I wish you were here or I were there or we were
together anywhere
Dovremmo
dire più spesso alle persone
quanto vogliamo loro bene, perché la vita è
imprevedibile e, se possiamo
manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo
sempre.
What if I let you in?
What if I make it right
it?
What if
I give it up?
What if I want to try?
What if you take a
chance?
What if I learn to love?
What if, what if we
start again?
Red
Un mese dopo
John
aveva appena finito il suo turno all’ambulatorio, aveva
sorriso, salutato con
la mano Sarah, ancora sua collega e amica, e aveva lasciato
l’edificio con
l’armonia di un uomo qualunque.
Stava
passeggiando verso casa, le mani nelle tasche dei pantaloni per
proteggerle dal
freddo e gli occhi che restavano fissi sull’asfalto. Non
prestava attenzione
alla gente intorno a lui, preferiva camminare a testa bassa,
consapevole del
macigno nascosto che si trascinava dietro da giorni. Si sentiva
pesante,
confuso, assurdamente triste, nonostante le apparenze. «
E’
stato assolutamente inaspettato,
questo detective morto e risorto!
»
John si fermò un
momento, il sangue che si ghiacciava nelle vene, tutta la via intorno a
lui che
diventava uno stupido contorno, gli occhi che si puntavano sulla
persona che
aveva pronunciato quelle parole, davanti ad un’edicola. «
Insomma,
non che io ci creda molto, a
questo svitato!
»
Aggiunse la signora, accennando ad
una risata. Le gambe di John si mossero da sole, spostandosi dal
semaforo
ancora rosso, davanti alle strisce pedonali, fino ad arrivare
all’edicola, gli
occhi puntati, ora, sui due signori che parlottavano ignari del suo
tumulto
interiore. «
Scusi,
vorrei quel giornale, per favore.
»
Disse, quasi senza
accorgersene, indicando ciò che aveva in mano la donna. «
Anche
lei un appassionato di
miracolati?
»
Disse l’edicolante, con un sorriso
divertito sul volto.
Certo,
ero così appassionato da volerlo vedere morto su un
marciapiede, avrebbe voluto
dirgli, ma si trattenne, sopprimendo l’impulso di cadere a
pezzi. Aveva capito,
era andato avanti, non aveva più nessun altro a cui pensare
e gli andava bene
così. Non rispose alla domanda dello sconosciuto, tirando
fuori pochi spiccioli
dalla tasca e cercando di formare una sorta di sorriso, mal riuscito.
Era
più
difficile fingere, quando non era chiuso nelle pareti confortanti della
clinica. Era più difficile fingere, quando nessuno
più si ricordava dello
scapolo John Watson, compagno inseparabile di Sherlock Holmes. Ma lui
non lo
voleva più e la situazione era totalmente cambiata –in meglio? Decisamente no.
Prese in fretta il giornale,
arrotolandolo stretto e mettendoselo sotto braccio, facendogli scudo
con esso.
Non voleva che potenziali stalker –ed
era
sicuro ci fossero, conoscendo Mycroft Holmes– si
facessero idee sbagliate
sul suo ultimo acquisto.
Lui
non
aveva nessuna curiosità su tutto ciò che
riguardasse Sherlock né aveva voglia
di ritornare da lui, nonostante l’articolo in prima pagina.
Era solo mero
interesse, come un qualunque cittadino che ascolta una storia qualsiasi
alla
televisione, una bella favola da leggere e riporre lontano da se
stessi. Si
avviò a passo svelto lungo i vicoli semideserti, la luce
scura del pomeriggio
che perdeva sempre più colore, spruzzando il cielo di blu
scuro. John, in un
qualunque giorno di un anno fa, se la sarebbe presa comoda, camminando
con il
naso all’insù, ringraziando madre natura per
avergli restituito la vita che il
congedo in Afghanistan gli aveva strappato, e un sorriso impresso sul
volto,
nel suo personale campo di battaglia.
Ora
camminava a testa bassa, il mondo che non lo conosceva e lui che non
aveva più
voglia di conoscere il mondo, i capelli più grigi, le
occhiaie più marcate, il
peso sul cuore sempre più pesante, la falsità
sempre più all’ordine del giorno.
Era strano, era ingiusto, ma andava così e John non aveva
più forza di
combattere. Lui aveva vinto la battaglia e John sentiva di aver
miseramente
perso, un limbo in cui non trovava via d’uscita. Si accorse
di aver sorpassato
il condominio dove ora abitava, una vecchia palazzina con
l’intonaco rosa
antico scrostato e appartamenti grandi quanto una gabbia –gli
andava bene, gli andava bene tutto, ormai. Ritornò
indietro,
prendendo le chiavi dalla tasca del cappotto e infilandone una nella
serratura.
Insistette un po’, fino a quando la porta cedette e John
potè ripararsi dal
vento gelido che aveva incominciato a turbinare fuori. Salì
fino al secondo
piano ed entrò in casa propria, restando fermo per qualche
secondo sul
tappetino d’ingresso, immobile. Ogni volta che entrava in
quell’appartamento,
si sentiva trascinato via da quel posto, troppo angusto e troppo buio e
troppo
spoglio per essere definito come casa. Era asettico, monocromatico e
banale.
Un’accozzaglia di cose in un bilocale che non era vissuto
veramente –triste, solitario, come
il proprietario.
Appena
dopo aver avuto l’ultima discussione con Sherlock, John si
era deciso a voltare
pagina, o almeno a provarci. Aveva lasciato Baker Street, nonostante le
proteste della signora Hudson, e si era rintanato in quel buco,
sorridendo ai
pazienti, sorridendo ai colleghi e piangendo nel cuore. Faceva finta di
andare
avanti, ogni giorno, rifiutava le chiamate di Victor sempre
più insistenti e
soffocanti. Non voleva nessuno, gli piaceva quella vita, davvero,
checché ne
dicessero gli altri.
Si
tolse le scarpe e posò il giornale sul tavolo, lanciandogli
un’occhiata astiosa
e dirigendosi nell’angolo che faceva da cucina, prendendosi
una birra dal
frigorifero. Gli serviva qualcosa di forte per affrontare
ciò che stava per
leggere, ma, purtroppo, si era severamente vietato l’alcool
dalla prima volta
in cui aveva visto sua sorella vomitare l’anima nel bagno
della loro casa di
famiglia, quindi si sarebbe dovuto arrangiare –come
sempre, come per tutto.
Stappò la bottiglia con i denti e si sedette sull’
unica sedia in legno
affianco al tavolo –triste, anche
quello.
Mandò giù un lungo sorso, gustandosi il sapore
sulla lingua, prima di fare i
conti con il giornale ancora piegato davanti a lui. Su, forza e
coraggio, si
disse, tamburellando piano le dita sulla superficie del tavolo.
E’ solo un
giornale, nulla di particolarmente
pericoloso, pensò, ingoiando un’altra sorsata e
decidendosi a leggere. Un
titolo in grassetto, sulla prima pagina, diceva chiaramente
‘Il
super-scienziato Sherlock Holmes riscatta la sua fama. Sarà
vero?’ Dio, gli
stava salendo la nausea. Dio, aveva voglia di bruciare quella dannata
pagina e
stendersi su un letto, cercando di somigliare ad un vegetale.
Lesse
l’articolo velocemente, le parole di Sherlock sembravano
distorte, di certo non
da lui, manipolate dai giornalisti affamati di scoop esilaranti. John
si fermò
a leggere una domanda particolarmente interessante che avevano rivolto
a
Sherlock e che aveva attirato tutta la sua attenzione. ‘E di
John Watson, il
suo compagno, che cosa ci dice? Ritornerete di nuovo insieme? Lo ha
già
perdonato?’ John respirò a fondo, prima di leggere
la risposta, il cuore che
palpitava più forte, fregandosene del controllo che il
padrone cercava di
imporgli. Chiuse per un momento gli occhi, sentendosi come uno stupido
bambino
di due anni che aveva paura del verdetto della propria mamma, e li
riaprì
subito, incentrandoli sulle parole di Sherlock. ‘Il signor
Holmes evita la
domanda, decretando che gli affari privati riguardanti lui e John
Watson non
sono questioni rilevanti con il tema
dell’intervista.’ Ovviamente, era ovvio –perché lui non lo voleva,
né come collega
né come amico.
Prese
il giornale e lo buttò nella pattumiera, chiedendosi
perché diavolo avesse
speso soldi per quella spazzatura visto che tanto non gli importava.
Era
inutile, era anche ridicolo averci pensato, a una dichiarazione
pubblica o a
una ammissione di colpa. Non sarebbe mai cambiato, sempre il solito
egocentrico, sempre il solito arrogante. Finì la bottiglia
di birra e la lasciò
lì, andando a lavarsi il viso con l’acqua fredda.
Il rumore del citofono lo
distolse dai suoi pensieri, facendolo distogliere dal suo stesso
riflesso,
davanti al lavandino –il volto di
un
altro, uno sconosciuto impossessato del suo corpo, gli occhi delusi che
avevano
perso luce, imbrunendo ogni cosa. Aggrottò le
sopracciglia, chiedendosi chi
cavolo fosse all’ora di cena. Sperava non fosse Victor, in
realtà. Quel ragazzo
era una vera e propria piaga quando ci si metteva di impegno e
più di una volta
aveva dovuto cambiare strada all’improvviso pur di non
incrociarlo. Non voleva
più nessuno che fosse in contatto con Sherlock e, dopo tutto
ciò che era
successo, sperava che tutti capissero l’antifona e lo
lasciassero in pace. Si
diresse spedito verso il citofono, affianco alla porta
d’ingresso, mentre
qualcuno continuava a scampanellare senza sosta. Prese il ricevitore
con aria
furibonda, fino a quando non si accorse del soggetto di tutto quel
rumore, al
videocitofono. Oh mio Dio. Riccioli, occhi chiari, aria annoiata di chi
già si
è pentito di aver compiuto quel gesto. Sherlock. Cosa ci
faceva Sherlock sotto
casa sua? Panico.
Si
schiarì
la voce, cercando di non far trasparire l’emozione dal tono. «
Chi
è?
»
«
Lo
sai chi
sono, hai un videocitofono.
»
John arricciò il
labbro, infastidito. Se era quello l’atteggiamento che aveva
in serbo per lui –dopo tutto quello
che gli aveva fatto, dopo
tutto quello che aveva sentito e quello, ancora più
importante, che non si era
permesso– poteva benissimo andarsene a quel paese e
non tornare mai più. «
Bene,
cosa vuoi?
»
Sbottò, giocando con il filo del ricevitore.
Anche
solo pensarlo, ormai, gli provocava il nervoso –Dio,
gli doveva una medaglia per tutta la pazienza che stava avendo
con quell’uomo. «
Posso
salire o dobbiamo parlare in questo modo?
»
Disse, osservando qualcosa che non riusciva a entrare
anche nel suo campo visivo. Stava cercando un punto di fuga? «
Preferisco
parlare così, non ho
nessuna voglia di vederti dal vivo.
»
«
In
realtà tu puoi vedermi dal
citofono mentre io devo parlare a questo…aggeggio.
»
«
Fidati,
è per la tua salute che io non sia lì davanti a
te, ora.
»
John vide Sherlock sbuffare piano, continuando a deviare
lo sguardo da un posto all’altro, come se lui fosse veramente
davanti a lui e
non volesse incrociare il suo sguardo. Restò in silenzio
mentre John
incominciava a spazientirsi. «
Quindi?
»
«
Quindi
cosa?
»
John gemette, frustato. «
Quindi
cosa vuoi, Sherlock! Perché sei sotto casa mia a
quest’ora?
»
«
Ho
visto che hai comprato il giornale con l’intervista.
»
Ah, ecco, giusto per avere le idee chiare sul chi, in
realtà, lo avesse pedinato in quei giorni. Sherlock,
Sherlock che non aveva più
il sapore di Sherlock, nelle sue corde vocali. «
Avevo
voglia di leggere un po’ di favole, nulla di
importante.
»
Rispose con tono acido e maligno,
non riconoscendosi nemmeno.
Sentiva
troppo dolore, ancora, una pena viscerale che gli faceva dolere i
muscoli la
mattina e gli toglieva il sonno alla notte. Se lo meritava, tutto quel
veleno,
perché sapeva che per Sherlock Holmes facevano
più male le parole che i
cazzotti. «
Sei
ancora arrabbiato, quindi.
»
«
Sherlock,
parla chiaro e dimmi che
cosa vuoi da me.
»
Si sforzò di dire,
in un impeto di coraggio che in quel momento sembrava scarseggiare. «
Insomma,
pensavo che…
»
Lo osservò muoversi agitato davanti al citofono, gli
occhi che ancora non fissavano la videocamera. «
Pensavo
dovessimo parlare riguardo ciò che è successo
l’ultima volta che ci siamo incontrati, ecco. Dovresti aver
già sbollito la
rabbia, ormai. Possiamo continuare da dove abbiamo terminato
e…
»
Sherlock fermò il suo monologo che a John sembravano solo
frasi in ordine casuale e senza significato. Cosa stava dicendo? A lui
non era
passata affatto, quella furia. A lui non era passato nemmeno il dolore
della
perdita, seppur finta –davvero?
Perché
lui la sentiva vera, sulla pelle, il legame che si era spezzato e un
amico che
se n’era andato–, e di certo non avrebbe
fatto finta di niente, non dopo
ciò che gli aveva detto. «
Non
posso, Sherlock.
»
Finalmente,
gli occhi di Sherlock si focalizzarono nella videocamera e John si
pentì di
aver desiderato quel gesto, perché ora le sue iridi erano
puntate su di lui,
nonostante la schermata fosse in bianco e nero, e la cosa lo stava
alquanto
agitando. «
Cosa
vuol dire ‘non posso’, John?
»
Lo sapeva bene,
cosa volesse dire, ma voleva che John glielo dicesse. Era testardo,
nonostante
leggesse qualcosa, in quei occhi, qualcosa che era umano e tangibile e
che
graffiava la pelle di John fino a farlo sanguinare. «
Non
posso, Sherlock. Non posso
lasciare ancora la mia vita per te, lasciare tutto quello che sto
cercando di
costruire, per ritornare insieme a te fino a quando non ci
sarà un altro
criminale che ti farà fare cose stupide. Non posso
sacrificarmi ancora, non
posso fare questo, non posso farmi questo. Mi
sono fatto tanto di quel
male che tu non te lo puoi nemmeno immaginare.
Non posso fare finta che sia tutto okay, capisci? Hai bisogno
di…hai bisogno di
stare da solo, ora, tu stesso mi hai detto che vuoi che sia
così. Per
favore…per favore, vattene. Non posso, vattene.
»
Gli occhi di Sherlock erano la peggiore punizione che
potesse avere da chiunque stesse manovrando le loro vite,
c’era tutto, in
quelle iridi, tutto quello che a parole non sarebbe stato capace di
dire.
Tutti
i
sentimenti che stava provando strabordavano dai suoi bulbi e
investivano John
come uno tsunami, facendogli venire la nausea. Sentiva le gambe molli e
si
accorse di avere una lacrima solitaria sullo zigomo solo quando chiuse
gli
occhi e li sentì umidi. Dolore, dolore che non accennava a
scemare, ma che,
anzi, continuava a muoversi impetuoso in lui, così tanto da
farlo morire
dentro, ancora e ancora. «
Io
l’ho
fatto per te.
»
Mormorò Sherlock, non c’era nulla
delle emozioni che sembravano creare ombre lungo tutto il suo viso,
c’era solo
rabbia –la rabbia che muoveva ogni
cosa,
da due mesi. «
Ho
fatto tutto questo per te, ho salvato la tua vita e tu dici che hai la
tua vita
a cui pensare.
»
John non sapeva cosa dire, la gola
così secca da rasentare l’irrealtà. Lo
sapeva cosa stava succedendo a Sherlock,
in quel momento: combattere tutti gli altri sentimenti per far posto
alla
cattiveria, alla furia. «
Addio
John.
»
Lo
vide
sparire come un fulmine, lasciando il buio davanti a John. John che non
riusciva più a reggersi in piedi, John che aveva urlato il
nome di Sherlock
mentre sentiva l’anima in ginocchio, cercando di farlo
restare perché, diavolo,
no che non voleva vederlo in quello stato, nonostante tutto –la persona più umana di
questo mondo ed era
quella la verità. Se n’era andato prima
di mostrare le sue debolezze,
cercando di rimanere forte, cercando di non finire in mille pezzi, come
era
finito John non appena aveva visto il cadavere di Sherlock riverso in
una pozza
di sangue. Rimise la cornetta al proprio posto, prendendo un respiro
profondo e
scacciando quella foschia che gli appannava la vista e lo faceva
barcollare –l’unica volta
che l’aveva fatto era stato
riempito di esplosivo. Era la stessa, medesima, struggente situazione.
Cercò
di calmarsi, si mise a riordinare i pochi libri che aveva portato
dall’appartamento a Baker Street –la
sua
vera casa. Non pensarci, non pensarci.
Si
sentiva come se avesse perso qualcosa di non rimpiazzabile, aveva amato
troppo
quell’uomo e ora aveva perduto tutto –poteva
andare peggio?. Ci aveva provato, John, aveva provato
finché aveva potuto,
era andato anche oltre i suoi limiti, contro la sua
eterosessualità, contro i
suoi principi, contro le malelingue, era andato contro la polizia,
contro al
mondo intero e ciò che gli era rimasto in mano erano
briciole di qualcosa che
non esisteva più. Si sentiva così stanco, ora.
Prosciugato di tutte le energie
che servivano per sopravvivere, ridotto come un’ombra confusa
su un vetro
appannato. Aveva finalmente ottenuto la sua vendetta, fargli provare
almeno un
minimo di quel dolore che aveva sentito lui in quei due mesi, eppure
sentiva di
non aver conquistato niente. Nessuna gloria, nessun amore, nessuna
felicità,
solo il triste capolinea di qualcosa di irrisolto, ma già
perduto –perso qualcosa che non si
poteva
rimpiazzare, l’amore di sempre, il contorno di tutti suoi
giorni, la nitidezza
della sua intera esistenza. Si trascinò fino al
letto, ancora sfatto dalla
nottata precedente.
Provò
a
dare un paio di colpi al cuscino, fece gli angoli al lenzuolo e
provò ad
annullare tutti i pensieri, fallendo. Era lui, era Sherlock, radicato
dentro di
lui dal primo secondo in cui aveva posato gli occhi su di lui.
Bellissimo in
tutto il suo essere speciale. Si mise sotto le coperte ancora vestito,
coprendosi fino al mento e affondando la testa nel cuscino. A
tutti
serviva qualcosa per vincere la notte, fosse anche il più
piccolo spiraglio di
speranza.* John si sentiva così perdente, da restare con gli
occhi sbarrati
contro al soffitto, le parole di Sherlock che affioravano nella sua
mente e
bruciavano tutto. Sherlock, Sherlock, il mio Sherlock.
Scoppiò a piangere, in
un curioso déjà-vu della sua vita dopo
l’incidente in Afghanistan.
I
singhiozzi che gli scuotevano
il petto, Sherlock che appariva chiaro davanti a lui, impresso nella
sua retina
a fuoco. Sherlock con i suoi occhi ghiacciati, Sherlock in un mare di
lava,
qualche momento prima. Sherlock che rideva, Sherlock
sull’orlo di una crisi di
nervi. Sherlock sempre, Sherlock che aveva deciso di lasciare alle sue
spalle,
ma che sapeva, non avrebbe mai avuto il coraggio di dimenticare.
Sherlock.
Sherlock che amava, Sherlock che avrebbe amato fino alla fine dei suoi
giorni.
Si
sentiva invisibile, inadatto,
incompreso. Era il destino di tutti quelli che sentivano troppo. Il
destino di
tutti quelli che amavano troppo. La via obbligata del troppo pensare
era veder
svanire, sotto un velo di incomprensibilità,
quell’ illogico mondo e restare
irrimediabilmente soli.** Solo. Ancora.
Sveglia.
Borbottio. Ciglia
attaccate l’una all’altra. Bagno. Doccia.
Caffè, senza zucchero. Respirare. Far
battere il cuore.
John
si sentiva come un automa
quella mattina, la mano che si muoveva da sola per mischiare il secondo
caffe
della giornata, in ambulatorio. Sarah gliel’aveva gentilmente
offerto vedendo
il suo stato di semi incoscienza in cui era caduto, gli occhi fissi sul
muro di
fronte e il paziente che aspettava la ricetta per le medicine. Era
stanco, non
aveva dormito praticamente niente per tutta la notte, in una continua
lotta con
se stesso, ciò che provava e ciò che non voleva
più provare. Si passò una mano
sugli occhi, cercando di cacciare quella spossatezza che lo rendeva
nervoso e
intrattabile. Non era colpa degli ammalati e nemmeno dei suoi colleghi
se lui
conosceva Sherlock Holmes –era
colpa del
destino e, in buona percentuale, di Mike Stamford.
Buttò
il bicchiere di plastica
nel cestino e si preparò per il prossimo paziente, cercando
di focalizzare
tutta la sua attenzione sul suo posto di lavoro e non altrove –chissà dove, si stava
già facendo ammazzare
da altri criminali? Senza di lui? No, basta. La dottoressa
che anticipava i
pazienti nel suo studio, arrivò tutta trafelata, il camice
sgualcito e lo sguardo
confuso. « Dottor
Watson, c’è un ragazzo che
dice di stare molto male, ha rimesso nelle ultime quarantotto ore e
dice di non
riuscire a reggersi nemmeno in piedi. Lo faccio entrare?
»
John avrebbe voluto rispondergli con una nota
sarcastica –no, lo lasci pure fuori,
a
morire sul pavimento!–, ma si trattenne, facendo un
gesto sbrigativo con la
testa e alzandosi dalla sedia, pronto per sorreggere il nuovo arrivato.
Si
diede dello stupido, più e
più volte, quando il paziente entrò nel suo campo
visivo e riconobbe la figura
accartocciata di Victor –ovvio,
l’arte di
mentire, ingannare e recitare era insidiata in tutti loro.
Strinse le
labbra, arrabbiato, mentre la ragazza sorreggeva Victor per un braccio,
con
l’ansia a trasformarle il volto. John rimase fermo a braccia
conserte, gli
occhi di Victor che si muovevano veloci dal pavimento, al viso
dell’infermiera
fino a lui, con il sottofondo ironico che li caratterizzava sempre.
Si
accasciò sul lettino, privo
di forze, mentre la ragazza gli scostava i capelli, arrossiva e se ne
andava,
sbattendo la porta alle sue spalle. «
Siete
davvero le persone più spregevoli su questa Terra.
»
Proruppe John, ad un tratto, facendo nascere una
sentita risata da parte dell’altro. « Tu non
rispondevi al cellulare e mi evitavi, non mi hai lasciato scelta.
»
Sbuffò, mettendosi finalmente a sedere e
ritornando la persona composta e piena di salute di sempre. « Ho saputo
cos’è successo ieri sera.
»
Come giravano le voci a Londra non succedeva da
nessun’altra parte, pensò, distogliendo lo sguardo
da lui e affondandolo fuori
dalla finestra. « C’è
stato solo un disguido,
tutto risolto. » Victor
alzò un sopracciglio, accigliato. « A quanto ho
capito, non c’è nulla di risolto in
tutta questa faccenda. » « Non sono
affari tuoi.” «
Invece sì. » John stesse
in silenzio, cercando di non fare una
sfuriata in piena regola. Victor scese dal lettino e si
avvicinò a lui, gli
occhi fissi sul suo viso che non volevano farlo respirare.
«
John,
senti, lo so che è difficile. E’ dura,
è Sherlock, è sempre stato così. Io ti
ho tenuto nascosto ciò che era giusto nascondere, ma tu sei
come un fratello
per me, un amico… »
Ritornò a posare gli occhi su di lui, sentendo
quelle parole entrare dentro e riscaldarlo. « Hai
parlato con lui? » Chiese John,
appoggiandosi alla scrivania, seguito
subito da Victor. «
Sì, mi ha mandato un
messaggio e io sono andato da lui. Era sconvolto, anche se faceva finta
di
niente, sembrava crollare a pezzi dietro tutta la sua
immobilità e non ha
spiccicato una parola. Mi aveva detto che sarebbe venuto da
te…ha rovinato
tutto come sempre? »
John
non sapeva più come si
parlasse, immaginando Sherlock nel loro appartamento a Baker Street,
solo come
lo era stato lui solo un mese prima, con un comportamento che rasentava
quello
tenuto a Baskerville. Triste, era in quello stato anche lui. « E’
venuto a parlare con me. »
Incominciò, cercando di mantenere una posa
rilassata e neutra, ma non riuscendoci. Era Victor, era un suo amico,
nonostante tutto, e John era stanco di nascondersi dietro a belle
facciate. « Non
l’ho fatto salire, abbiamo parlato al
citofono. » Victor
sgranò un momento gli occhi, ma non parlò,
cosa che rincuorò enormemente John. « Lui mi
ha chiesto di tornare con lui, nel suo modo contorto, e io gli ho detto
di no.
Non posso, non voglio. E’…troppo presto, ancora.
Doloroso. Lui mi ha detto
addio e se n’è andato.
»
Era stato sintetico,
non aveva voluto veramente dire cos’era successo,
cos’aveva visto dal
videocitofono –la tormenta negli
occhi di
lui che crepava il cuore di John, ancora, ancora e ancora.
«
E
a te
sta bene così? » Chiese
Victor, con una punta di rabbia nella voce.
« Certo
che mi sta bene così! Ti devo forse
ricordare cos’ha fatto? » « Ora deve
solo capire se vuoi continuare a vivere
nei rancori del passato o pensare al presente e al tuo possibile
futuro. Sei
disposto a lasciarlo andare per davvero?
»
Victor
prese in mano il fermacarte dalla scrivania, incominciando a passarselo
da una
mano all’altra, gli occhi che continuavano ad incentrarsi su
di lui.
Certo
che lo voleva lasciare
andare, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare in quei mesi.
Voleva
punirlo, fargli capire come si stava da soli, smarriti e abbandonati.
Voleva
che, finalmente, pronunciasse qualche parola di vero sentimento, tanto
da
convincerlo a ritornare da lui, piano piano.
Ma
era Sherlock e tutti quei
desideri si tramutavano solo in fumo incolore e insapore, riempiendolo
nuovamente di delusione. «
Se sei sicuro di
volerlo lasciare andare, sicuro al cento per cento, allora io non vi
fermerò e
lascerò che ricominciate a vivere separatamente, ma se
c’è anche solo una
piccolissima parte di te che si sta pentendo di non averlo fatto salire
a
parlare con te, se solo c’è una parte che ha
mancanza di Sherlock, allora è mio
dovere di amico fare in modo che ritorniate uniti, insieme. La scelta
è tua,
però. Spetta a te decidere.
»
Victor
rimise a posto il fermacarte, dandogli una solidale pacca sulla spalla
e facendo
per uscire dallo studio. «
E comunque…
»
Disse ad un tratto, aprendo la porta in plastica
lucida e ritornando a guardare John. «
Anche Sherlock
è rimasto in silenzio. » Se ne
andò via,
lasciandolo in un mare di confusione che non gli piaceva per niente.
Cosa aveva
voluto dire con quella frase? Che Sherlock era disposto a riprovarci
un’altra
volta, mister non-mi-piace-nessuno-in-questo-mondo-idiota? Brividi.
L’infermiera ritornò dentro, accompagnando una
madre con la sua bambina di
qualche anno mentre la mente di John era ormai persa, alla deriva di
pensieri
troppo grandi. Lavoro, sei al lavoro, John Watson, riprenditi,
pensò, aprendo
la bocca alla bimba con lunghi riccioli neri. Sherlock. « Respira
profondamente, brava. » Sherlock.
« Stenditi,
ecco, sei bravissima!” Sherlock.
Sherlock. « Ora
prova a tossire un po’ e poi
abbiamo finito, su.
»
Sherlock. Lasciò una carezza
sulla testa della piccola, sorprendentemente silenziosa, e prese la sua
decisione, sperando che quell’idiota non avesse cambiato
numero di cellulare in
tutto quel tempo di lontananza.
Stasera,
nel mio appartamento.
Dobbiamo parlare. JW
Lasciò
il cellulare sulla
scrivania, il peso dal cuore che diminuiva lentamente, lasciando posto
ad un
sorriso appena nervoso. Lanciò un’occhiata
all’orologio fissato al muro mentre
regalava una caramella al gusto di menta alla bimba. La resa dei conti
che,
imperterrita, si avvicinava.
«
Come
va, consulente investigativo? » Chiese
Victor con evidente scherno, guardando Sherlock seduto sul pavimento
dell’appartamento a Baker Street, contornato da fogli e foto.
« Non
ho tempo da perdere con te e le tue stupide
chiacchiere, Victor. Sono impegnato.
»
« Oh,
beh, quindi non vuoi sapere che sono appena
stato da John. » La testa di
Sherlock si alzò di scatto,
intrappolandolo sul posto con le sue iridi chiare. « Infatti,
non mi importa. » « Oddio,
smettetela di fare i bambini! » Sherlock
lasciò perdere, ritornando a fissare un’immagine
zoomata di un braccio.
«
Ha
detto che ha pensato molto a quello che vi siete detti…
»
Provò, cercando di attirare la sua attenzione, ma
Sherlock sembrava ostinato a dimenticare la sua esistenza in quel
luogo. « Insomma,
non sei un minimo curioso di ciò che sta
provando lontano da te? » « Ti
sorprenderà la mia risposta, ma no. Ho chiuso
con…John Watson. E’ anche meglio, visto che ora la
mia concentrazione è tutta
sul lavoro. » Victor
alzò gli occhi al cielo, spazientito.
Se
parlare con John era stato
potenzialmente duro –almeno ad
arrivarci
a parlare con lui, visto che aveva dovuto ricorrere a trucchetti idioti
per
raggiungerlo–, provare ad avere un discorso serio
con Sherlock Holmes senza
arrivare alle mani era quantomeno un’impresa titanica. «
Ha detto che ti vuole bene.
»
Sherlock
si arrestò per un momento, facendo cadere una nuova foto
dalle mani, per poi
riprendersi nuovamente, gli occhi che non accennavano ad alzarsi da
terra.
Eccolo
lì, il punto debole.
Voleva sentirselo dire, voleva che glielo dicesse John
perché ne aveva un
disperato bisogno. Idioti, pensò Victor, sedendosi in mezzo
alle scartoffie di
Sherlock, davanti a lui. «
Ti vuole molto
bene, in realtà. Solo che ora è molto ferito e tu
lo sai bene perché. » « Non mi
trattare
come un bambino perché non lo sono.
»
Sembrava
un bimbo sperduto dopo una particolare sgridata della mamma, con i
riccioli che
gli nascondevano il viso e il borbottio arrabbiato. «
Forse anche lui vorrebbe sapere che gli vuoi bene.
»
Si decise ad alzare il viso verso il suo, una
punta di irritazione nello sguardo. «
Te l’ho
mai detto che non ti sopporto? »
Victor
piegò le labbra in un
accenno di sorriso, sentendo che era la cosa giusta, che Sherlock aveva
capito
che non avrebbe affrontato la realtà nascondendosi dietro
una bugia. « Me
l’hai detto un paio di volte, sì.
»
Anche Sherlock ghignò, ritornando a prestare
attenzione al suo lavoro. Okay, il suo lavoro per quel giorno
l’aveva fatto, si
disse, alzandosi e stirandosi i jeans scuri con le mani –se
esisteva un paradiso, pretendeva il posto d’onore.
Un
lieve rumore lo distrasse
dall’osservare il suo eccentrico e vecchio amico
d’avventure, facendogli
spostare lo sguardo sul tavolino pieno di cartellette aperte.
Rintracciò il
telefono di Sherlock sotto il marasma e sbloccò la
schermata, pieno di positività
per quel nuovo messaggio –sapeva
che la
rubrica di Sherlock era molto scarna e il nome che era apparso gli
faceva
presagire il meglio. Finalmente.
Un
sorriso pieno gli riempì il
viso non notato da Sherlock, mentre leggeva il resoconto stretto che
John aveva
scritto all’altro. Perfetto, stupendo. Alla buon ora,
soprattutto. « Credo
che qualcuno abbia fatto il primo passo.
»
Borbottò, lasciando il cellulare nella sua
postazione originale e dirigendosi verso la porta. Sherlock
mormorò qualcosa,
ma non accennò a distogliere l’attenzione dallo
schema che aveva appena
afferrato. Uscì piano, socchiudendo la porta e restando a
vedere uno Sherlock
che, dopo pochi minuti, afferrava il cellulare e leggeva avidamente
ciò che
John gli aveva scritto. Sorrise insieme a Victor, ancora nascosto,
prima di
poggiare il telefonino tra le sue gambe, la bocca che non accennava a
spegnere
quella manifestazione di gioia, per una volta. Victor si decise a
scendere le
scale, orgoglioso di se stesso. In fondo, gli esseri umani erano tutti
dannatamente, odiosamente e irrimediabilmente sentimentali. E nessuno
faceva
eccezione.
Stava
impazzendo, in quel
maledetto bilocale asettico. Improvvisamente, tutto quello che aveva
reputato
banale e di nessuna importanza aveva incominciato a valere
più di qualunque
altra cosa nella sua vita.
Da
quel tavolino poteva capire
che aveva pianto dopo aver parlato con lui, qualche giorno fa? Dalla
riga sul
parquet poteva arrivare a definire la sua vita inutile fino a quel
giorno? Dio,
Dio, Dio. Non gli aveva dato un orario preciso e si odiava per quello,
sobbalzando ogni volta che qualcuno muoveva qualcosa fuori dalla sua
porta. Non
doveva preoccuparsi, si diceva, sei nella tua area di gioco, sei in
casa tua e
lui partirà svantaggiato per questo, ma sapeva che, invece,
era tutto il
contrario. Oddio, stava per vomitare la cena che non aveva mai
ingerito.
Un
bussare la porta gli fece
rompere il bicchiere che stava pulendo, gli occhi puntati
improvvisamente
all’ingresso come un cervo davanti alla luce. Pericolo, una
dannata paura che
la conversazione degeneri, ritrovandosi nuovamente al punto di
partenza. Cercò
di raggruppare i cocci in un angolo, prima di aprire la porta,
sciogliendo i
muscoli contratti delle spalle con una mano. « Ti
ho spaventato. »
Annunciò, restando fermo nel corridoio del
condominio. « No,
ero solo…sovrappensiero.
»
Mormorò, puntando gli occhi sul suo collo –pessima,
orrenda idea– pur di non
incontrare i suoi. «
Ho preferito arrivare
direttamente qui, in caso avessi cambiato idea e non volessi aprirmi la
porta
d’ingresso. » Oh, oh
sì. John annuì, cercando di riattaccare la
spina del cervello a tutto il resto del corpo. « Entra
pure. » Gli fece
spazio ed entrò, portando alle narici di
John il profumo intenso che aveva sempre contraddistinto la loro casa,
ai tempi
in cui vivevano insieme –e anche
dopo,
c’era sempre stato, nei suoi ricordi.
Sherlock
si fermò in mezzo al
salotto, lo sguardo che vagava da tutte le parti e raccoglieva dati.
Imbarazzante. Tutta quella situazione era imbarazzante, tanto che si
pentì di
non avergli dato appuntamento in un bar o ristorante o qualunque altro
posto popolato
da gente. « Carino.
»
Sussurrò Sherlock, poco convinto. « E’
quello che si ottiene con un lavoro minimo e
una pensione ai limiti dell’umano.
»
Un
silenzio insopportabile scese nella stanza, lasciando John camminare
avanti e
indietro davanti alla porta della sua camera da letto con Sherlock che
lo
inseguiva con lo sguardo, ancora fermo al centro del salotto. « Quindi?
»
« Quindi
cosa? » John ebbe
un déjà-vu –ancora.
La sua vita ormai
sembrava tutta un trito e ritrito di cose già vissute, di
cose che facevano
male. « Se
mi hai fatto venire qui ci
dev’essere un motivo.
»
Sì, sì, era giunto il momento.
O adesso o mai più, John Watson. « Vuoi…vuoi
sederti? »
Mormorò John, indicando il piccolo sofà
lì vicino.
Sherlock non sembrava voler accettare quella proposta, ma lo fece lo
stesso,
aiutandolo a sbollire un po’ di ansia. « Okay,
beh… »
Incominciò, stropicciandosi le mani e mettendosi
davanti a lui.
«
Ecco,
vedi, sono stati dei giorni orribili, per me. Giorni che preferirei non
fossero
mai avvenuti, ma ci sono, sono tra noi e sono reali. Io…io
non so se potrò mai
perdonare ciò che hai fatto.
»
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, a metà tra il confuso e
l’irritato. «
Mi hai fatto venire qui per ribadire ciò che
già
so? Bene, non ce n’era bisogno.
»
Si alzò
dal divano, stringendosi i lembi del cappotto –cosa
ci faceva ancora con il cappotto?– più
vicino al petto. John
si avvicinò di più a lui –pessima,
orrenda, cattivissima idea– e lo ammonì
con gli occhi. « Non
ho finito. Siediti. » Sherlock
sembrava più docile degli altri giorni e
fece come gli era stato chiesto, continuando a tenere gli occhi puntati
su di
lui. « Dicevo,
non credo di poter mai
perdonare il tuo gesto. Hai finto un suicidio, mi hai riempito di bugie
e hai
fatto sì che rimanessi da solo per un mese, non accennando a
farmi sapere che
eri in vita. Se non fosse stato per Victor, non so nemmeno per quanto
tempo
avresti dilungato questa situazione e ciò mi fa paura.
E’ stato duro, no, Dio,
è stato come morire. Tu non c’eri e io non sapevo
più che fare. Questo, questo
non potrò mai dimenticarlo, non potrà mai far
tornare il nostro rapporto come
prima. » Si
fermò per un momento, sentendo il magone fluire
su per la gola.
«
E’
tutto? »
Domandò Sherlock, l’espressione indecifrabile come
sempre. « Dimmelo
tu. » « Non mi
piacciono gli indovinelli. » Rispose
calmo,
fulminandolo con gli occhi. John stava per gettare la spugna, con quel
tipo.
Era tutto frasi dette e non dette che lo lasciavano stordito ogni
volta, lasciandolo
in bilico. « C’è
qualcosa che vorresti dire a
proposito? »
Riprovò John, cercando di fargli sputare fuori quelle
parole che era restio a dire –non
ci
pensava nemmeno a confessare tutto lui, lasciandolo fuori da tutti i
problemi.
Stavolta doveva mettersi in gioco anche lui. Sherlock
restò in silenzio con
gli occhi fissi nei suoi. Parlami, parlami, ti prego. «
Sono venuto da te e tu mi hai respinto, non ho
più nient’altro da
aggiungere. » John
sbattè la mano sul muro contro il quale si
era appoggiato poco prima. «
Smettila di fare
così! Non sei la vittima della situazione!
»
« Ho
già ripetuto le mie motivazioni, non so cosa tu
voglia sentirti dire!
»
Sbottò anche lui, alzandosi
dal divano. « Forse
se tu la smettessi di
fissarmi dal tuo stupido piedistallo e mi guardassi davvero in faccia,
capiresti
ciò che voglio sentirmi dire!
»
« Hai
detto che non volevi più vedermi.
»
« Ero
arrabbiato! » « Ora non lo
sei
più? » John
aprì e chiuse la bocca, cercando le parole
adatte con cui rispondergli. Sherlock si era fatto più
vicino, nella foga di
quel discorso, e ora guardarlo negli occhi gli creava non poca
difficoltà. «
Potresti smetterla di far finta che non
t’importi? »
Mormorò John, stanco di quel continuo litigare che
lo tormentava ogni volta che incontrava Sherlock. « Devi
dirmi quello che vuoi, Sherlock. Devi dirmi se hai bisogno di me o se
preferisci restare tu e il tuo lavoro. Devi dirmi se
t’importa veramente di me
o è solo per avere al tuo fianco un leccapiedi che ti
farà tutti i complimenti
che il tuo ego desidera. Devi dirmi la verità
perché me lo devi. Mi devi tutto,
Sherlock. »
Sherlock
abbassò le palpebre e
le strizzò con forza, insieme ai pugni. « Che
cosa vuoi sapere? » « Perché
mi hai
respinto, perché te ne sei andato quando io avevo bisogno di
te. » « Potevi
morire e
la pista era troppo flebile per farla svanire da uno stupido errore.
Dovevi
stare lontano perché dovevo rimanere nascosto. E’
stato l’unico modo. » Lo sapeva che
si stava sforzando e lo apprezzava
davvero.
Era
stupendo, con la testa un
po’ abbassata e i capelli vaporosi, come una nuvola. Era
fantastico anche con
il cappotto dopo tutto quel tempo chiuso nel suo appartamento.
Magnifico mentre
cercava di andare contro la sua natura, per John. « Volevo
starti vicino. » Disse John,
frenando l’impulso di allungare la
mano verso il suo viso scurito dalla vergogna per tutte quelle emozioni
che
andavano fuori dal DNA che si era imposto. « Devi
per forza pensare al passato, John?
»
Sbuffò
stizzito, Sherlock, stringendo forte i denti. « O
mi perdoni o lasciamo perdere, non esiste una terza opzione.
»
Abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un
caldo soffocante nel suo maglione a righe bianche e nere. Avrebbe
voluto
rispondergli scortesemente –non
mostrarti
troppo preso da come andrà a finire la nostra amicizia, mi
raccomando!–, ma
la voce sembrava averlo abbandonato, seccandogli la lingua. « Il problema
non sta nel cosa voglio io, Sherlock!
»
Riuscì a mormorare, spazientito. « Tutto sta
nel cosa vuoi tu. Non posso giocare da
solo, non questa volta. » « Non ti
farò una dichiarazione romantica, non
pensarci nemmeno. » John
sbuffò, facendo un passo indietro e facendo
distanziare i loro corpi. «
Non è questo che
ti sto chiedendo. » Sbotta di
nuovo John, cercando di non fantasticare
in quali momenti gli avrebbe potuto fare una dichiarazione romantica –letto e Sherlock nella stessa frase non
erano proprio il miglior modo per restare concentrati. « Vorrei
che…vorrei che potessi avere ancora un
coinquilino su cui fare affidamento.
»
Ammise,
distogliendo lo sguardo dal suo. «
Non so se
mi basta. » « Te
l’ho detto,
nessuna dichiarazione romantica uscirà dalla mia bocca.
»
« No,
non in quel
senso. Non so se mi basta essere solo un coinquilino, per te.
»
John si morse la lingua, imbarazzato.
Era
stato azzardato, stavano
giusto per riequilibrare le cose e lui aveva alzato nuovamente un altro
polverone, confondendo tutto. Idiota. Stupido idiota. Sherlock
aggrottò le
sopracciglia, prima di dipanare le rughe della fronte in una
espressione sconfitta.
« Sì,
va bene, non solo come coinquilino, lo
sai. » A John
balzò il cuore in gola, sorpreso dalla
ventata di avvenenza che Sherlock stava sfoggiando con così
tanta calma. Era
giunto forse il momento? «
Lo sai che siamo
anche…legati in una relazione di amicizia reciproca a tempo
indeterminato. » Detta
così sembrava tanto un punto di accordo in
un qualsiasi contratto –cinico come
il
peggiore degli scienziati. John non riuscì a
trattenere un gemito di
delusione alle parole di Sherlock –amicizia?
Solo amicizia? Perché amicizia?.
«
Ho
detto qualcosa che non va? Insomma, sai cosa volevo dire!
»
« No,
è tutto
okay. »
Provò a dire, cercando di non far trasparire
nessun segno sul suo corpo, in modo da non far dedurre a Sherlock il
suo stato
d’animo. Inutilmente. «
Non ti stavi riferendo
all’amicizia, non è così?
»
« No,
senti, lascia stare. Va bene, essere amici, va
bene. Possiamo provarci di nuovo, sì.
»
John si sentiva
così in imbarazzo da voler
affondare nel pavimento e non tornare a galla mai più.
Sherlock, ora, sembrava
aver preso coscienza del segreto più importante del mondo –oddio, doveva scappare da lì,
subito, immediatamente. «
Dovremmo….dovresti, insomma, andare a casa.
E’
tardi, è buio, continueremo il discorso domani, okay?
»
Avrebbe voluto potersi dividere in due persone per
poter vedere la faccia di assoluta idiozia che stava sfoggiando in quel
momento, sotto la radiografia di Sherlock che non accennava a muoversi.
« John…
»
C’era per
forza bisogno di parlare?, si chiese frustato, passandosi la mano tra i
capelli
e osservando la porta d’ingresso con particolare interesse. « John, lo sai
cosa penso riguardo queste cose…
»
Sembrava incerto, come se stesse camminando su una
sottile lastra di ghiaccio pronta a spezzarsi al minimo movimento brusco.
«
No, non ti stavo chiedendo…no. » Provò
a negare, scuotendo la testa energicamente e muovendo con enfasi le
braccia.
Dannazione,
dannazione,
dannazione. Dannazione a lui e alla sua boccaccia e dannazione anche a
Sherlock, che continuava a far finta che niente e nessuno intaccasse la
sua
personale bolla di cinica solidità. Sherlock
scrollò le spalle, raddrizzando
appena la schiena. «
Okay, bene. » La patina di
imbarazzo che sembrava essersi
dissolta solo pochi minuti prima ora era ritornata compatta tra di
loro, come
un muro invisibile che li faceva rimanere su isole diverse. John si
ritrovò,
per la prima, senza parole da dirgli. Provava una strana sensazione,
qualcosa
come una mano trasparente che schiacciava il cuore in una stretta
letale,
impedendogli di mentire come aveva sempre fatto da quando
l’aveva conosciuto.
Si ritrovò immobilizzato e stanco, mentre Sherlock si
avvicinava alla porta di
casa e si sistemava ancora una volta il cappotto.
Si
sentì stufo, incredibilmente
irritato nel dover continuare a dire bugie e nascondersi e far tacere i
suoi
sentimenti solo per paura, paura che niente potesse migliore e tutto
potesse,
miseramente, peggiorare. Inutile era stato tenere al riparo dai tempi
il
germoglio di qualcosa che sbocciava prepotente dentro di lui, inutile
scalciare
e smentire le insinuazioni della gente, nella vana speranza di far
smettere di
crescere anche ai suoi, di pensieri.
Quello
che provava per Sherlock
–amore, amore, più di
amore, era sempre
più di tutto, quando c’era lui di mezzo–
era mutato senza freno, da una
salda fiducia all’amicizia più pura, fino a
diventare altro –altro di
sbagliato. Scorretto. Così tanto
ingiusto?–, un ridimensionamento di se stesso che
cercava di scacciare via
con tutte le sue forze. Era arrivato al punto di non ritorno, non
voleva più
lasciare tutto al caso, non ora che aveva davvero rischiato di perderlo
per
sempre. « Quindi,
ti aspetto a Baker Street
domani pomeriggio. Lestrade mi ha lasciato il primo caso, smettendola
di farmi
il broncio ogni volta che lo incrociavo. Potresti anche smetterla di
pagare per
questo posto orrendo e ritornare lì, se ne hai voglia. Non
che io ne abbia,
ovviamente. »
Mormorò alla fine, borbottando più con se stesso
che con John.
Sherlock
aprì la porta e le
parole uscirono dalla bocca prima ancora che potesse pensare a cosa
dire. Prima
ancora di respirare. «
Io ti odio. » Un fiotto di
aria calda, una frase così
impercettibile che quasi sembrò che John non
l’avesse pronunciata, in un
imperturbabile silenzio che, invece, diceva tutto il contrario.
Sherlock rimase
fermo lì, una mano sulla maniglia, la porta socchiusa che
gli faceva smuovere
dolcemente i capelli, e le spalle irrigidite. Tutto sembrava morto, ma
John
sentiva di dover andare avanti o non l’avrebbe fatto mai
più. Dirgli tutto e
dirglielo subito o sarebbe marcito nel pentimento di un sentimento. « Mi hai
lasciato da solo, uno stupido che credeva
in un uomo, un bugiardo. » John si
fermò un momento, riempì i polmoni
d’aria e si sforzò di non far tremare le
mani –tutto, tutto, tutto o niente,
niente più mezze misure.
«
Mi
sono
fidato di te, fidato quando nessuno era stato in grado di farmi provare
un
minimo di amicizia, dopo il congedo in Afghanistan. Te ne sei andato
nel
peggiore dei modi. E’ questo, questo che odio.
»
« Pensavo
avessimo chiarito, John. »
Sbottò, stizzito, girandosi verso di lui e John
notò la durezza dei suoi lineamenti. « Non
c’era davvero bisogno che mi ricordassi ciò che ho
fatto perché me lo ricordo
bene anche io, ma grazie per lo spunto.
»
Prima che
John potesse dire qualcosa per fermarlo –non
capiva mai niente, quell’idiota, e non gli faceva mai finire
un discorso senza
che lui ne deducesse il finale. Sbagliando. Odiava anche quello–,
Sherlock
aveva già sbattuto la porta alle sue spalle, lasciandolo da
solo nella stanza.
No, no, no, non ancora. «
Sherlock? Sherlock! » John gli
corse dietro, trovandolo a metà scalinata
e afferrandolo per il cappotto. «
Ehi, aspetta,
non hai capito niente! » Sherlock si
girò verso
di lui e gli lanciò un’occhiata di fuoco,
strattonando il braccio con cui aveva
stoppato la sua fuga. «
Io capisco sempre tutto,
se te lo fossi dimenticato. »
«
Quindi
hai capito anche che non ti odio realmente? Hai capito che, quello che
volevo
dire, è che vorrei odiarti, vorrei odiarti per tutte queste
cose che mi fanno
uscire fuori di testa, ma tu sei tu e io…io non sono
più io, quando si parla di
te. Non mi hai fatto scegliere, se avessi potuto, per
l’ennesima volta, avrei
scelto te. Il problema sta nel fatto che sceglierei te anche ora.
»
Sherlock dipanò piano le rughe in mezzo alle
sopracciglia, gli occhi che si fondevano insieme a quelli di John,
spezzando un
legame e creandone un altro. «
Dopo tutto
quello che mi hai fatto, volevo davvero non perdonarti, stare lontano
da te e
fare una vita normale. Ti sei finto morto e io questo non riuscivo ad
accettarlo. Ma tu sei qui e sei Sherlock e non posso, davvero, non
posso
pensare al fatto che tu sia vivo ma lontano da me.
»
John si sentiva come una stupida ragazzina di quei
film romantici e adolescenziali che aveva evitato come la peste per
tutta la
vita. Un allarme continuava a lampeggiargli in testa, urlandogli che
era uno
stupido idiota ad essersi esposto così tanto, scoprendo il
suo tallone
d’Achille.
Poteva
sentire le valvole del
cervello di Sherlock muoversi veloci, alla ricerca del giusto senso per
quelle
parole. « Non
ti stavi riferendo all’amicizia,
prima. E’ così.
»
Disse dopo un momento interminabile, salendo uno
scalino e arrivando vicinissimo a John. Il dottore si sentiva fremere
ogni
muscolo del corpo, guardando Sherlock da un po’
più in alto rispetto al solito,
ringraziando mentalmente le scale che gli davano un vantaggio in
altezza. John
non rispose, preso com’era a trovare il coraggio di fare
ciò che andava fatto,
ciò che voleva fare da mesi, sentendo i loro sguardi farsi
carne e unirli in un
abbraccio che non si sarebbero dati di nuovo –respira,
respira, non andare in iperventilazione!. John
chiuse gli occhi, chiuse le mani a pugno
lungo i fianchi e recluse tutti i pensieri in fondo alla sua testa,
premendo le
labbra contro quelle secche di Sherlock. Durò giusto un paio
di secondi, il
momento di assaporarne la consistenza, per poi ragionare sul gesto
completamente sconsiderato che aveva commesso, facendolo staccare in
fretta e
sgranare gli occhi, pronto per la risposta di Sherlock. Sherlock che
stava
immobile. Sherlock che non parlava, non muoveva nessun muscolo e lo
fissava.
Sherlock che, John temeva, non respirava nemmeno. « Non…è
che, non…io, solo…
»
Si sarebbe picchiato, se non si fosse trovato in
quella situazione. L’aveva spaventato –l’aveva
spaventato? Dio, sperava di no. « Sherlock,
credimi, non ho nessuna intenzione di chiederti cose che
non…va bene, essere amici.
Non so cosa mi sia preso. » « Facciamo
finta che non sia successo niente, okay?
»
Chiese Sherlock, mordendosi il labbro inferiore.
John sentì il cuore spezzarsi, ma annuì
solamente, risoluto. Andava bene, non
aveva nulla del quale rimproverarsi; ci aveva provato, almeno. « Va bene, va
benissimo. » John fece per
risalire, quando la mano bianca di
Sherlock si posò dietro al suo collo e le sue labbra
tornarono sopra le sue.
Rimase sbalordito per un po’, finchè non si rese
conto che Sherlock lo stava
baciando –Dio santissimo, Dio
santissimo–
e che quel miracolo stava accadendo a lui. Premette più
forte la bocca contro
la sua, poggiandogli le braccia sulle spalle e accarezzandogli i
capelli.
Bello, bellissimo, perfetto. Incredibile come avesse passato la sua
vita
cercando di nascondere i suoi sentimenti dietro un muro di spavalderia,
orgoglio e testardaggine, per poi ridursi tutto in un istante. Rimasero
lì per
un tempo indefinito, con Sherlock che brontolava per ogni cosa –John, John, ahia, mi stai tirando i
capelli! John, smettila di mordermi il labbro! John, scendi da questo
scalino,
è noioso!– e John che sorrideva e lo
continuava a baciare, impertinente.
Tutto, in quell’unico attimo.
«
Ehi,
Victor, come stai? » « John! Ho
sentito che qualcuno ha pomiciato sulle
scale di un condominio! » John
arrossì di botto, orgoglioso del fatto che
l’altro non potesse vederlo. Si
premette il cellulare contro l’orecchio, finendo di mettere a
posto le sue
poche cose nei cartoni scuri. «
Spero non te
l’abbia detto Sherlock! » « No, me
l’ha detto Mycroft, insomma, un minimo di
pudore! » Lo sentiva
ridere come non mai e la cosa lo
infastidiva e divertiva allo stesso tempo. « Stai
tornando a Baker Street, allora? » « Sì,
è
giusto così, dopotutto. » « Pensi che
potremmo…rivederci? »
Borbottò Victor, improvvisamente serio. « Ovviamente,
Sherlock non vede l’ora che io abbia
qualche altro amico per il quale essere irritantemente geloso.
»
« L’irritante
consulente investigativo, che Dio ce ne scampi!
»
John rise, sentendo bussare alla porta del suo
appartamento, prima di veder comparire Sherlock. « John,
hai finito? Non devi portare dietro anche la polvere di questo posto
immondo. » « John, ti
lascio
al tuo sfortunato destino! Ci sentiamo più tardi.
»
John fece per terminare la chiamata quando sentì la
voce di Victor richiamarlo. «
Sono davvero
felice per voi, volevo dirtelo.” « Grazie per
tutto quanto, Victor.
»
« Dai,
John! Dai! Noia! »
Girò per l’appartamento come se fosse in gabbia,
prima di riuscire dalla porta d’ingresso. John si
sistemò il cellulare nella
tasca dei jeans, prendendo i due cartoni pieni di roba –non
sia mai che Sherlock lo aiuti a fare qualcosa di così poco
interessante come aiutarlo in qualcosa– e
dirigendosi verso l’uscita. Si
guardò per l’ultima volta indietro, in quella casa
che non era mai stata
veramente sua. Così triste, così solo. Un periodo
buio, un periodo che non si
sarebbe mai scordato, ma che aveva bisogno di essere riposto nello
scaffale dei
vecchi ricordi dolorosi. «
John! »
Chiamò una voce petulante dal vano delle scale. « Arrivo!
»
Era ora
di andare a vivere con Sherlock, di nuovo, in un modo tutto diverso. Lo
stesso
Sherlock, come lo sarebbe sempre stato, ma con
quell’aggettivo possessivo –suo–
che rendeva l’emozione forte e
viva come se fosse la prima volta. «
John, sto
per andarmene! » Chiuse la
porta di casa e tirò un sospiro di
sollievo, sentendo il peso di mesi crollare via. Chi restava non lo
diceva, si
soffermava suoi tuoi occhi e con gli occhi te lo gridava, con tutto
l’amore che
aveva dentro. Chi restava non voltava il viso lontano dal tuo. E alla
fine, ciò
che a John importava, era che Sherlock fosse tornato per
restare. Insieme.
Note:
*
Citazione
di Mary
Alice Young
**
Citazione di Anton Vanligt
Questa
storia è
finalmente giunta al termine. Ha visto luce come una one-shot, passando
per una
mini-long di due capitoli, di tre, fino ad arrivare a credere che non
potesse
finire mai. Ma è finita e sono veramente contenta di come io
abbia saputo
gestire qualcosa di diverso.
Un grazie particolare va a Claudia che è stata la portatrice
di quell’incentivo
giusto che mi serviva per partire, a Sabrina, Natasa, Jessie, Cristina,
Monica,
Glass, Greta, Caroline e tutte le altre bellissime ragazze che ho
conosciuto,
che sono state il supporto per il mio ego e per me stessa. Spero che
questo
capitolo non deluda nessuna aspettativa. Un abbraccio con affetto ad
ognuna
delle mie lettrici.
|