attente a lasciarsi spazio e a fidarsi l'una
dell'altra; i litigi erano radi a casa Brookner, e persino l'arrivo di
un bambino da Cassie non desiderato era stato preso con
tranquillità, senza nemmeno una discussione. Dopotutto
Cassandra non era abituata a reagire con aggressività: mai
avrebbe contestato una decisione della madre, se illustrata con
accurate motivazioni. Anzi, tendeva a prendersi cura di lei; la madre
era figlia e la figlia era madre.
Questo fu appurato mentre Anne, ancora seduta, si lagnava della coda
infinita alla cassa e Cassie, con un sorrisino, finiva finalmente di
sistemare le cibarie nelle diverse credenze, si avvicinava alla madre e
le dava un bacio leggero sulla fronte.
Si chiese se avesse potuto uscire con lei, qualche volta, ma il
pensiero fu subito cancellato dalla sua mente: andare in giro con la
madre era per gli sfigati, secondo i suoi coetanei. Poco intelligenti,
avrebbe aggiunto. Non nutriva una grande stima per persone secondo le
quali una firma su un abito lo rendeva irresistibile e una persona
grassottella, con gli occhiali o bruttina che fosse, era assolutamente
da evitare.
- Grazie, angelo mio, - disse Anne, alzando lo sguardo stanco a cercare
gli occhi di Cassie. - Sono proprio esausta e tuo padre sarà
qui a momenti.
La ragazza annuì, cercando una pentola in cui far bollire
l'acqua per la pasta. Era di poche parole quella sera.
Anne parve non accorgersene. Si alzò, infilò le
pantofole di peltro rosso ed uscì lentamente dalla stanza;
poco dopo lo sciacquio della doccia sovrastò quello della
pioggia. Cassandra lo trovava rassicurante: si sedette accanto al
termosifone, chiudendo gli occhi e assaporando quella sensazione di
familiarità e sicurezza.
Il tempo parve volare finché non arrivò suo
padre, un uomo più sulla sessantina che verso i quaranta,
con argentei capelli corti e dei baffi brizzolati. Al contrario della
moglie, era alto e scheletrico e possedeva un’aria distinta e
severa che nemmeno il professore più austero avrebbe saputo
eguagliare. I suoi sorrisi e le sue parole erano radi quanto
i capelli: pareva che Anne fosse l’unica fonte di gioia nella
sua vita. Spesso Cassie si chiedeva se suo padre le volesse bene; la
ritrosia di quest’ultimo a esternare i propri sentimenti non
le aveva mai dato certezze.
Difatti, l’uomo chiuse la porta con forza ma senza proferire
parola. Dopo pochi secondi si sentì il rumore, attutito
dalla moquette, di una ventiquattrore che veniva appoggiata
nell’ingresso e il volto arrossato di suo padre apparve in
cucina. Con mani esperte s’allentò la cravatta;
Cassie si limitò a puntargli addosso i suoi grandi occhi
curiosi. Quel gesto veloce e ripetitivo l’aveva sempre
affascinata; spesso, da piccola, si svegliava di buon mattino solo per
osservare il padre annodarsi quel semplice pezzo di stoffa attorno al
collo, inspirando l’odore acre di dopobarba che per lei aveva
il significato di “papà”.
Finalmente Jonathan Brookner alzò gli occhi per incrociare
quelli di sua figlia. Cassandra gli fece un debole sorriso, ovviamente
non ricambiato. Scrollò le spalle, incerta, e si
alzò per apparecchiare la tavola, sbattendo le stoviglie il
più silenziosamente possibile. I momenti di solitudine con
il padre la imbarazzavano: essendo entrambi individui taciturni, non
avevano mai nulla di cui parlare e il silenzio che si riscontrava era
tutt’altro che piacevole e rilassato. Entrambi attendevano
con ansia l’arrivo della donna di casa, moglie, madre, cuoca
e chiacchierona.
Arrivò dopo pochi minuti, con i capelli ancora umidi ma
rinvigorita, gettò il sale nell’acqua della
pentola e protese il viso verso il marito perché le baciasse
le gote rosee.
Cenarono in silenzio; l’unica persona sorridente era Anne.
Jonathan sembrava stanco e Cassandra non era da meno. Ripulì
in fretta il suo piatto, lo appoggiò sul lavello e si
diresse verso la sua camera, augurando la buonanotte ai genitori: non
era in vena di aiutare a sparecchiare.
Imboccò il corridoio che portava alle stanze da letto,
strisciando i piedi sulla moquette color avorio. La sua porta di legno
bianco l’attendeva come una vecchia amica. Si aprì
con uno scricchiolio lievemente sinistro e la luce tremò
appena mentre la lampadina illuminava la stanza con un ronzio.
Cassandra sospirò e si buttò sul suo piumone
lilla, caldo e morbido, su cui era impossibile non rilassarsi. Prese il
computer portatile dal comodino, lo sistemò sulle sue gambe
e lo accese. Eccoli, i suoi amici: utenti di forum e siti per
fotografi, persone virtuali che mai avrebbe incontrato. Con loro
riusciva ad aprirsi come con nessun altro, complice lo schermo che le
impediva di mostrarsi rossa di vergogna, o di balbettare. Le dita
correvano sui tasti, leggiadre come farfalle e in balia della sua
fantasia. Talvolta si improvvisava una ballerina di Cuba, altre volte
una ricercatrice universitaria. Il ruolo che amava di meno era quello
di Cassandra, adolescente timida e chiusa. Passava ore ad inventarsi
altre storie, altre vite più interessanti della sua, vite
che valesse la pena raccontare. Non si era mai confusa, né
tradita: i suoi alter ego erano più simpatici e socievoli di
lei, e mai avrebbe rivelato il suo vero Io.
A volte si fermava a riflettere sulle implicazioni etiche e si chiedeva
se Dio la potesse perdonare per tutte quelle bugie. Sfiorò
il rosario che portava al collo, nascosto sotto tutti i vestiti, come
in cerca di risposte. Spense il pc, infilò il pigiama e si
inginocchiò accanto al letto, recitando la solita Ave Maria;
poi scostò le coperte e ci si nascose sotto, continuando a
dialogare mentalmente, un po’ con il Signore e un
po’ con se stessa, finché l’oblio non la
raggiunse e cadde in un sonno profondo.
Il giorno dopo, per la prima volta nella sua vita, venne notata. Una
ragazza estremamente pallida, totalmente vestita di nero,
l’avvicinò nel corridoio della scuola. - Ciao, sei
una Wicca? - le chiese.
Cassandra sapeva bene cos’era la Wicca e quella domanda
destò la sua curiosità. - No, non sono religiosa.
Perché me lo chiedi? - domandò, corrugando la
fronte. Non capita tutti i giorni che una sconosciuta venga a chiederti
cose del genere.
La ragazza sorrise beffarda. - Ne hai proprio l’aspetto, -
commentò. Cassandra si sentì presa in giro per
l’ennesima volta, come se dal suo modo di comportarsi si
potesse dedurre che passava il tempo a fare Sabbat nuda. Stava per
voltarsi e tornare sui suoi passi senza replicare, quando la
sconosciuta le tese la mano. - Sono Morgana. Della classe accanto alla
tua. Sei in quarta B, vero?
Cassandra sbatté le palpebre un paio di volte, incerta sul
da farsi. Si decise troppo tardi e quando fece per stringere la mano di
Morgana, questa l’aveva già ritirata; dunque
annuì, ammutolita. - Ti ho osservata, sai -
continuò la sconosciuta, quasi divertita dalla soggezione
che doveva provare quella sfigata. - Penso che potremmo essere amiche.
Ci vediamo al centro commerciale questo pomeriggio? Ho visto che
aprirà un negozio di arti magiche e vado matta per quella
roba.
Cassandra si appuntò mentalmente tutti i suoi dubbi e li
confrontò con il suo desiderio disperato di avere
un’amica. Accettò l’invito con una lieve
esitazione, ma Morgana sembrò non farci caso.
Il centro commerciale, accanto a un’amica dalla parlantina
inarrestabile, sembrava addirittura meno piacevole del solito.
Finalmente Cassandra aveva ciò che desiderava, eppure in tal
modo si sentiva ancora più estraniata dal resto del mondo.
Le sembrava di galleggiare su una nuvola, di vedersi
dall’alto annuire e rispondere a Morgana distrattamente. Non
voleva che la sua nuova amica cambiasse idea, ma allo stesso tempo
iniziava a capire quanto la condizione della solitudine potesse essere
piacevole.
Nonostante il giorno prima fosse ancora in costruzione, quel
mercoledì il negozio di Arti Magiche era aperto.
Dall’esterno si potevano vedere solo le pareti blu scuro, le
luci soffuse e un tavolo su cui erano disposte diverse pietre colorate.
Morgana entrò nel negozio senza indugiare; Cassandra,
intimorita, la seguì.
All’interno il negozio, se possibile, era ancora
più strano. Ovunque erano drappeggiati teli di velluto
scuro, pericolosamente vicini alle candele. I diversi scaffali
ospitavano gli oggetti più strani.
Cassandra avanzò lentamente nel negozio, affascinata.
C’era anche un reparto per gli animali. Le teche, in legno e
vetro, davano alloggio a gatti spelacchiati, serpenti e iguane.
Morgana sorrise prima di svanire nel retrobottega.
Cassandra continuò a camminare, sentendosi i piedi piumati.
Tutto le appariva come in un sogno, lievemente distorto, surreale. Lo
scaffale dei libri catturò la sua attenzione, come sempre.
Ci si avvicinò e sfiorò con la mano il dorso di
alcuni di essi. Prese un libro dalla copertina nera; non presentava
alcun titolo né disegno in copertina. Mentre sfogliava le
pagine ingiallite, l’odore di muffa e di stantio le
solleticarono le narici; ma non ci fece caso, interessata
com’era al contenuto. Frequentava un liceo classico e dunque
studiava il greco, ma non riusciva a capire una parola di
quant’era scritto in quel volume. Forse era il greco
più antico. Lesse e rilesse, cercando di capire cosa diamine
ci fosse scritto.
I caratteri iniziarono lentamente a cambiare forma sotto i suoi occhi,
piegandosi e modellandosi fino a formare delle parole per lei
comprensibili. Era come se un ordine improvviso avesse costretto il
libro a rivelarsi, a svelare il proprio contenuto alla ragazza che
l’aveva scelto.
Cassandra si mise a leggere.
Lasciò cadere il libro a terra, sconvolta. Si
voltò ed uscì di corsa dal negozio - Morgana riemerse dal
retrobottega, compiaciuta - percorse i corridoi del centro
commerciale senza quasi rendersene conto. Salì
precipitosamente le scale che portavano al parcheggio del piano
superiore, e salì ancora finché non raggiunse il
tetto dell’edificio. Continuò a correre. Il
parapetto sembrava venirle incontro, invitante.
Continuò a correre.
Scavalcò la ringhiera e si buttò nel vuoto.
Rimase sospesa in aria, il rosario appeso al collo si agitava nel
vento, come la gonna di pizzo che portava anche il giorno prima. Il
dolore avvolgeva ogni cellula del suo corpo, ma non riusciva
più a muoversi. Era paralizzata. Avrebbe voluto aprire la
bocca e urlare, urlare la propria sofferenza con quanto fiato aveva in
corpo, nel corpo che continuava incredibilmente a salire verso il
cielo. Sembrava posseduta.
Qualche secondo dopo, Cassandra cadde. Cadde per un centinaio di metri,
a tutta velocità, facendo capriole nell’aria come
una tuffatrice, cercando disperatamente di nuotare. Si
schiantò scomposta sull’asfalto, prona, con
entrambe le gambe rotte, forse il collo, il viso sicuramente devastato
dall’impatto.
Cassandra aprì gli occhi.
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Note
dell'autrice
Il titolo, Egoismo,
non è dovuto al comportamento di Cassandra bensì
a quello di Morgana.
Non sono una seguace della Wicca, quindi tutto ciò che ho
inserito a riguardo è fatto assolutissimamente sulla base di
ricerche superficiali che ho fatto molto tempo fa.
Originariamente questo racconto era nato come libro, ma mi sono resa
conto che non avrei saputo sviluppare decentemente la trama, per cui
invece di continuarlo ho deciso di farlo finire qui. Spero che vi sia
piaciuto, vi prego di farmi sapere la vostra opinione a riguardo :)
alla prossima!
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