Capitolo
3
Tsubasa
wo kudasai
«Kerochan
direbbe che facciamo schifo: pensa che l’accoppiamento degli esseri umani è
quanto di più disgustoso esista. Non mi ha mai visto fare cose del genere, ha
visto tutto su internet, la sua curiosità era troppa per non sbirciare in un
sito porno.» Sorrise tra le mie braccia. «Immaginati l’imbarazzo quando mi ha
fatto vedere quel video e chiesto se noi umani ci riproduciamo in quel modo, all’ora
sapevo solo in modo generico come funzionasse il tutto, dopotutto l’avevo studiato
a scuola, ma quel video era davvero inguardabile.»
«Peggio di
ciò che abbiamo fatto questa notte?»
«A
confronto, siamo degli angioletti.»
Per la terza
settimana consecutiva, Sakura aveva passato il mercoledì notte da me, stava
diventando quasi una regola non scritta; si presentava da me all’ora di cena
con un film a noleggio ed una cena veloce, non ricordo che film avesse preso
perché non abbiamo mai prestato attenzione alla TV, c’era qualcosa di più
importante.
«Ho
lasciato Ken.» Fu come se si fosse tolta un giubbotto pesante ed un po’ mi
sentivo in colpa, non volevo stravolgerle di nuovo la vita, non volevo che
lasciasse il suo ragazzo; Si! E’ da egoisti andare a letto con una ragazza
dichiaratamente impegnata e non pretendere che lei lasci il ragazzo ufficiale,
mi sentivo in colpa non tanto per essere stato con lei, quanto per aver
rovinato un rapporto, Tomoyo dice che era un rapporto di solo sesso ma se
Sakura non me ne ha mai parlato ci sarà un motivo.
«Quando?»
«Avanti
ieri…l’ha presa bene, non si è nemmeno scomposto.» Nascose il viso sul cuscino.
«Ti faccio male se piango, solo per qualche minuto?»
Maledizione,
certo che mi fai male, ma non te lo posso di certo sbattere in faccia, ancora
meno quando sei nuda e tra le mie braccia! Non risposi alla sua domanda,
semplicemente la strinsi forte a me e la coccolai nel tentativo di arrestare
quelle lacrime. Fu un’impresa titanica, stava lasciando andare due anni di
stress e sentimenti, non potevo fare altro che accarezzarla finché non si
addormentò sul cuscino fradicio. Inutile dire che era bellissima quando dormiva,
ero cotto di lei, non riuscivo a non toccarla, baciarla e anche farle il
solletico quando l’avevo vicina, mi dispiaceva che stesse piangendo.
Guardai
l’orologio e mi accorsi che erano appena le undici e mezza, si era presentata
prima del solito quel giorno, meglio, potevamo dormire qualche ora in più.
Magari!
Il
telefonino rosa di Sakura vibrò minaccioso sul comodino: guardai lo schermo,
non mi andava di svegliarla se non si trattava di qualcosa di urgente; sull’LCD
lampeggiava la foto di una ragazza in divisa da ristorante e il nome era “Momo
Lavoro”. Forse c’erano problemi al locale.
Lasciai
che, ancora assonnata, Sakura rispondesse alla chiamata e la faccia non fu
quella di chi riceve buone notizie; non parlò e si limitò ad ascoltare e annuire,
quando chiuse la chiamata si rialzò da letto alla ricerca della propria
biancheria.
«Dove le
hai lanciate?»
«Ci sono
problemi al locale?» Le porsi le mutande.
«Durante la
cena si è staccato un pezzo del controsoffitto ed è caduto su un tavolo.»
«Beh, sono
cose che succedono, si è fatto male qualcuno?»
«C’è
mancato poco ma la cosa peggiore è che insieme al controsoffitto sono caduti
due topi enormi, ed ora stanno gironzolando per la sala.»
«Vai ad
aiutarli nella cattura?»
«Peggio:
alcuni clienti, di quelli ricchi sfondati e con la puzza sotto il naso, invece
che accettare la cena gratis e lasciarci sistemare hanno chiamato la polizia,
che ovviamente si è portata appresso un ispettore sanitario, questo ha trovato
altri topi nel controsoffitto e vuole chiudere il ristorante.»
«Ma com’è
possibile!?» Inutile dire che ero sorpreso.
«Non
chiederlo a me, io sono un maître, non manutentore.»
Con mio
rammarico si rivestì in pochi secondi e, dopo avermi baciato, corse fuori
dall’appartamento in cerca di un taxi. La lasciai andare via senza battere
ciglio, dopotutto stava per perdere il lavoro e un altro impiego non lo trovi
di certo per strada; ricaddi sul letto e mi addormentai quasi all’istante e
quasi all’istante mi risvegliai la mattina dopo, mi sembrava di non aver
nemmeno preso sonno. Zittii la sveglia e mi diressi al lavoro dove mi
attendevano Yuko ed un buon caffè rinvigorente.
Come ogni
mattina svuotai la tazzina come se fosse acqua e dopo aver acceso il computer
uscii per fumare. Speravo che Sakura fosse riuscita a calmare l’ispettore
sanitario, magari non era uno di quelli rigidi ed avrebbe chiuso un occhio se
avessero sistemato il controsoffitto in pochi giorni. Subito dopo pranzo suonò
il telefonino con il responso: il messaggio era il suo e mi avvisava di essere
diventata disoccupata.
Si ripresentò
a casa mia per l’ora di cena con Tomoyo, le accolsi e scongelai qualcosa, se
non ricordo male erano bastoncini di pesce ed una confezione di lasagne, di
quelle per quattro.
Aveva le
guance rigate dalle lacrime e non smetteva di singhiozzare. In quel periodo il
resto del mondo aveva superato in poco tempo la crisi mondiale grazie alle
conoscenze maturate con quella del 2010, per il Giappone però era arrivata
tardi e perdere il lavoro equivaleva a morire. Sakura aveva qualche risparmio da
parte e sarebbe potuta andare avanti per quattro o cinque mesi al massimo,
stringendo la cinghia, ma senza uno stipendio rischiava di finire sulla strada.
Non lo avrei mai permesso e l’avrei ospitata volentieri, stesso discorso aveva
fatto Tomoyo ma Sakura non smetteva di piangere. Si calmò solo quando
cominciammo a mangiare.
«Sono stati
dei bastardi!» Tomoyo posò la forchetta di plastica. «E’ sicuramente gente che
non ha mai lavorato in vita sua, non puoi danneggiare un’impresa in questo
modo, lasciare senza stipendio decine di famiglie, è normale che ci siano topi
a Tokio e che siano attirati dal cibo delle cucine, una svista può capitare ma
basta farlo notare al proprietario invece di chiamare subito la polizia.»
«Teoricamente
hanno fatto la cosa più giusta.» Fu la prima frase che pronunciò Sakura da
quando entrò in casa.
«Sono stati
comunque degli stronzi!» Era la prima volta che sentivo Tomoyo parlare in quel
modo e non riuscii a nascondere un sorriso. «Li, dammene una, sono incazzata
nera.»
Le porsi una
sigaretta e l’accompagnai al terrazzo per lasciarla fumare, dovetti combattere
la voglia di raggiungerla per poter restare in casa e non lasciare Sakura da
sola.
«C’è
possibilità che il locale riapra?»
«Non lo so,
il proprietario è piuttosto anziano e voleva lasciare la gestione al figlio,
questo purtroppo non è interessato, è il tipico figlio di papà viziato,
abituato ad avere tutto già pronto.»
«E
lasciarlo in gestione a terzi?»
«Chi si
accollerebbe, con questa crisi, il carico di un macigno del genere? Io non di
certo.»
Il
ragionamento di Sakura filava, con uno slancio di generosità mi sarei potuto
proporre io ma non avrei avuto i mezzi, e tantomeno le conoscenze, per gestire
un ristorante. Mi limitai ad abbracciarla e stringerla forte, era l’unica cosa
sensata da fare, seppur inutile.
Quella
notte dormì da me, insieme a Tomoyo, nel mio letto.
Mi dovetti
accontentare del divano, di nuovo!
Fortunatamente
in soggiorno faceva fresco e dopo aver guardato un po’ di televisione riuscii
lentamente a prendere sonno.
Mi
risvegliai molto presto, mi sembrava che l’ora fosse simile a quando mi svegliò
Sakura la prima volta, la seconda volta però il viso era quello ancora
assonnato di Tomoyo.
«Scusa se
ti sveglio, avresti del caffè?»
Mi rialzai
più rincoglionito che mai e scoprii che erano le cinque meno un quarto del
mattino. Lanciai decine e decine di maledizioni silenziose finché non accesi la
luce della cucina e cominciai a mugugnare per la luce troppo forte.
Trovai il
barattolo con il caffè e rimasi un po’ disorientato quando notai che Tomoyo indossava
una delle mie magliette, solo quella. Sakura aveva fatto gli onori di casa, non
mi dispiaceva ma Tomoyo poteva coprirsi un po’, la maglietta era corta ed io
sono pur sempre un uomo.
«Scusa,
Sakura mi ha assicurato che non ti saresti arrabbiato.» Si era accorta di come
l’avevo squadrata.
«Oh…tranquilla,
come mai la voglia di caffè a quest’ora?»
«Alle nove
devo prendere l’aereo per un viaggio di lavoro e devo ancora andare a casa per
fare la valigia. Meglio prendersi più tempo possibile, inoltre, Sakura sta
russando come un trattore. Tu ne vuoi un po’?»
Annuii con
la testa ciondolante e mi diressi al bagno sbadigliando come un ippopotamo.
Dopo due o tre risciacqui facciali con acqua fredda, e dopo la cacca mattutina,
tornai alla cucina dove mi accolse l’aroma del caffè che lentamente risaliva su
per la caffettiera.
«Sakura
dorme ancora?»
«A
proposito di Sakura.» Versò del caffè nella tazzina e mi porse dei biscotti che
doveva aver trovato in fondo alla credenza. «Mi sembra superfluo chiederti di
starle il più vicino possibile. Hai una casa così grande e bella, potresti
ospitarla così risparmia i soldi dell’affitto mentre cerca un’altra occupazione,
ovviamente concorrerebbe alle spese.»
Era una
possibilità che avevo già preso in considerazione e non mi importava se avesse
contribuito o meno alle spese di luce e acqua, l’importate era che restasse con
me. Annuii mentre svuotavo la tazzina, non sarebbe bastato di certo quel poco a
risvegliarmi, allungai la mano per versarmene altro ma Tomoyo mi precedette e
le nostre mani si toccarono. Forse eravamo ancora entrambi rimbambiti per il
poco sonno ma ricordo che abbiamo nascosto la mano contemporaneamente.
Passarono molto secondi prima che mi decisi a versare un’altra tazzina ad
entrambi. Era una situazione strana e non riuscii mai a decifrarla, nemmeno a
distanza di molti anni.
«Grazie del
caffè.» Fu la prima a riprendersi e corse a cambiarsi in camera.
Restai
seduto al tavolo finché non riapparve finalmente rivestita. L’accompagnai alla
porta e mi salutò con un semplice gesto della mano poco prima di sparire dietro
le porte dell’ascensore.
Maledizione,
non riuscivo a capire che diavolo fosse successo. Ora che ci penso non ricordo
di aver mai capito se Tomoyo fosse impegnata, se lo fosse mai stata, se fosse
innamorata di qualcuno, per me era un mistero al pari della costruzione delle
piramidi. In realtà avevo sempre intuito che provasse qualcosa di più profondo
verso la cugina, qualcosa che andava certamente oltre l’affetto tra amiche,
cominciai a temere che potesse odiarmi o che fosse gelosa di Sakura. Meglio
averla vicina da amica che da folle omicida in preda alla gelosia.
Fortunatamente mi scrollai di dosso quei pensieri quasi subito e tornai a
dormire nel mio letto, accanto a colei che amavo. Si, era un po’ prematuro da
dire ma non riuscivo a non provare tutto quello. Mi accovacciai sul letto e
senza accorgermene la svegliai, fortunatamente non si arrabbiò e mi strinse
forse per conciliarsi il sonno.
«Penso che
dovremo lasciarci.» Fu come se mi sgozzassero. «Vado in Italia da papà.»
Quando
pronunciò quelle due frasi stavamo facendo la doccia mattutina. Niente di sconcio,
ma svegliarci in quel modo, con un sorriso, ci allietava la giornata. Quel giorno
non fu tanto piacevole, Sakura restò per tutto il tempo in un angolo del box e
pronunciò quella frase dandomi le spalle. A causa dell’acqua non capito se
stesse lacrimando e non si lasciò baciare, nemmeno quando l’abbracciai nel
tentativo di farle cambiare idea.
«Papà dice
che hanno aperto un nuovo ristorante giapponese vicino all’Università, stanno
cercando un maître che sia di origini nipponiche. Potrei risolvere il problema
nel quale sono incappata.»
Io non
fiatai, il karma si stava vendicando per le volte che ero andato via senza
farmi vivo per anni interi. Me lo meritavo, dopotutto. Mi sentivo uno straccio
buttato via, non capivo se in quel mese potevamo considerarci impegnati
o che cosa, erano poco più di tre settimane ma quel piccolo paradiso stava
lentamente crollando, come spazzato via da quell’acqua che sgorgava nella
doccia.
«Hai già
deciso?»
«Non
ancora, ma ci sto pensando seriamente.» Vidi un barlume di speranza. «Non
odiarmi.»
Odiarla? I
più sadici avrebbero di certo suggerito di farlo. Io però, non ne sarei mai
stato capace, l’avevo accolta nel mio letto, nella mia casa e di nuovo nella
mia vita, era entrata quasi prepotentemente ed ero felice che lo avesse fatto,
poteva anche piantarmi una forchetta in un occhio, non sarei mai stato capace
di odiarla: avrei fasciato la ferita, pulito la faccia ed atteso che si
addormentasse beata prima di andare al pronto soccorso, era inutile chiedermi
di non odiarla, non lo avrei mai fatto.
L’abbracciai
di nuovo.
Durante la
mattinata al lavoro, restai tutto il tempo con la porta chiusa, non feci
entrare nemmeno Yuko con il caffè. Non mi sarei dovuto arrabbiare ma alla fine sopraggiunse,
fu un miracolo che non rivoltai l’ufficio; l’unica cosa buona che mi fosse
capitata da quando ero a Tokio stava andando via, scappando in cerca di una
vita migliore, la cosa che da fastidio in questi casi è che la colpa non è di
nessuno dei due, quindi ti senti impotente e sembra che tu non possa fare
proprio nulla, diciamo che non si può fare proprio niente.
Al ritorno
a casa mi accolse un profumo che mette fame all’istante, i fornelli erano
accesi e qualcosa di buono stava ribollendo nelle pentole, non me l’aspettavo,
così come non mi aspettavo di trovare una valigia in soggiorno. Venni
sopraffatto da un enorme senso di smarrimento e di paura, se ne stava già
andando e quella era la cena dell’addio!
«Bentornato!
Ho cucinato qualcosa di buono, spero di aver usato gli ingredienti giusti. Se
non ti dispiace oggi sono passata a casa ed ho preso due cambi, inoltre ti ho
lavato tutti i tuoi calzini arretrati, zozzone!»
«Nessun
problema, voglio che questa sia anche casa tua!»
Sorrise e
venne incontro per baciarmi. Mi sentivo completo quel giorno, la collera della
mattina prima era già andata via, sciolta da quel caldo abbraccio, non stava
andando via e il cuore ricominciò a battere normalmente.
«Ma, in
realtà questa casa non è di tua proprietà.»
«Dettagli…allora,
cos’hai preparato di buono? Ho una fame di quelle paurose.»
«Non
cambiare argomento: stai cercando di dirmi che vuoi convivere con me?»
Divenni
rosso all’istante, non mi succedeva così platealmente dal tempo delle
elementari. Annuii semplicemente, cercando di tornare al colorito normale.
«Sei uno
stupido!» Mi diede una testata sul petto. «Stiamo correndo troppo, inoltre ti
ho già detto che vado in Italia.»
«Questo non
significa che non possa godermi la tua presenza.»
«Mi
verrebbe da dirti “peggio per te”.»
«Affronterò
il dolore.»
Si intristì
ed abbassò le braccia: «Lasciamo perdere, teniamo tutto così com’è.» Venni
scortato in cucina dove mi venne servita una porzione enorme di ramen fatto in
casa. Doveva aver passato tutto il pomeriggio a cucinare ed il risultato era da
cinque stelle. Purtroppo la cuoca passò il restò della serata in silenzio,
lavai i piatti e la cucina mentre se ne stava inerte sul divano a guardare la
televisione.
«Ti va di
uscire?»
Fece segno
di no con la testa.
«Vuoi
guardare un film?»
Altro no.
«Vuoi
dormire?»
No.
«Vuoi
andare a casa?»
No.
«Vuoi fare
l’amore?»
Ci mise un po’
a dire “no” ma la presi in braccio lo stesso e la portai in camera dove si mise
subito comoda sul letto. Rimase in silenzio ma sembrava volersi assopire.
«Parto
questa domenica.» Fu la sua sentenza, e il giorno che lo disse era mercoledì.
Quegli
ultimi giorni furono strazianti. Non ci baciammo, non ci sfiorammo nemmeno,
agli occhi di chiunque sembravamo due zombie. Non riuscimmo nemmeno a fare l’amore,
la paura era che lei potesse cambiare idea o piangere. Ed anche io. L’altra
nota dolente fu quella che il tempo corse come non mai, alla fatidica domenica arrivammo
come uno schioppo.
Quella
mattina riuscimmo a fare fuori due caffettiere da cinque, una a testa, eppure
continuavamo ad essere in dormiveglia. Quando arrivò il taxi per andare alla
stazione pregavo ogni dio che mi svegliasse in quel momento, ma non accadde e
mi ritrovai in pochi secondi (per me) davanti al terminal partenze di Narita,
non mi accorsi nemmeno di aver preso il treno.
Facemmo una
seconda straziante colazione in aeroporto e la vidi piangere mentre addentava
il suo croissant, dovetti combattere con tutto me stesso per non seguire il suo
esempio.
Merda,
merda, merda! Il controllo sicurezza si faceva sempre più vicino.
«Vattene!»
Si mise in fila dicendo quella unica parola, ovviamente non ubbidii.
«Non
funziona il ragionamento del lasciarsi “con il litigio”, se credi che
lasciandosi in quel modo serva a qualcosa ti sbagli di grosso, te ne pentiresti.»
«Conosci
altri modi per lasciarsi andare?»
«Con un
bacio.»
«Ancora
peggio!»
Venne il
turno di Sakura e passò il controllo sicurezza senza che ci potessimo sfiorare.
Sentivo il cuore sanguinare e lo stomaco sciogliersi. La seguii oltre i vetri
mentre si dirigeva la proprio gate d’imbarco. Non potevamo sentirci oltre quel
muro di vetro e non riuscivamo a distogliere lo sguardo l’uno dall’altra.
Alla fine
dovette andare e sparì.
Sembrò
sparire anche la mia vita, in quel momento restai sordo. Presi posto nel
terminal in una poltroncina di fronte allo schermo con i voli in partenza. Restai
con lo sguardo fisso finché non comparve la scritta “Decollato” accanto alla
dicitura “Roma-Fiumicino”.
“Fanculo. E’
davvero finita.” Mi dissi. “Non ne combino mai una giusta e di conseguenza non
me ne capita mai una.”
Decisi di
restare seduto per qualche altro minuto. Tanto non avevo niente da fare e
nessuno che mi attendesse a casa. Era così bello avere qualcuno che ti aspetta,
o qualcuno da accompagnare a fare compere, se poi quel qualcuno lo ami, ancora
di più. Sai che sarà li, sai che tornerà a casa con te e che passerai con
quella persona del bel tempo, non sarà mai tempo buttato.
Due braccia
mia cinsero il collo proprio quando decisi di tornare a casa.
Non mi
voltai, chiusi e riaprii gli occhi più e più volte cercando di capire se mi
stessi immaginando tutto.
«Ti amo.»
«Come?» Lo
disse sottovoce e con la testa nascosta sulle mie spalle.
«Ti amo.»
«Scusa ma
non…»
«CAZZO! Ho
detto che TI AMO!»
Nascose di
nuovo la testa e la sentii piangere. Sakura mi stava abbracciando, non era
passata per il gate ed era tornata indietro per cercarmi, sentiva che non sarei
andato via finché non avessi visto il suo aereo decollare.
«Hai
infranto la nostra promessa.»
«Chi se ne
frega di quella stupida promessa, stai zitto, dovevo dirlo e basta.»
Restammo in
silenzio per alcuni secondi, sembrò come se si fosse zittito anche l’intero
aeroporto; riuscivo a sentire il suo cuore che batteva veloce e le sue lacrime
cadermi sul collo.
«Senti
Shaorang.» Ci fu un’altra pausa. «E’ ancora valida la proposta di usare quella
casa insieme?»
«Naturalmente.»
Fine
Grazie a tutti per la lettura