That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.016
- Il Sangue di Salazar (2)
Annabelle Flannery
57, Essex Street, Londra - sab. 15 gennaio 1972
«Sterminare! Sterminare!»
«Tanto non mi prendi! Tanto
non mi prendi! Ahahahah...»
Le risate di Seamus, mio fratello, e di Ryan Mortimer, nipote della
nostra governante, filtravano dal piano di sotto, attraverso il
corridoio e la porta chiusa, nella silenziosa immobilità
della mia cameretta. Guardai la sveglia sul comodino, era mezzogiorno e
a breve papà e Patricia sarebbero ritornati
dall'appuntamento col dottor Simm: erano passati appena quattro mesi
dalla nascita del bambino, era sano e forte, ma la megera aveva
sottoposto il povero Matthew a controlli medici pressoché
quotidiani, sospettando in lui, giorno dopo giorno, i sintomi di tutte
le peggiori malattie infantili esistenti. Mi chiedevo spesso,
irriverente, se, finite quelle indicate nell'enciclopedia pediatrica,
avrebbe iniziato a inventarsene di nuove o avrebbe ricominciato la
lista dall'inizio.
Sospirai: nonostante sforzi, promesse e minacce, non riuscivo ad
adattarmi alla mia nuova famiglia.
Era meglio rimettersi a letto e fingere che avessi dormito tutta la
mattina, come si era raccomandato il medico, se non volevo finire nei
guai, ed io per i guai sembravo aver maturato una certa
predisposizione, soprattutto da quando Patricia Matheson era diventata
la nuova signora Flannery.
Da quattro anni odiavo la scuola, non sopportavo quelle inutili date
ripetute a memoria, le orride divise e la mancanza di fantasia di molti
professori, per non parlare di certi bulletti che infestavano la mia
classe: per questo, spesso, in passato, avevo inventato fantasiose
scuse per evitare di andarci e, a volte, Edna, la nostra governante,
mossa a compassione, aveva finto di credermi e mi aveva assecondato.
Ora invece, persino quando stavo male sul serio, Patricia sosteneva con
mio padre che i miei fossero sempre capricci inaccettabili e che
l'unica soluzione, per me, fosse il severo collegio svizzero, dove lei
era stata educata «…come si conviene a una
raffinata signora dell'alta società».
«Quando entrereMO in politica,
Edmund, la Tua vita sarà sotto gli occhi di tutti. E
nonostante la Tua ottima reputazione come giudice,
“quello” scandalo sarà il tuo Tallone
d’Achille, presso l’opinione pubblica... per questo
non puoi più essere troppo indulgente con i Tuoi figli!
»
Quella strega glielo ripeteva ogni sera, quando mi credevano a letto ed
io invece li spiavo dalle scale: papà, dopo una dura
giornata in tribunale, cercava di bersi in pace il suo whisky, seduto
davanti al caminetto, in silenzio, Patricia stilava piani di guerra,
con fredda determinazione da gerarca nazista.
Da quando c'era lei, mi sentivo fuori posto in famiglia, per questo,
dopo appena tre giorni passati in casa, confinata in camera, in
quarantena per la varicella, ero così idrofoba che, pur di
starle lontana, sarei andata volentieri persino a scuola, a ripetere,
come un pappagallo, le stupide canzoncine in francese sul ponte di
Avignone e a subire in silenzio, durante la lezione di musica, le
frecciatine su mia madre di Claire-ciccia-tettona-Goldwyn, una
balenottera capace solo di sparlare di chiunque.
Rabbrividii, forse mi stava di nuovo salendo la febbre, cercai di
reprimere il vano desiderio di darmi una grattatina a gambe e spalle,
sicura che se non avessi trovato il modo di strofinarmi, sarei
impazzita; in realtà, pur insopportabile, per dimostrare a
mio padre che Patricia esagerava, mi ero imposta di non lamentarmi mai
del prurito, né della puzza mefitica del talco mentolato con
cui Edna mi cospargeva tutta, nemmeno fossi un'orata pronta da
infornare... Avevo persino provato a prendere la situazione con
filosofia e a ridere delle mie disgrazie: quando Edna mi aveva fatto
indossare i guanti da forno, fissandoli con il nastro adesivo da
pittore, per impedirmi di grattarmi, le avevo fatto venire il mal di
testa a furia di raccontarle storie in cui ero un'esploratrice aliena
proveniente da un pianeta di cuochi, in cui tutti nascevano con le
presine al posto delle mani, o quell'altra, in cui ero una ladra che si
era introdotta in un covo di crudeli corsari olandesi per rubarne il
tesoro e, fatta prigioniera, ero stata sottoposta alla peggiore tortura
esistente, la polvere pizzicherella.
Edna, di solito composta e seriosa quando la signora Flannery era in
casa, era scoppiata a ridere, non so se per la ridicolaggine delle
storie, o per il mio aspetto; Patricia, al contrario, si era lamentata
con mio padre per la mia infantile incapacità di stare con i
piedi per terra:
«Ha
quasi tredici anni, Edmund, dovremmo far controllare che non abbia dei
deficit intellettivi! »
«Sterminare!
Sterminare!»
«Non mi prenderai
mai!»
«Questo lo dici tu, microbo!
Fuoco!»
«Fuoco? Non puoi dire fuoco!
Devi parlare come un Dalek! Hai perso! E se hai perso, sarò
io a tenere il Cacciavite Sonico e fare il Dottore anche la prossima
settimana, babbeo! Ahahah!»
Sbuffai, gli schiamazzi di Seamus davanti alla mia camera, a ricordarmi
sadicamente che, in clausura com'ero, avrei perso pure la puntata
settimanale di Doctor Who, erano odiosi ma comprensibili: con Patricia
impegnata fuori casa quasi tutto il giorno, tra shopping, estetista e
incontri con le amiche, il sabato era diventato l'unico giorno in cui
poteva comportarsi come il bambino di undici anni che era, senza
sentirsi minacciare con la storia dell'Accademia Militare per una
risata di troppo. Inoltre, mio fratello condivideva con me memoria di
ferro e una certa propensione alla vendetta: l'inverno precedente, poco
prima che disgrazia Matheson, come in segreto chiamavamo Patricia,
diventasse la nostra matrigna, mio fratello aveva avuto una brutta
otite, ed io, tremenda, mi ero divertita a terrorizzarlo, dicendogli
che in realtà erano orecchioni, che gli sarebbero rimaste
gigantesche orecchie da Dumbo, e che per questo, per tutta la vita,
avrebbe camminato e gesticolato in modo strano come padre Sullivan, il
burroso prete della piccola chiesa cattolica che frequentavamo fin da
piccoli, con la nostra nonna paterna.
Mi tolsi la vestaglietta e la ripiegai con cura, rendendomi conto che,
dall'arrivo di Patricia, avevamo smesso di andarci, come avevamo smesso
tante altre cose, evidentemente, per lei, persino le nostre origini
irlandesi erano difetti da nascondere; a volte Seamus, con
un'ingenuità tipica dei bambini, mi chiedeva
perché quella donna avesse sposato nostro padre, se voleva
cambiare tutto di noi, dal nostro modo di vivere e di essere,
all'aspetto di papà: quasi non l'avevamo riconosciuto quando
si era tagliato la barba, solo perché «...Patricia voleva
che avessi un aspetto più giovanile...».
Non avevo avuto il coraggio di rispondere a Seamus che a quella donna
interessavano i soldi del nonno, anche se erano soldi irlandesi, e
peggio ancora, che nostro padre sottoponeva se stesso e tutti noi a
quelle umiliazioni continue solo perché, per la sua
carriera, gli serviva una moglie dal nome importante con cui
riappropriarsi di una facciata di rispettabile normalità.
Una volta Edna mi aveva colpito le mani con il cucchiaio di legno, fino
a farmi piangere, sentendomi parlare così, diceva che ero
ingiusta con nostro padre e troppo piccola per essere così
cinica, era lei, però, a essere bugiarda, io ero solo
realista: era stata nostra madre a togliermi, da tempo, l'illusione che
esistesse l'amore, nel mondo c'erano solo convenienza, egoismo,
interesse verso ciò che puoi dare, e non verso
ciò che sei.
Sprimacciai il cuscino che avevo sistemato vicino alla finestra, per
guardare la neve che volteggiava su Essex Street e i rari passanti che
rischiavano a ogni passo di scivolare sul ghiaccio, alcuni appesantiti
dalle buste della spesa: nella mia strada non c'era mai troppo
movimento, era una via chiusa da un lato e tutta quella neve non
migliorava certo le cose. Quella mattina, invece, c'era stata
un'insolita vitalità davanti casa nostra, perché
i nostri dirimpettai, gli Sherton, avevano ricevuto diverse visite,
tutti personaggi che Edna avrebbe bollato come loschi e sospetti. Per
primo, dall'arco in fondo alla strada, era apparso un uomo alto,
vestito di scuro, un cappotto lungo fino a terra con una specie di
cappuccio che gli copriva buona parte del volto; un paio di ore
più tardi, proprio quando aveva ripreso a nevicare, era
comparso un vecchietto, magro e ingobbito, con un abito strano sotto il
mantello, sembrava quasi una vestaglia da femmina; poco dopo, un
gruppetto di almeno cinque o sei persone era apparso dal fondo della
strada nel momento in cui la nevicata si era fatta così
fitta, che sarebbero diventati dei pupazzi di neve, in attesa, immobili
sullo zerbino.
Era stato un bene seguire tutto quell'andirivieni, mi ero distratta e
non avevo rischiato di addormentarmi: con la febbre,
l'oscurità delle tende tirate, il tepore delle coperte, non
facevo altro che dormire e risvegliarmi di continuo, di soprassalto,
perdendo il senso del tempo. Quando succedeva, quando mi svegliavo di
colpo, avevo sempre il cuore in gola, mi sentivo confusa, non ricordavo
dove fossi e mi ritrovavo a chiamare la mamma, come da bambina... E
subito dopo piangevo, affondando i denti nelle lenzuola, per non farmi
sentire, perché la confusione passava e mi ricordavo che ero
una stupida che perdeva ancora tempo a soffrire per chi ci aveva
abbandonati. Non volevo essere così... debole...
Non ero più una bambina, non ero come mio fratello... presto
avrei compiuto tredici anni, avevo pure già baciato un
maschio - era solo la guancia di mio cugino Richard e lui stava pure
dormendo, ma questo, alle mie amiche non l'avevo detto- e soprattutto
il professore di educazione fisica diceva che giocavo a calcio meglio
dei maschi, e chissà, magari un giorno, come per Magia, si
sarebbe realizzato il mio sogno di essere la prima donna capocannoniere
in un campionato misto, e avrei portato sulle spalle il magico dieci
dell'Arsenal.
Pensai alla faccia di Patricia e risi: sì, sarebbe svenuta,
di sicuro, se fosse accaduta una cosa simile!
Ecco, era a questo che dovevo pensare, non a mia madre, violoncellista
della London Symphony Orchestra, che aveva lasciato mio padre, mio
fratello e me per fuggire con il suo viscido collega spettinato: a
volte in televisione davano uno dei loro concerti, ed io me li trovavo
entrambi davanti, lui preso dalla musica, lei che lo guardava adorante,
uno sguardo che a noi non aveva rivolto mai…
Le lacrime mi bagnavano la faccia, presi il cuscino e lo lanciai contro
la testiera del letto, rabbiosa.
Erano passati quattro anni da quella mattina, da quel misero «Mi dispiace»
scritto di fretta, tremante su un foglietto, papà non aveva
dovuto nemmeno battersi in tribunale, a lei non interessava nulla della
nostra sorte, doveva andare in tournée e soprattutto voleva
vivere con quello... senza di noi. Per dimenticare tutto più
in fretta, avevamo lasciato il vecchio quartiere, niente più
vecchia scuola, vecchi amici, vecchia casa, eravamo venuti a vivere
nell'abitazione ereditata dal nonno, dove papà era nato e
cresciuto e dove, per fortuna, ci aspettava Edna Mortimer, la
governante, una tipa energica, burbera, buffa, ma soprattutto una dea
delle torte. Lei, grande e grossa, io, un uccellino spaurito, avevamo
passato tanti pomeriggi, altrimenti tristi e rabbiosi, a sperimentare
delizie in cucina, con mio fratello assoldato come assaggiatore; Edna,
poi, nemmeno si arrabbiava quando combinavamo danni con la farina, ed
era giusto così, non era colpa nostra, era lei che, invece
di controllarci, passava tutto il tempo alla finestra, col binocolo, a
spiare i nostri vicini.
Con l'arrivo di Patricia, anche i giochi in cucina erano stati
dichiarati tabù «Manca
solo che diventiate due mostriciattoli obesi!» ci
ripeteva sempre e ci aveva imposto di passare tutti i nostri momenti
liberi sulla tastiera perché da piccoli avevamo iniziato a
studiare pianoforte e «A
voi serve disciplina e la musica vi è sempre piaciuta,
quindi suonate!». Lei forse non sapeva che, da
quando quella ci aveva lasciati, non volevamo più sentir
parlare del piano, nostro padre invece avrebbe dovuto intuirlo, ma
sembrava non gliene importasse niente.
Sentii il rumore della porta di sotto che si apriva e richiudeva,
rapida mi guardai attorno per vedere se fosse tutto in ordine o
qualcosa potesse tradirmi, a parte la mia faccia accaldata e colpevole.
«Ora ti prendo e te lo do io
il cacciavite... oh... buongiorno, giudice Flannery!»
«Papà!
Papà, diglielo! Ryan Mortimer, tu finirai in gattabuia se
non rispetterai le regole! »
«Naturalmente... E tu, Seamus
Edmund Flannery, resterai un mese senza televisione, se ti
vedrò ancora una volta correre per le scale con un
cacciavite in mano! »
«Ma papà, non
è un cacciavite qualsiasi, è il Cacciavite Sonico
ed io sono il Dottore! »
«Cosa ti dicevo, Edmund? Devi
fare qualcosa, quello che guarda in televisione è
diseducativo! Pensa se mi fosse caduto addosso con quel coso, mentre
entravo con il passeggino di Matthew! Un giorno o l'altro glielo
metterà in un occhio o ci ammazzerà per le
scale!»
Silenzio, rumore di tacchi nervosi per le scale. Le voci di Seamus e di
Ryan Mortimer pigolarono le più sentite scuse a
papà, me lo vedevo mentre si sfilava il cappotto con aria
severa e lo sistemava sull'appendi-abito, poi rivolgeva loro un sorriso
tirato e si tratteneva dall'accarezzare mio fratello, perché
Patricia glielo ripeteva sempre: «Mandalo
all'accademia, tu non hai tempo per lui e qui ci sono solo donne: vuoi
farne un debole?»
«Niente più oggetti
pericolosi e niente più corse per le scale, o niente
televisione, questo è l'ultimo avvertimento, siamo intesi?
Filate a lavarvi le mani, ora, che pranziamo! »
«Sempre che zia Edna abbia
preparato qualcosa, è stata sempre alla finestra a
curiosare!»
«Ahahaha, è vero...
pensa papà, è pure salita in mansarda con il
binocolo! »
«A lavarvi, o niente
televisione, intesi? Edna! Edna…»
Avevo seguito tutto il bisticcio con l'orecchio incollato alla porta,
poi mi ero infilata sotto le coperte, mi ero sistemata per bene, mentre
i ragazzi correvano per le scale e bisticciavano e facevano casino nel
bagno di fronte alla mia camera: se avessero ridotto la stanza a un
pantano, Edna avrebbe urlato tutto il pomeriggio, non perché
fosse un'odiosa snob amante maniacale del pulito, come Patricia, ma
perché il bagno dava sul retro, e quando doveva sistemare
lì, non poteva tenere d'occhio la strada.
Edna Mortimer, sessant’anni, era, senza rischio di
esagerazione, un'impicciona nata: vedova di guerra, senza figli, era
stata prima cameriera poi governante nella casa in cui era cresciuto
mio padre; da quattro anni vivevo sotto il suo stesso tetto e avevo
capito che non si trattava di una bizzarria, ma di una malattia vera,
Edna non riusciva a non farsi gli affari degli altri. Da sempre era
fissata con i Bauman del numero 26, secondo lei erano nazisti
imboscati; delle sorelle Trichet, del 12, sospettava non fossero
sorelle ma due dissolute, che vivevano nel peccato di Sodoma e Gomorra:
una volta disse pure la parola lesbiche davanti a papà, non
sapevo ancora cosa significasse, ma mai avevo visto mio padre
più infuriato, le aveva detto che era a rischio di denuncia,
le aveva intimato di darsi un contegno, o avrebbe cercato una
governante più adatta alla casa di un magistrato. E Edna,
soprattutto con l'arrivo di Patricia, si era calmata, o almeno ci aveva
provato.
Negli ultimi mesi, però, le cose erano tornate a peggiorare,
perché gli Sherton, proprietari della casa di fronte alla
nostra, disabitata da oltre dieci anni, avevano deciso di tornare a
vivere a Londra e assistere al continuo via vai degli operai e dei
proprietari l'aveva fatta uscire di testa: quando eravamo sole,
ripeteva che la casa era frequentata da individui bizzarri, che
succedevano cose strane, che gli Sherton erano loschi, che forse
fingevano di essere scozzesi ma erano come minimo irlandesi attivisti
dell'IRA; stavolta, memore della lezione sulle sorelle Trichet, temendo
di ritrovarsi senza lavoro, la signora Mortimer però aveva
deciso di procurarsi le prove, prima di dire a papà quanto
sospettava, e ora andava in giro dalla mattina alla sera con il
binocolo al collo e un taccuino in mano, su cui registrava orari e
spostamenti e descrizioni dettagliate di chiunque entrasse o uscisse.
Papà, vedendola così bardata, fingeva di non
accorgersi e faceva cadere il discorso quando Patricia gli sottoponeva
il problema, ma quando lo andavo a trovare nel suo studio, spesso lo
sentivo borbottare a mezza bocca parole minacciose come psichiatra,
neurologia, camicia di forza. Quanto a mio fratello e a me, nonostante
i tanti problemi, grazie a Edna e ai suoi misteriosi scozzesi,
riuscivamo persino a ridere: a volte sospettavo che lei recitasse la
parte della vecchia pazza, proprio per strapparci quei sorrisi.
A dire il vero, c'era anche un dettaglio imbarazzante che rendeva la
questione Sherton molto importante, per me: l'estate precedente, un
pomeriggio, poco prima dell'inizio della scuola, Patricia era in
ospedale per partorire e Seamus ed io ne stavamo approfittando per
giocare in tutta libertà nel giardino dietro casa, a un
tratto avevo visto passare, nella via interna, un giovane alto, dai
capelli un po' più lunghi del normale, castano scuro, e
degli insoliti occhi chiari, che facevano pensare al colore della luna.
Mi ero fermata a guardarlo, a bocca aperta come una stupida, con il
pallone in mano e Seamus che strillava perché avevo smesso
di lanciarglielo; il ragazzo aveva ricambiato lo sguardo e mi aveva
sorriso, poi con accento scozzese mi aveva detto soltanto «Buona serata,
signorina!».
Mi ero ritrovata a scappare lungo la scalinata di casa, ammutolita,
Seamus alle costole che strepitava perché voleva il pallone,
mentre io mi barricavo in bagno e con orrore osservavo allo specchio la
mia immagine, vedendomi per la prima volta con gli occhi impietosi di
Patricia: due orecchie rosso fuoco uscivano da sotto il cappellino da
baseball, sulla faccia paonazza lampeggiavano atterriti due sbiaditi
occhi da allucinata, la bocca era mezza aperta, tenevo stretto uno
stupido pallone da calcio, due codini di capelli color paglia mi
stavano appiccicati al collo sudaticcio, e i vestiti stropicciati erano
inzaccherati almeno quanto le scarpe infangate.
«Oddio, cosa avrà pensato di me?»
Quel signorina doveva essere stato ironico, visto il mio aspetto, ed
io, che di solito sarei stata capace di rispondere a tono, non solo ero
rimasta muta come una babbea, anzi un pesce lesso, ma ero pure
scappata! Morivo di vergogna ogni volta che ripensavo a quanto ero
stata ridicola quel giorno e quando uscivo, pregavo di non incontrarlo
più, per paura di altre reazioni imbarazzanti; a mia
discolpa, quel giovane, Mirzam Sherton - aveva pure il nome di una
stella, e questo mi aveva portato a interessarmi improvvisamente di
astronomia-, era così attraente da poter essere scambiato
per un divo del cinema, invece era una persona normale quindi non avrei
mai avuto una scusa valida per chiedergli una foto da sbaciucchiare!
Di solito non mi comportavo così, come una di quelle ochette
stupide che sospiravano e mi divertivo tanto a prendere in giro, ma non
riuscivo a togliermelo dalla testa, anzi, da quando papà
aveva detto che i vicini sarebbero tornati a vivere a Londra appena il
figlio si fosse sposato, a Natale, pensavo tra me a quanto anche in
quest’occasione fossi stata sfortunata.
«Certo, come se avessi una qualche chance, con uno
così! Soprattutto ora, con la varicella! Ti ci vorrebbe la
bacchetta magica, non basterebbe neanche una rigenerazione stile "il
Dottore"!»
Sospirai, sentii il passo leggero di mio padre sulle scale, mi sistemai
il lenzuolo sotto il collo e cercai di assumere una posizione che
sembrasse di sonno naturale, poi pensai che papà mi aveva
imposto solo di non farmi trovare in piedi, e se mi avesse visto
addormentata non si sarebbe fermato nemmeno per darmi un bacio sulla
fronte, io invece volevo averlo un po' con me, perciò mi
sistemai pancia sotto, con i guanti da forno sotto il mento,
approfittandone per grattarmi il collo, gli occhi che nella penombra
giocavano a riconoscere la sagoma del barattolo del miele sopra il
comodino, le bambole sulla cassapanca, il quaderno pieno di disegni,
tenuto a debita distanza perché, secondo Edna, «… fa male
forzare gli occhi quando c'è la febbre…»,
le cuffiette di lana che stavo lavorando ai ferri per Docty, il mio
gatto: quando Patricia aveva scoperto di essere incinta, aveva detto a
papà che dovevamo liberarcene e lui aveva cercato di
convincermi che sarebbe solo andato a vivere in campagna, Docty si
sarebbe persino divertito, all’aperto; io, però,
non fidandomi della megera, avevo preferito regalarlo a Ryan,
così durante la settimana potevo anche andare a giocarci.
Fu allora, mentre pensavo a Docty e papà, dopo aver bussato
piano alla porta, era entrato e si era avvicinato con un sorriso, che
tutto tremò, sbalzandomi giù dal letto, facendo
cadere a terra il barattolo del miele, facendo scivolare sul tappeto
mio padre; le finestre si aprirono con un boato e i vetri, ridotti in
briciole, mi crollarono addosso, per fortuna ero avvolta nella coperta
e non mi ferirono; il freddo e la neve entrarono con un ruggito
rabbioso, trascinando via fogli e vestiti, schiaffando le tende contro
il soffitto, le lenzuola contro le pareti. Ovunque, attutito, sentivo
urlare. Dopo quel breve, improvviso squarcio d'inferno, la stanza smise
di tremare: aggrappata al cuscino, spaventata, cercai di sollevarmi e
muovermi, ma a terra c'era un tappeto di vetri ed io non avevo la forza
di tirarmi su; mio padre si rimise in piedi a stento e mi prese in
braccio, mi chiese come stessi, ma dovette ripeterlo più
volte, non sentivo nulla, urlai che non ero ferita, all'inizio nemmeno
lui riuscì a sentire quello che dicevo. Confuso e
spaventato, si girò intorno, cercando di capire che cosa
fosse successo, si avvicinò alla finestra, con la neve e il
freddo mi resi conto che ora entrava anche un intenso odore di fumo,
guardai fuori.
La casa degli Sherton stava bruciando.
«Papà...
cos'è... stato? »
«Una fuga... di gas...
credo... ti porto di là, da me... spero non... Oddio,
Matthew... »
Già... nella mia stanza non si poteva restare, ma di
là c'era un bambino che rischiava la varicella.
«La camera degli ospiti... da
me porterò Seamus... Edna... e Ryan... devo controllare che
stiate tutti bene... che il telefono funzioni... devo… i
vigili... l'ambulanza... vedere di persona se c'è qualcosa
che posso fare per loro... un po' di metodo... e si
risolverà tutto... solo metodo... »
«E se Edna avesse ragione? Se
fossero dei terroristi? Se fosse stata una bomba? »
«Sono come noi, Annie!
Preghiamo piuttosto il Signore che non fossero in casa! »
Ed io pregai che non fossero in casa, anche se sapevo che erano
lì, mentre papà mi lasciava nella camera degli
ospiti, sola, dopo aver verificato che non fosse danneggiata come la
mia... Pregai, però, soprattutto, che quelle persone, quelle
come noi, non avessero una famiglia come la mia.
***
Orion Black
74, Essex Street, Londra - sab. 15 gennaio 1972
La neve è grigia.
Camminavo, in tranche, e sul mio viso si depositavano fiocchi di neve
grigia. Non capivo, non vedevo, l'unica immagine che avevo negli occhi
e nella mente era il teschio ghignante in cielo; avanzavo rapido, per
quanto si potesse senza rischiare di scivolare sul ghiaccio, in
silenzio, il cuore che batteva impazzito nel petto e nella testa, per
la fatica e per la paura: quando, al termine delle scale, superai
l'arco di Essex Street, compresi. E trattenni a stento tutta la mia
disperazione.
Cenere.
Quella che si depositava su di me, intorno a me, per metri e metri,
mista alla neve, era cenere. La cenere di un rogo. Il rogo di quella
che, fino a poche ore prima, era stata la dimora londinese degli
Sherton. Guardai, confuso, sospeso in un incubo, alla ricerca di un
dettaglio che mi rassicurasse, che mi confermasse che fosse solo un
sogno spaventoso da cui, presto, mi sarei svegliato. Tutto vano. C'era
fuoco, fuoco vero, fuoco che fuoriusciva dal tetto, dallo studio di
Alshain, fuoco che dardeggiava in fiamme alte e violente, simili a
figure demoniache, avviluppate alle finestre del secondo piano, le
camere dei ragazzi; in basso, l'ingresso era annegato in una pesante
cappa di fumo nero e la porta, strappata via dai cardini come tutti gli
altri infissi, giaceva sul marciapiede di fronte. Intorno, altri
edifici erano danneggiati: i detriti, esplosi via dalla casa, avevano
sfregiato intonaci, porte e finestre, il vuoto d'aria aveva infranto
vetri e trascinato a terra tegole e mattoni di comignoli.
È tutto vero.
Decine di Babbani, attoniti e infreddoliti, si addensavano nella via
stretta, ed io mi avvicinai con molta difficoltà: c'erano i
vicini, spaventati, che si lamentavano per la paura provata e per i
danni subiti, ma anche curiosi accorsi dalle vie limitrofe, attratti
dal fragore dell'esplosione, che ciarlavano di
«suicidio», «riscaldamento
difettoso», «fuga di gas», termini per me
incomprensibili.
A ridosso dell'ingresso, un paio di uomini, alti e minacciosi, le forze
dell'ordine babbane, teneva a distanza tutti gli altri, oltre quello
che chiamavano «cordone di sicurezza», mentre
quattro loro colleghi facevano domande ai presenti; una mezza dozzina
di Babbani vestiti di bianco scese da una vettura con una croce rossa
sulla fiancata, che arrancò con difficoltà nella
neve e tra la gente: un paio di loro si fermarono, le portantine
pronte, in mano strumenti simili a quelli dei nostri Guaritori, gli
altri iniziarono a curare chi si presentava ferito per una caduta o
aveva tagli causati dai vetri. Infine, dietro tutti gli altri, a
ridosso della casa, una decina di uomini, vestiti con una strana divisa
e con una specie di padella in testa, lavorava instancabile, come una
schiera di formiche operose: quattro entravano e uscivano
dall'edificio, altri si arrampicavano su due alte scale e reggevano dei
grossi tubi collegati a un paio delle loro vetture, sormontate da
contenitori voluminosi, simili ai recipienti che usavamo nelle serre di
Erbologia, per raccogliere l'acqua piovana. Alshain me l'aveva spiegato
una volta, ma io avevo stentato a crederci: senza Magia, i Babbani
spegnevano il fuoco con l'acqua, lavoro improbo, spesso letale; e
lento, troppo lento, in una casa così grande, in cui
potevano essere ancora intrappolati una donna e due bambini, privi di
sensi, forse gravemente feriti.
Salazar, fa che non siano qui, fa che siano riusciti a scappare, fai
che... o no, Salazar, no...
Ammutolii, annichilito, le preghiere che diventavano solo un
«No» ripetuto infinite volte per esorcizzare
l'inesorabile: i quattro pompfieri, scossi dalla tosse e dalla mancanza
di ossigeno, i visi anneriti dalla fuliggine, uscirono dal rogo
portando qualcosa nascosto sotto un sudario bianco, steso sopra un telo
scuro, lo depositarono a terra e fecero no con la testa al collega che
dirigeva le operazioni; i guaritori babbani si affiancarono ai
pompfieri, prestando loro i necessari soccorsi. Seguii, attento, tutta
la scena, stentando a capire, all'inizio, poi quando intravidi una
mano, bruciata dal fuoco, penzolare inerte da sotto il lenzuolo, sentii
qualcosa stringermi alla gola, fin quasi a soffocare, e gli occhi
riempirsi di lacrime.
Mi pentii di aver convinto Warrington a separarci per raggiungere Essex
Street ognuno per proprio conto: visto come i Ministeriali mi avevano
coinvolto nei fatti di Herrengton, e quanto la Confraternita sembrasse
caduta in disgrazia presso Milord, da bravo stolto non avevo reputato
saggio presentarmi con un Mago del Nord nel luogo sul quale campeggiava
il simbolo di morte del Signore Oscuro; e ora, da solo, non riuscivo a
trovare il coraggio per affrontare quei pochi metri.
Eppure dovevo farlo e alla svelta, perché tra la folla
c'erano anche numerosi uomini del Ministero: quando i Babbani
assistevano a un fenomeno di natura magica, erano subito attivate le
squadre degli Obliviatori, per cancellare il ricordo di ciò
che avevano visto; questa volta, poi, l'evento era, sicuramente, di
matrice oscura, per questo erano scesi in campo anche decine di Aurors.
Confondendo le menti dei Babbani, che trovandoseli di fronte li
scambiavano per normali agenti delle forze dell'ordine, parte degli
Obliviatori e alcuni Aurors, come da prassi, stavano già
avvicinando i potenziali spettatori del fenomeno apparso in cielo, a
partire dagli abitanti delle vie limitrofe, per proseguire in tutto
quel settore della città esposta alla vista del Marchio.
La maggior parte degli uomini di Crouch era invece a Essex Street,
attorno a me, e si stava occupando in modo capillare dei residenti
chiusi in casa e dei curiosi trovati per strada: bussando a ogni porta
o avvicinandosi, con fare distratto, alle spalle di ogni presente,
rendevano ogni Babbano docile con un Confundus che ne alterava le
percezioni, lo interrogavano, infine lo lasciavano all'Obliviatore che
pronunciava l'incantesimo per cancellare ogni segno e ogni ricordo di
quegli eventi.
Avanzando circospetto lungo la via, avevo incrociato almeno dieci
Babbani già Confusi: dovevo sbrigarmi, individuare le
persone che potevano ancora sapere qualcosa e conoscere i fatti, prima
che la sola Verità fosse quella raccontata dal Ministero;
con cautela, evitando di farmi riconoscere e cercando di non pensare
alla feccia che mi accerchiava, raggiunsi il 74 di Essex Street. Quando
notai un movimento delle tende, al secondo piano dell'abitazione di
fronte, mi chiesi perché gli Aurors non avessero iniziato il
loro lavoro dai Flannery, i vicini impiccioni che Alshain prendeva
sempre ad esempio di tutti i peggiori difetti babbani: se c'era
qualcuno a conoscenza di un dettaglio importante, di certo, viveva
là dentro.
Mi guardai attorno, furtivo, mi assicurai di non essere notato e
seguito, e mi accostai alla porta, deciso a bussare, ma pregando gli
avi di proteggermi dall'infarto che rischiava di cogliermi, appena
avessi sfiorato qualcosa appartenente a quella dannata gentaglia.
«Vi stavamo aspettando,
Black!»
A stento riuscii a mascherare un sobbalzo, udendo quella voce
sarcastica alle mie spalle, rimasi col pugno a un centimetro dal legno,
ingoiai la serie d’improperi poco Black che mi erano
già saliti alla gola, e mi voltai, in viso la migliore
espressione sprezzante usata per intimorire i miei interlocutori.
«Vi toglierete mai il vizio di
comparire alle spalle dei Maghi per bene, per importunarli?»
«Perché dovrei?
È il modo migliore per carpire la vera natura delle persone,
soprattutto quando mentono. Quanto ai vizi, ognuno ha i propri...
prendiamo voi, Black: un Mago così discreto e
imperturbabile... con l'insana tendenza a condividere i guai della
famiglia Sherton...»
«Primo, come vivo non
è affar vostro, Moody, secondo, visti i teatrini che mettete
in scena voi del Ministero, cercare informazioni di persona
è inevitabile e doveroso! Solo gli stolti ormai credono alle
vostre Verità ed IO non sono uno stolto, io vi conosco,
sareste capaci di sfruttare eventi drammatici come questo per i vostri
ignobili scopi, stavolta, però, non ci riuscirete, sono
pronto a impedirvelo: sono implicati dei bambini, i miei figliocci, e
sull'onore dei Black, io...»
«Risparmiatemi la solita solfa
sui Black, non sono uno di quei vostri Consiglieri da abbindolare con
lusinghe e minacce! Abbiamo appena scagionato Mirzam Sherton, il vostro
figlioccio, dalle accuse riguardanti i fatti di Herrengton: i vostri
discorsi sulla presunta faziosità,
perciò...»
«Salazar! I miei
più sentiti complimenti, Moody! Siete riusciti a scoprire
l'ovvio, finalmente! Quanto ci avete messo, due settimane? Tre
settimane? Un mese? Nella casa che brucia davanti a noi, stamani
c'erano una Strega e due bambini, di un anno l'uno, di pochi mesi
l'altra. Se, come spero, nonostante tutto, ci fosse ancora una
possibilità di salvezza per loro, voi sareste capaci di
sprecarla, con la vostra inettitudine! Ed io non posso accettarlo! Per
questo non resterò qui un solo altro istante con voi, a
guardarvi buttare via le loro vite! Non senza reagire!
Addio!»
«Voi non andrete da nessuna
parte, Black! Sto indagando su degli omicidi per conto del Ministero e
voi siete un testimone: se sarete reticente, vi arresterò e
sottoporrò a Veritaserum...»
«Che cosa? Siete impazzito,
Moody? Voi state cercando di minacciare ME? IO SONO ORION ARCTURUS
BLACK! E VOI, PATETICA NULLITÀ, NON POTETE
MINACCIARMI!»
«Vogliamo scommettere? Nessuno
di noi qui ha tempo da perdere dietro alle sceneggiate,
perciò, se non volete essere arrestato con l'accusa di
complicità, oltre che d’intralcio alla giustizia,
vi conviene calmarvi e iniziare a rispondermi! Come avete saputo quanto
stava accadendo qui?»
«Come osate anche solo
insinuare che io sia in qualche modo responsabile di...»
Lo fissai con odio, ma mi morsi rapido la lingua: nessuno poteva
permettersi di trattarmi così e farla franca, l'avrei
volentieri Cruciato, anzi, per il piacere di umiliarlo, fatto sbattere
a pulire cessi a Azkaban, a vita. Se mi fossi impuntato,
però, Moody avrebbe dato seguito alle sue minacce ed io
avrei perso altro tempo prezioso, perché quello che avevo di
fronte non era un uomo, ma un mulo testardo che, pur di avere l'ultima
parola, non avrebbe badato alle conseguenze delle proprie azioni,
propensione certo ereditata da qualche ignobile antenato babbano!
L'unica soluzione era fingere di collaborare e liberarmene al
più presto. Alla vendetta avrei pensato in seguito, con
tutta calma.
«D'accordo, vi
ascolterò... purché vi togliate presto
dai… piedi! E ricordate, canaglia, io non dimentico! Abito
non lontano da qui, lo sapete, avete infastidito la mia famiglia
nemmeno una settimana fa: alla finestra, ho visto quella cosa sopra la
città babbana, e... a Londra poche famiglie di Maghi vivono
in mezzo alla feccia: su questo lato del fiume, ci siamo solo noi e gli
Sherton...»
«E che cosa sapete dirmi degli
spostamenti di Sherton? Dopo essere usciti insieme dal Ministero,
più di un'ora fa, dov'è andato? Siete preoccupato
per la moglie e i figli, ma non per lui, mi pare di
capire...»
«Sherton si è
trattenuto da me ed è uscito da casa mia meno di un'ora fa,
a piedi, nonostante la neve: di solito si ferma a comprare fiori per la
moglie, perciò... sono meno preoccupato per lui, rispetto ai
suoi familiari, perché esiste la possibilità che
non sia ancora rientrato a casa...»
Moody ebbe la decenza di non commentare la storia dei fiori e della
neve, alzò invece gli occhi verso l'oscuro ghigno che stava
disperdendosi tra le nubi, chiamò quel dannato guastafeste
di Potter, l'Auror che da qualche settimana, con la sua presenza
assidua e le sue deposizioni, era diventato una spina nel fianco per me
e i miei amici, gli parlò sottovoce, poi lo
congedò e tornò a fissarmi, fosco.
«Vorrei poter essere
altrettanto ottimista, Black... davvero... Seguitemi...»
«Non se ne parla! Io vi ho
risposto e non ho altro da dirvi... Ora pretendo di essere lasciato in
pace! I Babbani che vivono in questa casa sono i peggiori impiccioni di
Londra, Moody, e visto che non siete il segugio che tutti dicono,
altrimenti non perdereste tempo a importunare me, ma sareste
là dentro a far loro domande, entrerò io in
quella casa... di persona...»
«Voi? Voi vorreste entrare in
una casa babbana e interrogare i proprietari? Andiamo, Black! I
Medimaghi curano malati, non rianimano razzisti svenuti! E non
preoccupatevi dei Flannery, i miei uomini li hanno già
ascoltati, tutti: coppia, tre figli, governante, di quanti risultano al
Ministero, mancava solo il gatto. Li hanno anche Obliviati e Confusi,
perciò dormiranno fino a domattina.»
Sollevai lo sguardo verso le finestre del secondo piano, dubbioso, ma
intenzionato a tenere i miei sospetti per me: se erano stati
affatturati e ora dormivano tutti, chi aveva abbassato le tende quando
avevo guardato verso la casa? Certo, forse era stato solo il vento,
magari c'era un vetro rotto, ma...
«La donna era spaventata, in
preda a una crisi isterica, il marito non ha saputo dirci molto
perché sono stati via tutta la mattina; i ragazzi erano in
casa, ma impegnati a giocare non hanno guardato fuori... la governante,
al contrario, è stata molto loquace «... per tutta
la mattina sono arrivate persone…» a cominciare da
quello che dalla descrizione dovreste essere voi, Black, «...
un uomo strano ma a modo suo elegante, che ho visto spesso entrare in
quella casa... poi un vecchio, da solo, poi quattro o cinque persone
tutte insieme, tutti uomini...» ha messo l'accento su questo
particolare, come se ci fosse qualcosa di losco, di sicuro non vede di
buon occhio Sherton «... Erano tutti vestiti di scuro, con
pastrani lunghi e cappuccio a coprire la testa, nessuno di loro si era
mai visto, a parte i primi due: il vecchio è un eccentrico,
ha i capelli bianchi e lunghi, una giacca da camera stravagante, quasi
femminile, sotto il mantello... Non ho visto uscire nessuno di loro,
perciò, se non sono spariti nel nulla, come per Magia, tra
quelle fiamme ci sono molti, troppi morti...»…
»
Non commentai la logica della Babbana, né il giudizio di
«strano ma elegante» che aveva osato rivolgermi, mi
chiesi invece perché, al contrario degli altri, mi avesse
riconosciuto, se avevamo tutti il volto coperto dal cappuccio: passando
tutto il suo tempo a spiarci, aveva maturato l'abilità di
cogliere dettagli importanti? Attraverso le sue descrizioni, avrei
potuto dare un nome ai responsabili di quell'orrore? Moody ne sarebbe
stato capace, anzi, forse c'era riuscito: mi chiesi che cosa si celasse
tra i suoi appunti, quelli che non avrebbe condiviso con me, e
perché, al contrario, mi leggesse proprio quelle parti della
deposizione. Rabbrividii: pur senza un motivo concreto, ero certo che
artefici di quella devastazione fossero, come al solito, mia nipote e
suo marito e, di conseguenza, ne fossi indiretta causa io che, tacendo,
avevo impedito fosse fatta giustizia, dopo Herrengton.
Moody stava accumulando prove delle mie sciagurate
responsabilità e voleva lo sapessi?
«…«... l'unico che ho
visto uscire, poco prima dell'esplosione, è stato il figlio
maggiore: non si vedeva da un mese, si è sposato... no, non
mi sbaglio, non era suo padre, li so riconoscere...»…
»
Moody mantenne insondabile la sua espressione, alla fine richiuse il
taccuino su cui aveva trascritto le mie parole e da cui aveva letto gli
appunti: avrei fatto di tutto per vedere cos'altro avesse scritto, cosa
gli avesse rivelato quella dannata Babbana, perché mi
rifiutavo di credere che Mirzam avesse...
«Ora seguitemi... So che non
è un bello spettacolo, soprattutto per chi non è
abituato, ma ho bisogno che riconosciate il corpo che i Babbani hanno
estratto dalle macerie...»
«Che cosa? Il corpo? Quale
corpo? Io? No io... io non…»
M'impuntai, non volevo seguirlo, ormai tremavo all'idea che la mano
carbonizzata che avevo intravisto fosse di Deidra, ma Moody mi
afferrò per un braccio senza troppi convenevoli, mi
trascinò tra la folla nonostante le mie proteste
finché, sulla neve accumulata lungo il marciapiede, dietro
uno dei pollizotti sottoposti a Confundus, vidi il telo steso a terra e
la figura celata dal sudario; rabbrividii quando notai il dettaglio di
un piede o, meglio, del moncherino che ne restava, che sporgeva sulla
neve mentre, accanto, dell'altro piede, c'erano solo brandelli anneriti
di stivali di pelle di Drago, da cui emergevano croste di pelle nera di
fuliggine e carne rosso sangue.
Sospirai, per lo meno, quella cosa non poteva essere Deidra, lei non
portava certo stivali simili in casa, ma ripiombai subito nella
disperazione più profonda, perché Alshain,
invece, vanitoso com'era, possedeva un'intera collezione di stivali di
Drago Nero e quella mattina ne indossava proprio un paio.
«Avvicinatevi... e ditemi se,
secondo voi, quest'uomo è chi molti presumono che
sia...»
Moody era una sfinge, ma mi parve di cogliere una nota di sfida nel suo
sguardo. Io mi chinai, le lacrime agli occhi, e non solo per il fumo
acre che continuava a uscire dalla casa, sollevai il lenzuolo, fino al
petto, non volevo guardare: se fosse stato Alshain, io... No, non
volevo che l'ultimo ricordo del mio amico fraterno fosse quello, se
possibile avrei tentato di riconoscerlo dalle vesti, ma ciò
che mi trovai davanti era solo un ammasso di ossa annerite coperte da
esigui brandelli di toga fumante, troppo poco per riconoscerla come
quella indossata quel mattino. Riluttante, dovetti sollevare il sudario
fino alla testa, tremando a ogni centimetro che andavo a scoprire, ma
nemmeno i lineamenti esistevano più, le ossa erano in parte
coperte solo dagli strati più profondi di carne
carbonizzata, i capelli erano bruciati, eccetto radi ciuffi che
sopravvivevano a chiazze sul cranio scheletrito, più chiari
di quelli di Sherton, certo, ma non m'illudevo, il fuoco poteva averne
alterato il colore.
Non riuscivo a cogliere alcun dettaglio che confermasse o escludesse
che quell'uomo fosse Alshain, persino su ciò che restava del
collo era impossibile dire se ci fossero mai state delle Rune.
«Sherton ha lasciato l'anello
del Nord al Ministero, e mi pare che oggi non ne avesse
altri...»
Le parole dell'Auror mi distolsero dalla mia prostrazione, inattese
dispensatrici di speranza; pregai, frugai e presi la mano sinistra, con
delicatezza la sollevai per studiarla: non c'erano anelli, come non ne
portava Alshain quando era uscito da Black Manor, ma mettendo a
confronto quelle dita annerite con le mie, notai che la mano era
stranamente piccola, Sherton era più alto e robusto di me,
aveva mani grandi e forti. Presi anche l'altra e l'osservai,
scrupoloso: sì, erano piccole rispetto alle mie e quel
dettaglio non poteva essere causato dal fuoco; le tre dita centrali
della mano destra, inoltre, erano spezzate tra la seconda e la terza
falange, come se qualcuno le avesse forzate, ormai irrigidite, per
portar via degli anelli.
Era un dettaglio importante, se avessi rivangato nella memoria forse
sarei giunto a un nome e a un volto tra i conoscenti di Alshain, ma ero
così sconvolto e al tempo stesso euforico, da non riuscire a
trasformare quella confusa intuizione in un pensiero lucido e coerente;
l'unica certezza era che quel corpo non apparteneva a Sherton. Tutto il
resto non aveva importanza.
Sollevato, alzai gli occhi su Moody e negai con la testa, l'emozione
m'impediva di parlare.
«Grazie della conferma, Black,
non ci avevo creduto un solo istante... se lo scopo era convincerci che
questo fosse Sherton, spezzargli le dita, per di più della
mano sbagliata, è stato un errore: durante l'udienza non
aveva anelli, non c'era nulla da rubare... Per ottenere informazioni,
poi, sarebbe stato più sensato minacciare la famiglia o
sottoporlo a Imperius. La resistenza al dolore fisico dei Maghi della
Confraternita non è una leggenda, abbiamo scoperto che
perfino i metodi più utilizzati ad Azkaban con loro
sortiscono scarsi effetti... Questo scempio è servito solo a
impedirci la rapida identificazione del corpo... il corpo di un
Mangiamorte!»
Moody si chinò accanto a me, prese il braccio del cadavere e
lo ruotò piano, per non spezzarlo, con sorpresa vidi che,
pur divorato in parte dalle fiamme, il ghignante Marchio dei
Mangiamorte era impresso negli strati più profondi della
carne e, ormai immobile, sembrava un'orrida bestia velenosa, finalmente
morta. Nella mia mente, colto da illuminazione improvvisa, la
confusione si diradò, compresi a chi appartenessero quei
resti: nemico giurato degli Sherton... ricco collezionista di anelli...
Mangiamorte.
Quasi dimenticai di essere dinanzi a un uomo pericoloso come Alastor
Moody, persino il sollievo che non fosse Alshain passò in
secondo piano, feci fatica a trattenere una risata, grande il tripudio
in me, nel vedere morto e divorato dalle fiamme il mio peggior nemico.
Eri solo questo, un'orrida bestia velenosa... e ora, spero tu ti stia
godendo l'inferno, te lo sei meritato tutto, Lestrange!
*
«Allora? Avete perduto la
lingua, Black? Avete idea di chi possa essere quest'uomo?»
Mi riscossi, il ghigno di soddisfazione, che avevo celato con
difficoltà chinandomi a guardare da vicino il cadavere di
Roland Lestrange si trasformò nella solita espressione di
disgusto e, rialzandomi, fulminai Moody con una delle mie abituali
occhiatacce, cariche di disprezzo.
«Credete forse che un Mago
come me abbia a che fare con gentaglia simile, Moody? Non ho parole!
Non conoscete vergogna! Mi avete fatto temere fosse Sherton, quando
sapevate già che...»
«Era un Mangiamorte, e noi non
sapevamo se Sherton fosse seguace del Signore Oscuro!»
«Sherton seguace di...
Salazar! Voi non capite niente! Questo sarebbe il vostro modo di
indagare? Gettare fango sulle persone per bene? Siete un branco
d’inetti e non fate che provarlo!»
Avrei voluto insultarlo ancora, ma le mie parole e le mie minacce erano
vuote, la furia che mi era montata dentro, per l'inganno subito, si era
dispersa nel sollievo provato: mi ero avvicinato a quella casa con la
disperazione nel cuore, ma ora, vedere il corpo di Lestrange, dilaniato
dalle fiamme, infondeva in me la confusa speranza che Alshain fosse
riuscito a reagire e a fuggire con i suoi cari.
«Moderate le parole, Black e
seguitemi... c'è dell'altro che vorrei mostrarvi... ma non
qui...»
«E dove? In casa? Siete pazzo!
Andate pure, io non mi farò bruciare vivo là
dentro, per voi!»
«L'incendio è
circoscritto a una stanza del secondo piano, quella di Mirzam Sherton,
almeno così crediamo dagli oggetti rinvenuti: il Mangiamorte
era lì; tutto il resto è una
messinscena...»
«Come sarebbe una messinscena?
Vi avverto, Moody, ne ho abbastanza dei vostri scherzi!»
«Sapete, vero, che i
Mangiamorte gettano incantesimi Antismaterializzazione quando
colpiscono? Sherton non aveva con sé l'anello, non poteva
chiedere aiuto, e la Metropolvere pare sia scollegata... Siamo in piena
Londra, però, e Sherton deve averla pensata per tempo: ha
predisposto tutto per simulare lo scoppio di un incendio, contenendone
persino gli effetti deleteri...»
«Che cosa vorreste dire? Che
è stato Alshain ad appiccare il fuoco alla casa?
Perché? Non ha senso!»
«Il fuoco è da
sempre ciò che più mette in allarme i Babbani: se
fossimo in difficoltà e chiedessimo aiuto, potremmo non
riceverne, perché molti pensano solo agli affari propri...
ma se gridassimo “Al fuoco!” avremmo l'attenzione
di tutti. Sherton sapeva che, simulando con la Magia un incendio,
avrebbe attirato l'attenzione dei vicini, i soccorsi sarebbero stati
immediati e avrebbe costretto gli Obliviatori ad attivarsi subito, per
la vistosa violazione del Trattato di Segretezza...»
«Salazar! L'ho visto
approntare negli ultimi mesi nuovi incantesimi difensivi in tutta casa,
ma non immaginavo fosse per questo... Ha funzionato? Li avete soccorsi,
vero? Dove sono? Sono feriti? Sono al San Mungo? Ditemelo! Me lo
dovete, dopo tutto quello che mi avete fatto passare!»
Moody non mi rispose, il suo sguardo si fece duro, profondo, con un
cenno si limitò a invitarmi a seguirlo, io sentii il cuore,
che aveva appena accelerato il battito, preda della speranza, perdere
all'improvviso un paio di colpi, la gola farsi secca, un brivido gelido
corrermi lungo tutta la schiena.
«...Sto indagando su degli
omicidi per conto del Ministero...» Moody ha detto
“omicidi”... al plurale... c'è qualcun
altro, morto, oltre a Lestrange... qualcuno che non vogliono o non
possono far uscire dalla casa... per questo vuole che lo segua...
perché non hanno messo in salvo nessuno... perché
quando sono arrivati non c'era già più nessuno da
salvare... perché... Salazar... no... no... non tutti... non
tutti... Salazar... no...
Ammutolito, preda di un tremore difficile da controllare, seguii
l'Auror come un condannato al patibolo, mi feci largo tra i pompfieri
babbani che, superata la finta massa di fuliggine, concentrata
magicamente all'ingresso, restavano sulle scale, immobili, lo sguardo
vuoto, ottenebrati dal Confundus, per poi rianimarsi e riprendere il
loro moto perpetuo, dentro e fuori la casa. Attorno a noi l'aria era
respirabile e non c'erano altri focolai d'incendio, ma erano evidenti
le tracce della lotta e dell'esplosione, che a quel punto non sapevo
più come spiegarmi: i soprammobili dell'ingresso erano stati
distrutti dai Reducto e dagli Schiantesimi, il quadro di Ryanna e
Tobias era liquefatto, residui del fuoco magico, visibile all'esterno,
segnavano le pareti, superando l'altezza di Alshain.
Camminai in silenzio su un tappeto di cenere, vetri, cristalli,
porcellane ridotti in pezzi finché, raggiunto il salotto,
sulla mia schiena i peli si rizzarono, come da ragazzino, a Hogwarts,
quando, a quattordici anni, avevo visto portar via il corpo della
giovane uccisa nei bagni. A quei tempi, al pari dei miei parenti, avevo
festeggiato la morte di quell'insulsa SangueSporco che, con la sua sola
presenza, portava discredito a Hogwarts, le cui porte avrebbero dovuto
aprirsi solo per chi, come noi, aveva Sangue Puro nelle vene; ora,
però, quello stesso odio era stato riversato persino su un
amico fraterno, uno Slytherin, che aveva fatto della Purezza di Sangue
un cardine della propria vita.
Mi sentivo male: mi guardavo attorno e vedevo ogni cosa ridotta a un
cumulo di macerie, ero così turbato e confuso da voler solo
fuggire, fuggire da me stesso, avrei dato ogni cosa, per non pensare,
per non vedere, per non ricordare. Per non aver mai aperto gli occhi su
quell'orrore.
Questa è opera del Signore Oscuro?
L'esplosione è stata causata da Lui?
Non c'erano dubbi: non solo i Mangiamorte, anche Lui era stato
lì, in quel salotto che era stato, per tutti noi, la
scenografia dei nostri momenti più felici, di tante serate
in famiglia, di chiacchiere, di risate di bambini, di musica e vino.
Ora quel luogo, così violato e spezzato, non mi apparteneva
più, né io gli appartenevo, non avrebbe
più contenuto vita e risate, sarebbe stato per sempre solo
l'orrido altare sul quale Lord Voldemort aveva sacrificato i miei
amici, solo per celebrare la propria potenza. Tremai, spaventato,
chiedendomi chi di noi sarebbe stato il prossimo, poi iniziai a girare
per la stanza, di nuovo con l'assurda speranza che fosse un incubo e
che prima o poi mi sarei svegliato.
Il soffitto, vicino alla portafinestra che dava sul giardino, era in
parte crollato, attraverso il solaio lacerato riuscivo a vedere i danni
alle stanze dei due piani superiori, un mobile della mansarda pareva
sospeso nel vuoto, pronto a caderci addosso, attraverso la voragine che
proseguiva anche nel pavimento e, superato il piano interrato,
sprofondava nella viva terra; alzando gli occhi, attraverso uno
squarcio sul tetto, vidi che ciò che era rimasto del Marchio
in cielo, era perfettamente perpendicolare a quello sfacelo. Nella
stanza, le pareti erano ricoperte da qualcosa di nero e viscoso,
vivido, mai visto prima; tracce di bruciature si espandevano dal camino
fino al soffitto e, a pioggia, ricadevano verso il basso; sul divano e
sul tavolino, schiantati contro la parete, c'erano evidenti schizzi di
sangue; tutti gli oggetti erano ammucchiati contro le pareti,
fracassati al suolo, come se fossero stati lanciati dal centro della
stanza in tutte le direzioni, i vetri al contrario convergevano nel
mezzo del pavimento.
E lì, al centro, un'orrida macchia scura si allargava sul
tappeto, informe, come i resti di una pira funeraria: mi avvicinai,
ipnotizzato, mi chinai, allungai la mano e la passai per toccare la
cenere, ma a parte i vetri, che mi tagliarono, non c'era nulla, la
macchia era impressa a fuoco nel tessuto e, come le bruciature
sull'arazzo dei Black, aveva bordi ancora caldi e fumanti.
Capii subito che non era stato il fuoco a imprimere quella macchia, ma
la Magia, Magia Oscura.
«Non sappiamo cosa sia, ma
l'abbiamo già controllata, Black, lì non
c'è traccia di residuo organico; con questo non voglio
illudervi: la maggior parte delle vittime dei Mangiamorte sparisce
senza lasciar traccia; in alcuni casi, sul luogo delle sparizioni,
abbiamo trovato cose che prima non c'erano: alcune vittime sono state
trasfigurate in oggetti, dopo essere state uccise, quando l'abbiamo
capito, abbiamo usato dei contro-incantesimi e siamo riusciti a
recuperarne i resti.»
«Salazar... ma è
atroce, per chi resta, vivere privi di certezze, sospesi tra incubo e
speranza!»
«Perché credete che
lo facciano? Non per nascondere prove, uccidere fa parte della loro
propaganda! L'incertezza produce il doppio del dolore nei superstiti e
loro godono nel veder soffrire le proprie vittime! Per questo vi ho
chiesto di seguirmi: se possibile, vorrei evitare che i figli, oltre al
lutto, patiscano anche questo inutile stillicidio!»
Mi guardai attorno, fissai quelle macerie, compresi poco alla volta
cosa volesse Moody da me, dovevo essere io a indirizzarli verso
eventuali oggetti che non appartenessero alla casa; iniziai a fare no
con la testa, inorridito: non credevo di esserne capace, a Meissa e
Rigel doveva essere risparmiato quel dolore, ma la disperazione che
provavo mi rendeva cieco. Sentii il panico salirmi lungo la schiena,
gocce di sudore gelido mi bagnarono la faccia, il mio respiro si fece
corto: stavo crollando, una voce in testa mi ricordava quanto fossi
debole, inetto, come non avessi mai fatto nulla di buono, avevo
addirittura dato il mio contribuito a quella strage, negando la
verità su mia nipote. E ora avrei fallito di nuovo, non
sarei riuscito ad aiutare i miei figliocci, li avrei visti crescere nel
dolore, impotente.
Ero disgustato da me stesso ma, invece di reagire, mi lasciai andare
alla follia, rifuggendo la verità che avevo attorno,
negandola come fanno i bambini.
«No, non vi credo. Chi mi dice
che non sia un complotto? Com'è possibile che un uomo che ha
predisposto tutto questo non sia riuscito a scappare? Io credo che voi
mentiate, Moody: avete iniziato questa mattina, al Ministero con quelle
assurdità sull'anello, per impedire ai Maghi del Nord di
comunicare tra loro... era tutto stabilito dall'inizio... La
Metropolvere era disattivata: chi può farlo a parte voi del
Ministero? Avete spedito Alshain Sherton ad Azkaban, non è
così? Comodo dichiararlo morto, ucciso dai Mangiamorte che
non lasciano tracce: nessuno farebbe domande, tutti, rassegnati,
piangerebbero e non vi chiederebbero conto! Ed io dovrei ufficializzare
la cosa? Mai!»
«Black, voi siete uscito di
senno! Guardatevi intorno... guardate il Marchio in cielo...»
«Pur di salvarsi dai
Dissennatori, un Mangiamorte arrestato può averlo evocato
per voi, per la vostra messinscena... è così che
l'avete chiamata, no? Sherton è abile e astuto, l'ha
dimostrato predisponendo tutto questo: c'erano Passaporte, nella casa,
le ho viste con i miei occhi, so dove si trovano alcune di esse... non
può essere morto così... voglio sapere cosa gli
avete fatto!»
«Black, calmatevi... io
capisco... è difficile da accettare... ma... ascoltatemi...
Sherton era abile e astuto, vero, ma tante cose potrebbero essere
andate storte: forse, quando ha messo piede qui, i suoi familiari erano
già morti e, sconvolto, è stato incapace di
reagire... oppure è rimasto tagliato fuori dalle Passaporte,
in trappola, sappiamo che era in inferiorità numerica... ha
attivato gli incantesimi allestiti per chiamare i soccorsi, certo, ma
Lui poteva essere già qui... o può essere
arrivato prima di noi... Black, guardatevi intorno... aiutatemi a dare
conforto a quei ragazzi!»
Non trovai le parole né la forza di replicare, a ogni parola
dell'Auror sentivo la vita scivolarmi via dalle dita, perché
dentro di me lo sapevo: Moody aveva ragione. Quel maledetto aveva
ragione, non aveva senso illudersi, il Marchio che aleggiava sopra la
casa e soprattutto il gelo che si respirava tra quelle pareti
raccontavano un'unica storia. Una storia da cui era bandita la
speranza.
«Black... ascoltatemi...
Stando alla deposizione della Babbana, un uomo che assomiglia a Mirzam
Sherton si è allontanato, poco prima del nostro arrivo:
crediamo fosse un Mangiamorte, vogliono far ricader sul ragazzo la
responsabilità della strage... io prima non vi ho
detto...»
«Salazar... e se non si fosse
trattato di un Mangiamorte? Se fosse implicato anche lui?»
Ero sconvolto, se fossi stato in me, non avrei mai pensato
un'atrocità simile, ma avevo un macigno sul cuore e nulla
aveva più senso: rabbrividii, un'onda di ricordi, gli anni
più belli della mia vita, mi sommergeva, mentre la voce di
Deidra piangeva “Non puoi pensare questo di mio
figlio!”.
«È ciò
che il Dipartimento fingerà di credere, Black: il vostro
figlioccio sarà considerato l'unico responsabile della morte
dei propri congiunti, e l'unica vittima di cui si siano recuperati i
resti, suo padre; in realtà, Mirzam Sherton è
stato incastrato fin dall'inizio...»
«Che cosa? E pur sapendolo,
avreste il coraggio di lanciargli un'accusa simile? Vi rendete conto
che così i ragazzi cresceranno con l'idea che il fratello
maggiore, l'unico familiare che resta loro, sia l'assassino dei
genitori? Non c'è già abbastanza orrore in tutta
questa storia, Moody?»
«Il Signore Oscuro vuole
Herrengton. Il ragazzo è in fuga con Habarcat per impedirlo;
appena saprà che il padre è morto, potrebbe
uscire allo scoperto, affrontare il Lord e soccombere. E a questo
punto, l'assassino dei vostri amici avrebbe vinto. È questo
ciò che volete, Black? »
«Mirzam Sherton non
è un vigliacco! È come suo padre, è
nato per guidare la Confraternita! Non sarà un'ignominiosa
falsa accusa a tenerlo lontano dai fratelli, non nel momento del
bisogno!»
«È già
stato stabilito: al momento della cattura, a causa della grave colpa di
cui si è macchiato, Sherton sarà sottoposto al
bacio del Dissennatore, alla presenza dei suoi stessi fratelli, e senza
un processo... Speriamo che l'idea stessa di un orrore simile, lo
faccia desistere dal tornare a casa... se starà alla larga,
il Signore Oscuro non prenderà le Terre e tre dei figli del
vostro amico saranno in salvo. Questa è l'unica strada,
Black, l’unica… quanto ai ragazzi, non corrono
rischi: non esiste luogo più sicuro di Hogwarts,
finché Dumbledore ne sarà il Preside!»
«Sì, l'ho visto dai
lividi sul volto di mio figlio, quanto è sicura quella
scuola! Se vuol costringere Mirzam Sherton alla resa, il Signore Oscuro
si scatenerà sui ragazzi, indipendentemente da Dumbledore! E
se tutta la vostra tattica si ridurrà a questo, Moody,
infangare un innocente, state certo che accadrà
ciò che vorreste evitare... Sapete perché?
PERCHÉ VOI DEL MINISTERO SIETE SOLO DEGLI INETTI FIGLI DI
PUTTANA! »
*
Mi morsi la lingua, ero furioso e disperato, non ero più in
grado di mantenere il mio contegno, né, al momento, avevo la
lucidità necessaria per essere di qualche aiuto: mi guardai
ancora attorno, tornai a fissare la macchia, vidi con la coda
dell'occhio Moody allontanarsi, borbottando «Siete sconvolto,
Black... vi lascio solo, a riflettere, ne avete
bisogno…», concedendomi così un po'
d'intimità per salutare gli amici perduti e per iniziare a
controllare un po' in giro, appena me la fossi sentita.
Respirando a fatica, mi chinai, portai la mano alle labbra per poi
sfiorare quel tappeto in un bacio d'addio, il cuore invaso dalla
pietà; non ero mai stato portato per la
spiritualità, ma mi ritrovai a recitare a fior di labbra le
preghiere che mi aveva insegnato mia madre, interrompendomi
più volte, per l'emozione, e ritrovando il filo con molta
difficoltà. Rimasi a lungo chino a terra, passando quei
minuti eterni a spaziare con gli occhi tutt'intorno, senza vedere la
realtà, ma i fantasmi di un mondo perduto, quando,
all'improvviso, mi accorsi che forse le mie preghiere erano state
ascoltate.
Qualcosa luccicava verdastro sotto un cumulo di vetri, a pochi
centimetri dalla macchia, rapido allungai la mano e lo raccolsi, lo
riconobbi subito, dalla fascia di oro rosso sul quale era incastonato
uno smeraldo; mi si strinse il cuore ancora di più: avevo
trovato l'Anello del Nord che Alshain aveva regalato a Deidra, quando
la Strega aveva completato il Cammino, solo per amore del marito; lo
ruotai nella mano, ne osservai l'interno, vidi le Rune incise, erano
antiche e non riuscivo a leggerle, sapevo però che recavano
i versi che Alshain le aveva scritto, convincendola della
sincerità del suo amore.
Tornai con la memoria a quella lontana mattina radiosa, il sole sorgeva
lieve dalle acque, l'aria salmastra permeava la grotta di Salazar, a
Herrengton, confondendosi con l'odore della cera fusa e delle piante
rituali, bruciate nei bracieri; Deidra, vestita di bianco, era scesa
dalla barca e un Mirzam piccolissimo, ritto sulle sue gambette paffute,
le era corso incontro, sulla spiaggia, dandole il benvenuto nelle Terre
del Nord, sotto lo sguardo orgoglioso di un Alshain mai tanto
emozionato.
Siete qui... dove tutto è iniziato, tutto è
finito... i miei migliori amici… uniti per sempre nell'amore
e nella morte...
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime, ero inerme, completamente vinto;
un moto di orgoglio mi fece tremare, un Black non si faceva mai vedere
debole, ma quello che stavo vivendo era troppo anche per me, troppo.
M’imposi la calma, sospirai, cercai di ricompormi,
riuscendoci con molta fatica.
Trovare quell'anello significava mettere da parte ogni speranza, Deidra
non se ne separava mai, ma anche se ora mi sentivo svuotato e lasciarmi
andare sembrava l'unica possibilità che avessi, dovevo
resistere, per Alshain e Deidra, che avevano contato su di me e che non
intendevo deludere ancora. Non c'era più nulla che potessi
fare per loro, ma per i loro figli sì: sarei partito
immediatamente per Hogwarts, ero il padrino dei ragazzi, non avrei
lasciato che la verità fosse raccontata loro da un estraneo,
né avrei permesso che i fratelli Sherton fossero divisi
dalle menzogne che il Ministero avrebbe scaricato su Mirzam.
Mai.
Quella sarebbe stata la parte più facile, il mio vero
intento era trovare il modo di metterli in salvo, sottraendoli all'odio
e alla persecuzione del Signore Oscuro: Alshain aveva protetto la carne
della mia carne dalla furia assassina della mia famiglia, io avrei
fatto altrettanto. Non sapevo ancora come, ma sapevo a chi chiedere
aiuto: mi ero arrabbiato moltissimo con lui, quando mi ero reso conto
del ruolo che aveva svolto nella bravata di Andromeda, ma se c'era una
cosa in cui Alphard Pollux Black, mio cugino e cognato, era un
fenomeno, era la capacità di agire di nascosto e di portare
sempre a casa il risultato, qualsiasi folle iniziativa si mettesse in
testa. Se gli avessi chiesto aiuto per far fuggire i ragazzi, mi
avrebbe aiutato con entusiasmo, conoscevo le sue idee anticonformiste,
l'avrebbe presa come una causa lodevole e alla fine nessuno avrebbe
più capito dove cercarli.
A me sarebbe spettata l'altra parte del piano, convincere i giovani
Sherton a desistere dai propositi di vendetta, e quello, la
negoziazione, era da sempre il mio campo: sapevo come gestire Mirzam,
il pensiero del bene di Sile l'avrebbe portato ad agire con cautela,
inoltre era un fiero Mago della Confraternita, avrebbe sentito su di
sé il peso del dovere e il primo dovere di uno Sherton era
sopravvivere, per la sua famiglia e per la sua gente. Rigel, invece,
sebbene mi piacesse addirittura più dei fratelli, sarebbe
stato un problema serio, perché era una testa calda, ben
peggiore persino del padre alla sua età, e come lui ribelle
a ogni imposizione della tradizione. Infine Meissa, di tutti loro la
vera incognita: se i sogni di Alshain avevano un fondo di
verità, non sarebbe stato semplice sovvertirne il destino, e
il repentino mutamento della sorte che, così piccola, stava
vivendo, poteva contribuire a influenzarne negativamente l'indole
ancora in formazione.
Quanto ai bambini, dovevo scoprire se erano stati uccisi anche loro o
se erano stati rapiti proprio per costringere Mirzam ad arrendersi.
Tutti i giovani Maghi erano segnati dalla Traccia, sarebbe stato
difficile per i rapitori celare a lungo dove fossero nascosti...
d'altra parte, Alshain si era servito di certi incantesimi proibiti per
celare Margaret al controllo del Ministero, era impossibile che il Lord
Oscuro non ne conoscesse di simili e persino di più potenti.
Tanto più che quei bambini erano potenzialmente importanti:
uno di loro poteva essere il nuovo erede di Hifrig, e se
così fosse stato, il Signore Oscuro non avrebbe avuto remore
a plagiarlo per sfruttarne il potere a proprio vantaggio.
Stavo di nuovo sentendo il mio coraggio vacillare, al pensiero di
questa nuova, orribile prospettiva, quando qualcosa rimbalzò
a terra e risuonò, cristallino, nel silenzio: a poca
distanza dai miei piedi vidi una pietrina, simile a un granello di
asfalto babbano, lo raccolsi, irritato con la dannata feccia che stava
profanando la purezza di quella casa, ma quando stavo per gettarlo
fuori dalla finestra, infuriato, lo sentii vibrare tra le dita. Lo
guardai...
Salazar...
Benché annerito e parzialmente opaco, chiaro segno che aveva
quasi esaurito la propria Magia, non poteva che essere un piccolo
diamante di Javannah, una pietra magica utilizzata per creare potenti
Talismani contro malattie e influenze negative, capace di assorbire su
di sé “fatture e maledizioni, prima di annerire
del tutto e spezzarsi alla morte del Mago che lo possedeva”:
la sorpresa mi mozzò il respiro, la mente, rapida,
tornò indietro nel tempo, alla festa di presentazione di
Wezen, ai miei figli che consegnavano un astuccio agli Sherton, a
Walburga che ritirava con me quello stesso astuccio da Yuket... alle
settimane passate a studiare i manuali antichi, alla ricerca del dono
perfetto.
Io penso a quale possa essere la sorte di Wezen ed ecco apparire uno
dei diamanti che gli ho donato, a confermarmi che il piccolo
è vivo… Si tratta di Destino, Fortuna o di Magia?
Una Magia di Alshain? Il Signore Oscuro ha salvato entrambi i bambini o
ha scoperto che è Wezen, l'erede che cerca? Salazar... ci
sarebbe un solo modo per Lord Voldemort di verificare chi dei due...
Con un occhio alla porta, controllai tra i vetri se ci fossero gli
altri sei grani del medaglione donato al bambino poi estrassi la
bacchetta e li evocai, con un incantesimo non verbale, invano.
«Era nella mia tasca, Black...
e no... in tutto il resto della casa, non ne abbiamo trovati
altri…»
Rimasi immobile, colpito e affondato, di nuovo, da quella dannata voce.
«Ci ha sorpreso trovare
quest’oggetto, però, non pare aver sorpreso voi...
cosa ne sapete di questi diamanti di Javannah, Black? »
«Non so di cosa parliate,
Moody... »
«Davvero? Ho mandato Potter da
messer Yuket, il folletto-orafo presso il quale si serve la vostra
famiglia: la storia di quella pietrina si è intrecciata alla
vostra un anno e mezzo fa, dico bene?»
«Anche se fosse? Non
è reato fare doni ai propri figliocci, e fino a prova
contraria, quella pietra ha un grande potere, ma non si tratta di Magia
Oscura: i diamanti di Javannah funzionano solo se donati e il loro
potere è tanto più forte quanto più
intenso e sincero è il legame tra le parti.»
«Certo, ma di solito sono
montate su medaglioni, in numero di tre, cinque o sette, non sono
incastonati singolarmente negli Anelli del Nord: quali sono gli effetti
della loro Magia combinata?»
«Che cazzo ne so? Io ho
regalato un medaglione con sette grani, non so nulla di Anelli del
Nord! »
«E dovrei credervi, Black?
»
«Non me ne frega un accidenti
se mi credete o meno, sono stufo di voi! »
«Alshain Sherton ha ordinato a
Yuket di smontare il medaglione e incastonare i sette grani ognuno in
un anello: il proprio, quello della moglie e i cinque dei figli...
l'ultimo è in lavorazione proprio ora, per la cerimonia
delle Rune della bambina. Il diamante che tenete in mano era
incastonato nell'anello che vi abbiamo fatto trovare tra i vetri,
quello che vi ha pesantemente commosso... di chi è
quell'anello, Black? È un po' troppo grande per appartenere
a un bambino di quindici mesi... troppo anche per appartenere a una
donna... e mi sono fatto portare ora quello di Sherton dal Ministero,
eccolo qui... quelli di Meissa e Rigel sono a Hogwarts... resta solo
quello di Mirzam Sherton, o mi sbaglio? Ditemi, Black: dove si sta
nascondendo il ragazzo? L'ho scagionato e sono sicuro della sua
innocenza, ma questo non significa che non abbia molte cose da
spiegarci!»
«Andate al diavolo! Sono stufo
dei vostri trucchi, cercate di confondermi e perdete tempo con me, a
inseguire fantasmi, quando là fuori ci sono degli assassini
che se la ridono di tutti noi!»
Non sapevo di cosa diavolo stesse parlando Moody e nemmeno m'importava
delle sue paranoie, non era da me reagire in maniera scomposta, ma ero
ormai al limite della sopportazione umana: non capivo cosa c'entrassero
i diamanti con l'anello, non sapevo se Sherton li avesse distribuiti
tra i suoi cari per proteggere tutta la famiglia, sapevo solo che
Mirzam non c'entrava nulla, che quell'anello apparteneva a Deidra, e
volevo essere lasciato in pace.
Guardai di nuovo quella verghetta, era vero, era più grande
del lecito, come se qualcuno l'avesse ingrandito, ma, per Merlino, era
l'anello di Deidra!
«Per Merlino e tutti i
fondatori... Salazar, sì... è così che
sono riusciti a entrare! L'anello!»
«Di cosa state parlando,
Black? Dove credete di andare?»
«Ascoltate... Sherton sapeva
di correre rischi lontano da Herrengton, ma il Ministero aveva
costretto lui e Deidra a trattenersi a Londra, dopo la morte di
Longbottom; allora Alshain ha perfezionato le protezioni della casa,
rendendo impossibile l'ingresso agli indesiderati. I Mangiamorte hanno
atteso l'occasione del processo per cogliere Deidra da sola con i
figli, devono aver saputo della riunione che c'era oggi per Adhara e
l'hanno mandata a monte, hanno ingannato o affatturato la Strega,
perché si privasse dell'anello e con quello hanno aggirato
gli incantesimi di protezione: per questo l'anello è
più grande, perché uno di loro è
riuscito a indossarlo. Dove avete trovato l'anello? Di sopra con il
morto? Forse è per togliergli questo che gli hanno spezzato
le dita, ma è stato inutile, perché i diamanti
funzionano solo con i legittimi proprietari! Vi dirò di
più, mi è stato riferito da Jarvis Warrington che
il decano McFiggs è sparito ieri pomeriggio: quel vecchio
Mago aveva insegnato a Deidra i misteri del Cammino del Nord, godeva
perciò della sua piena fiducia, a lui Deidra avrebbe
affidato il suo anello, se gliel'avesse chiesto per un buon motivo.
Probabilmente i Mangiamorte l'hanno catturato e Imperiato o forse,
l'hanno ucciso per poi assumerne l'identità e introdursi
qui: il Mago anziano che la Babbana ha visto entrare dopo di me. Mentre
Sherton era con me al Ministero, privato del suo anello, il commando si
è introdotto in casa e ha preso in ostaggio Deidra e i
bambini. Ritornato a casa, Alshain ha combattuto e disperso gli
aggressori, uccidendone uno, poi è fuggito con la famiglia
senza usare metodi rintracciabili dal Ministero, visti gli ultimi
avvenimenti, non si fida più di voi, come potrebbe? Tutto
torna, dobbiamo trovarli! Così avrete finalmente il vostro
elenco di delinquenti da arrestare!»
«E la Strega? I bambini? La
Babbana ha visto uscire un solo uomo...»
«L'anello ammaccato dimostra
che Deidra è ferita, forse Alshain ha ordinato agli Elfi di
portare Deidra e i bambini direttamente a Herrengton...»
«E perché non
sarebbe dovuto andare con loro? Perché fuggire in strada,
invece di usare le Passaporte non registrate di cui nessuno sapeva
l'esistenza? E soprattutto perché fingersi Mirzam? Dopo
tutta la fatica fatta per scagionarlo, ora su di lui pende addirittura
una sentenza di morte! Inoltre, se a uccidere è stato
Sherton, chi e perché avrebbe lanciato il Marchio sulla
casa?»
«Non lo so... magari in questo
momento Sherton sta facendo ciò che dovreste fare voi:
bussare alle porte giuste e spaccare la faccia a certi soggetti che
aggrediscono donne e bambini inermi… io vi dico, Moody, che
quest’anello appartiene a Deidra Sherton, e se quello
è il suo diamante, allora lei è ferita, ma
è ancora viva... se vogliamo conoscere la verità,
dobbiamo trovarla... e dobbiamo capire dove sono i bambini: sono una
merce preziosa per Milord, con i bambini in suo potere, può
ricattare Mirzam, ma soprattutto, uno dei due può essere il
famigerato successore di Hifrig... se foste in lui, voi vi privereste
di quest'ulteriore fonte di Potere? Non credo... Io so che sono vivi...
dobbiamo trovarli!»
«Pur con delle pecche, questa
storia ha un senso, Black... e spiega alcuni aspetti che non
comprendevamo... c'è ancora una cosa,
però… qualcosa che non vi ho fatto
vedere…»
Moody guardò ancora la macchia al centro del tappeto, dal
primo momento mi aveva attirato, così come pareva attirasse
lui, c'era qualcosa di terribile e al tempo stesso familiare e
affascinante, ma non riuscivo a capire cosa fosse; l'Auror
puntò il suo legno su una cassapanca accatastata contro il
muro, la rimise in piedi, ci salì sopra, guardò
il pavimento, ma fece no con la testa.
«Moody, dannazione, che cosa
state facendo? Non c'è tempo per le vostre
stronzate!»
«Specula! Vingardium
Leviosa!»
Puntò la bacchetta contro il soffitto, lo stregò
così che riflettesse come fosse uno specchio, scese dalla
cassapanca e la fece levitare fino alla parete, per avere la vista
completamente libera.
«Depulso!»
Stavolta puntò la bacchetta contro il pavimento, per
liberare il tappeto e la macchia da tutti i vetri e qualsiasi altra
cosa fosse sopra il tessuto bruciato: iniziai a capire, voleva avere la
vista completamente libera, per studiare quella forma in tutta la sua
interezza. Al suo posto l'avrei anche ingrandita, così
puntai e recitai l’incantesimo, tutto pur di finirla
subito...
«Engorgio...»
«Bene… ora ditemi,
Black, che dannata Magia Oscura è questa? Quando siamo
arrivati, questa cosa si alzava ancora a quasi un metro da terra, poi
è stata come assorbita dal pavimento...»
Io però non lo ascoltavo più, mi stavo
estraniando da ogni cosa fosse intorno a me, gli occhi fissi sul
soffitto, attonito, il cuore in tumulto, brividi di gelo lungo la
schiena: aveva l'aspetto di una corona di fiamme, rossa e vivida di
sangue, e pulsava simile a un cuore estratto dal petto.
L'avevo già vista: trent'anni prima, qualcuno aveva
aggredito Alshain Sherton in un bagno di Hogwarts, io l'avevo trovato
riverso nell'acqua insanguinata, e quella cosa, impalpabile, sembrava
pulsare tutto attorno a lui; nessuno dopo di me aveva visto,
perciò mi ero convinto fosse stato frutto solo della mia
immaginazione di adolescente. Sul corpo di Sherton non c'era alcuna
ferita, ma aveva stentato a lungo a riprendersi, per la
quantità smisurata di sangue che aveva perduto, se non
l'avessi trovato in tempo, disse il preside Dippet, sarebbe sicuramente
morto. Quando mi convocò in infermeria per ringraziarmi,
trovai il vecchio Donovan Sherton, allucinato e assente, che si
dondolava sulla sedia accanto al figlio; andai a sedermi di fronte a
lui, il Mago poggiò le sue mani ossute e piene di Rune sulla
mia testa e mi sondò gli occhi con i suoi, parevano mercurio
liquido, un mare in tempesta. Con voce flebile, aveva iniziato a
cantilenare una nenia in gaelico, ripetendola un'infinità di
volte, come fosse una preghiera, quando smise, gli chiesi cosa
significasse, ma continuò a ignorarmi; diversi anni
più tardi, riuscii a tradurne le parole, per conto mio,
probabilmente sbagliando, visto che la mia conoscenza del Gaelico si
limitava a formule per far colpo sulle ragazze irlandesi e parolacce e
volgarità per azzittire quella peste di Alshain.
Corona di fiamme, grondante di sangue,
Alta nei secoli il Maestro ergerà
Se la Magia l'un contro l'altro
Gli Eredi evocheranno.
All’epoca non avevo capito il significato, ero giovane e non
avevo fatto i collegamenti tra le dicerie sull'Erede di Salazar, che
aveva causato la morte della SangueSporco, un anno prima, e
l'aggressore di Sherton, visto che il mio amico era un Mago purosangue;
inoltre, in quella prima fase della nostra amicizia, tra me e Alshain
gli argomenti erano i più diversi, ma della Confraternita
non parlavamo mai, lui odiava tutto ciò che era una
fissazione per suo padre e per suo fratello.
Alla fine avevo accantonato tutta quella storia come una follia del
Nord, anche Alshain liquidava spesso, così, ciò
che era a cuore a suo padre, e non ne parlai mai con nessun altro,
lasciando che tutto giacesse nella memoria, perché ero, da
sempre, geloso della mia amicizia con Sherton e non volevo offenderlo
introducendo estranei in un mondo che era solo nostro.
Un giorno dell'inverno precedente, però, nel capanno di
Amesbury, Alshain si era tolto la camicia di fronte a me e mi aveva
mostrato il fianco: un’ampia porzione di carne, nascosta
dalla piega del braccio, sembrava marchiata a fuoco, come quella degli
animali cui s’imprimono le iniziali del proprietario. Sul suo
corpo, decorato dalle linee precise e nere delle Rune, quel rilievo
pallido sulla carne quasi non si vedeva ma, da vicino, ricordava due
serpi avvinghiate l'un l'altra a formare una specie di cuore pulsante,
al centro di una corona fiammeggiante. Alshain aveva detto che da
quando il Signore Oscuro cercava in ogni modo di contattarlo,
quell'antica piaga, che per decenni non aveva manifestato la propria
presenza, sembrava pulsare vivida, togliendogli il sonno ed evocando in
lui immagini orribili; aveva cercato nelle pergamene antiche
l’incantesimo per liberarsene, scoprendo invece una
verità agghiacciante: benché nessuno sapesse
più che forma assumesse, esisteva un Marchio con cui l'erede
di Salazar si rendeva riconoscibile solo all'erede di Hifrig Sherton, e
per la legge di Salazar Slytherin, Sherton doveva rispondere e piegarsi
al volere del suo Signore.
Ora ritrovavo quella corona di fronte a me, ormai quasi esaurita,
restavano pochi istanti prima che sparisse completamente nel pavimento:
Alshain non si sbagliava quando sosteneva che Tom Riddle, colui che
l’aveva aggredito da ragazzo, e il Lord Oscuro fossero la
stessa persona, davanti a me pulsava la prova, l'Oscuro Signore era
l'Erede di Salazar, era il Mago che la Confraternita attendeva da oltre
mille anni. Era il Mago cui Alshain Sherton, secondo la tradizione,
doveva la sua assoluta e completa fedeltà, il Mago cui
avrebbe dovuto consegnare la Fiamma di Habarcat e aprire le porte e la
Magia di Herrengton. Alshain e la sua famiglia ne erano solo i custodi,
Milord, Lord Voldemort, Tom Riddle o come lo si volesse chiamare, ne
era invece il legittimo proprietario, sangue del sangue di Salazar.
Chiunque si fosse opposto, chiunque avesse negato questa
verità, sarebbe stato un traditore, per la Confraternita,
per gli Slytherin, per Salazar stesso. Il Lord aveva infine ricevuto
l’investitura che da tanto reclamava davanti ai suoi uomini,
dalle mani di Alshain stesso.
Non avevo la forza di chiedermi che cosa ne fosse stato di lui.
Affondai le mani nei capelli e mi lasciai scivolare lungo il muro, fino
a terra. Le tempie pulsavano.
È infine giunto il tempo del sangue... la guerra ha
inizio...
*continua*
NdA:
Ciao a tutti,
questo capitolo è la fusione di un breve capitolo bonus
dedicato a Annabelle Flannery e della seconda parte di "Il sangue di
Salazar".
Meissa descrive i fratelli Flannery la prima mattina che si sveglia a
Essex Street, mentre giocano a tirarsi le palle di neve, Mirzam fa
più volte cenno alla signora Mortimer, la babbana impicciona
della casa di fronte, e infine tutta la famigliola, giudice e gentile
consorte al seguito, sono visti da Meissa mentre prendono un taxi per
il veglione di San Silvestro. Il loro ruolo nella storia
diventerà evidente solo in seguito, ma Orion doveva puntare
lo sguardo sul loro lato di Essex Street, quindi dovevo spiegare in
anticipo chi aveva di fronte. Per chi conosce la serie Doctor Who,
avrete notato i numerosi riferimenti: una puntata di DW fu realmente
trasmessa dalla BBC nel pomeriggio del 15 gennaio 1972, come tutti i
sabato, quindi me ne sono servita per dare realismo a questi ragazzini
babbani. Riguardo alla seconda parte del chap, non ricordo mai se Tom
Riddle è nato il 31 dicembre del 25 o del 26: se
è del 26, è un anno più giovane di
Walburga, ed essendo nato in dicembre, dovrebbe essere andato a scuola
nel 1938, quando mancava poco al compimento dei 12 anni... supponendo
che Alphard Black sia nato due anni dopo Walburga e due anni prima di
Cygnus, è probabile che i due ragazzi siano andati a scuola
insieme; Orion, del 1929, è andato a scuola nel 1940 e
Alshain, del 1931, nel 1942... queste date servono a fissare gli eventi
che sono presenti qui e nel prossimo capitolo. Nel canon si dice che
Voldemort aprì la camera durante il 5^ anno, quindi quando
Orion faceva il 3^ e Alshain il 1^ ; con Mirtilla e il diario,
creò il suo primo Horcrux. Nell'estate del VI-VII anno,
dovrebbe aver ucciso il padre e i nonni e creato il secondo Horcrux,
l'anello di Gaunt. I diamanti di Javannah, infine, sono
un'invenzione buttata lì nel capitolo 3, ma li abbiamo visti
anche durante l''intermezzo di Mirzam quando ho raccontato di come
Alshain avesse fatto incastonare queste pietre magiche all'interno
degli anelli dei suoi familiari. E ora vi saluto, ringrazio chi ha
letto, aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, recensito... A presto
Valeria
Scheda
Immagine
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