Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: AntheaMalec    13/09/2012    16 recensioni
« Mi sembrava molto triste. » « Lo è, ovviamente. Grazie per la tua precisazione inutile, Victor. » Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il cuore che incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di fare il proprio lavoro.
« Dovresti smetterla di essere così duro nei confronti di questa situazione. » « E tu dovresti smetterla di improvvisarti Cupido, è stupido e noioso. »
John si premette una mano sulla bocca, nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano annidando nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo in tilt. « Sei un robot. » Mormorò Victor, in lontananza. « Vorrei tanto poterlo essere. » Sherlock. Sherlock.
« Sherlock? » John riempì la stanza di quel nome, la voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava provando. Il silenzio che riempì le orecchie di John, gli fece capire che l’avevano sentito. Sherlock. Vivo.
Sherlock era vivo.
Genere: Fluff, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
What if I let you in?
What if I make it right it?
What if I give it up?
What if I want to try?
What if you take a chance?
What if I learn to love?
What if, what if we start again?
 
Red



 
 
 
 
Un mese dopo
 
John aveva appena finito il suo turno all’ambulatorio, aveva sorriso, salutato con la mano Sarah, ancora sua collega e amica, e aveva lasciato l’edificio con l’armonia di un uomo qualunque.
Stava passeggiando verso casa, le mani nelle tasche dei pantaloni per proteggerle dal freddo e gli occhi che restavano fissi sull’asfalto. Non prestava attenzione alla gente intorno a lui, preferiva camminare a testa bassa, consapevole del macigno nascosto che si trascinava dietro da giorni. Si sentiva pesante, confuso, assurdamente triste, nonostante le apparenze. « E’ stato assolutamente inaspettato, questo detective morto e risorto! » John si fermò un momento, il sangue che si ghiacciava nelle vene, tutta la via intorno a lui che diventava uno stupido contorno, gli occhi che si puntavano sulla persona che aveva pronunciato quelle parole, davanti ad un’edicola. « Insomma, non che io ci creda molto, a questo svitato! » Aggiunse la signora, accennando ad una risata. Le gambe di John si mossero da sole, spostandosi dal semaforo ancora rosso, davanti alle strisce pedonali, fino ad arrivare all’edicola, gli occhi puntati, ora, sui due signori che parlottavano ignari del suo tumulto interiore. « Scusi, vorrei quel giornale, per favore. » Disse, quasi senza accorgersene, indicando ciò che aveva in mano la donna. « Anche lei un appassionato di miracolati? » Disse l’edicolante, con un sorriso divertito sul volto.
Certo, ero così appassionato da volerlo vedere morto su un marciapiede, avrebbe voluto dirgli, ma si trattenne, sopprimendo l’impulso di cadere a pezzi. Aveva capito, era andato avanti, non aveva più nessun altro a cui pensare e gli andava bene così. Non rispose alla domanda dello sconosciuto, tirando fuori pochi spiccioli dalla tasca e cercando di formare una sorta di sorriso, mal riuscito.
Era più difficile fingere, quando non era chiuso nelle pareti confortanti della clinica. Era più difficile fingere, quando nessuno più si ricordava dello scapolo John Watson, compagno inseparabile di Sherlock Holmes. Ma lui non lo voleva più e la situazione era totalmente cambiata –in meglio? Decisamente no. Prese in fretta il giornale, arrotolandolo stretto e mettendoselo sotto braccio, facendogli scudo con esso. Non voleva che potenziali stalker –ed era sicuro ci fossero, conoscendo Mycroft Holmes– si facessero idee sbagliate sul suo ultimo acquisto.
Lui non aveva nessuna curiosità su tutto ciò che riguardasse Sherlock né aveva voglia di ritornare da lui, nonostante l’articolo in prima pagina. Era solo mero interesse, come un qualunque cittadino che ascolta una storia qualsiasi alla televisione, una bella favola da leggere e riporre lontano da se stessi. Si avviò a passo svelto lungo i vicoli semideserti, la luce scura del pomeriggio che perdeva sempre più colore, spruzzando il cielo di blu scuro. John, in un qualunque giorno di un anno fa, se la sarebbe presa comoda, camminando con il naso all’insù, ringraziando madre natura per avergli restituito la vita che il congedo in Afghanistan gli aveva strappato, e un sorriso impresso sul volto, nel suo personale campo di battaglia.
Ora camminava a testa bassa, il mondo che non lo conosceva e lui che non aveva più voglia di conoscere il mondo, i capelli più grigi, le occhiaie più marcate, il peso sul cuore sempre più pesante, la falsità sempre più all’ordine del giorno. Era strano, era ingiusto, ma andava così e John non aveva più forza di combattere. Lui aveva vinto la battaglia e John sentiva di aver miseramente perso, un limbo in cui non trovava via d’uscita. Si accorse di aver sorpassato il condominio dove ora abitava, una vecchia palazzina con l’intonaco rosa antico scrostato e appartamenti grandi quanto una gabbia –gli andava bene, gli andava bene tutto, ormai. Ritornò indietro, prendendo le chiavi dalla tasca del cappotto e infilandone una nella serratura. Insistette un po’, fino a quando la porta cedette e John potè ripararsi dal vento gelido che aveva incominciato a turbinare fuori. Salì fino al secondo piano ed entrò in casa propria, restando fermo per qualche secondo sul tappetino d’ingresso, immobile. Ogni volta che entrava in quell’appartamento, si sentiva trascinato via da quel posto, troppo angusto e troppo buio e troppo spoglio per essere definito come casa. Era asettico, monocromatico e banale. Un’accozzaglia di cose in un bilocale che non era vissuto veramente –triste, solitario, come il proprietario.
Appena dopo aver avuto l’ultima discussione con Sherlock, John si era deciso a voltare pagina, o almeno a provarci. Aveva lasciato Baker Street, nonostante le proteste della signora Hudson, e si era rintanato in quel buco, sorridendo ai pazienti, sorridendo ai colleghi e piangendo nel cuore. Faceva finta di andare avanti, ogni giorno, rifiutava le chiamate di Victor sempre più insistenti e soffocanti. Non voleva nessuno, gli piaceva quella vita, davvero, checché ne dicessero gli altri.
Si tolse le scarpe e posò il giornale sul tavolo, lanciandogli un’occhiata astiosa e dirigendosi nell’angolo che faceva da cucina, prendendosi una birra dal frigorifero. Gli serviva qualcosa di forte per affrontare ciò che stava per leggere, ma, purtroppo, si era severamente vietato l’alcool dalla prima volta in cui aveva visto sua sorella vomitare l’anima nel bagno della loro casa di famiglia, quindi si sarebbe dovuto arrangiare –come sempre, come per  tutto. Stappò la bottiglia con i denti e si sedette sull’ unica sedia in legno affianco al tavolo –triste, anche quello. Mandò giù un lungo sorso, gustandosi il sapore sulla lingua, prima di fare i conti con il giornale ancora piegato davanti a lui. Su, forza e coraggio, si disse, tamburellando piano le dita sulla superficie del tavolo.
 E’ solo un giornale, nulla di particolarmente pericoloso, pensò, ingoiando un’altra sorsata e decidendosi a leggere. Un titolo in grassetto, sulla prima pagina, diceva chiaramente ‘Il super-scienziato Sherlock Holmes riscatta la sua fama. Sarà vero?’ Dio, gli stava salendo la nausea. Dio, aveva voglia di bruciare quella dannata pagina e stendersi su un letto, cercando di somigliare ad un vegetale.
Lesse l’articolo velocemente, le parole di Sherlock sembravano distorte, di certo non da lui, manipolate dai giornalisti affamati di scoop esilaranti. John si fermò a leggere una domanda particolarmente interessante che avevano rivolto a Sherlock e che aveva attirato tutta la sua attenzione. ‘E di John Watson, il suo compagno, che cosa ci dice? Ritornerete di nuovo insieme? Lo ha già perdonato?’ John respirò a fondo, prima di leggere la risposta, il cuore che palpitava più forte, fregandosene del controllo che il padrone cercava di imporgli. Chiuse per un momento gli occhi, sentendosi come uno stupido bambino di due anni che aveva paura del verdetto della propria mamma, e li riaprì subito, incentrandoli sulle parole di Sherlock. ‘Il signor Holmes evita la domanda, decretando che gli affari privati riguardanti lui e John Watson non sono questioni rilevanti con il tema dell’intervista.’ Ovviamente, era ovvio –perché lui non lo voleva, né come collega né come amico.
Prese il giornale e lo buttò nella pattumiera, chiedendosi perché diavolo avesse speso soldi per quella spazzatura visto che tanto non gli importava. Era inutile, era anche ridicolo averci pensato, a una dichiarazione pubblica o a una ammissione di colpa. Non sarebbe mai cambiato, sempre il solito egocentrico, sempre il solito arrogante. Finì la bottiglia di birra e la lasciò lì, andando a lavarsi il viso con l’acqua fredda. Il rumore del citofono lo distolse dai suoi pensieri, facendolo distogliere dal suo stesso riflesso, davanti al lavandino –il volto di un altro, uno sconosciuto impossessato del suo corpo, gli occhi delusi che avevano perso luce, imbrunendo ogni cosa. Aggrottò le sopracciglia, chiedendosi chi cavolo fosse all’ora di cena. Sperava non fosse Victor, in realtà. Quel ragazzo era una vera e propria piaga quando ci si metteva di impegno e più di una volta aveva dovuto cambiare strada all’improvviso pur di non incrociarlo. Non voleva più nessuno che fosse in contatto con Sherlock e, dopo tutto ciò che era successo, sperava che tutti capissero l’antifona e lo lasciassero in pace. Si diresse spedito verso il citofono, affianco alla porta d’ingresso, mentre qualcuno continuava a scampanellare senza sosta. Prese il ricevitore con aria furibonda, fino a quando non si accorse del soggetto di tutto quel rumore, al videocitofono. Oh mio Dio. Riccioli, occhi chiari, aria annoiata di chi già si è pentito di aver compiuto quel gesto. Sherlock. Cosa ci faceva Sherlock sotto casa sua? Panico.
Si schiarì la voce, cercando di non far trasparire l’emozione dal tono. « Chi è? » « Lo sai chi sono, hai un videocitofono. » John arricciò il labbro, infastidito. Se era quello l’atteggiamento che aveva in serbo per lui –dopo tutto quello che gli aveva fatto, dopo tutto quello che aveva sentito e quello, ancora più importante, che non si era permesso– poteva benissimo andarsene a quel paese e non tornare mai più. « Bene, cosa vuoi? » Sbottò, giocando con il filo del ricevitore.
Anche solo pensarlo, ormai, gli provocava il nervoso –Dio, gli doveva una medaglia per tutta la pazienza che stava avendo con quell’uomo. « Posso salire o dobbiamo parlare in questo modo? » Disse, osservando qualcosa che non riusciva a entrare anche nel suo campo visivo. Stava cercando un punto di fuga? « Preferisco parlare così, non ho nessuna voglia di vederti dal vivo. » « In realtà tu puoi vedermi dal citofono mentre io devo parlare a questo…aggeggio. » « Fidati, è per la tua salute che io non sia lì davanti a te, ora. » John vide Sherlock sbuffare piano, continuando a deviare lo sguardo da un posto all’altro, come se lui fosse veramente davanti a lui e non volesse incrociare il suo sguardo. Restò in silenzio mentre John incominciava a spazientirsi. « Quindi? » « Quindi cosa? » John gemette, frustato. « Quindi cosa vuoi, Sherlock! Perché sei sotto casa mia a quest’ora? » « Ho visto che hai comprato il giornale con l’intervista. » Ah, ecco, giusto per avere le idee chiare sul chi, in realtà, lo avesse pedinato in quei giorni. Sherlock, Sherlock che non aveva più il sapore di Sherlock, nelle sue corde vocali. « Avevo voglia di leggere un po’ di favole, nulla di importante. » Rispose con tono acido e maligno, non riconoscendosi nemmeno. 
Sentiva troppo dolore, ancora, una pena viscerale che gli faceva dolere i muscoli la mattina e gli toglieva il sonno alla notte. Se lo meritava, tutto quel veleno, perché sapeva che per Sherlock Holmes facevano più male le parole che i cazzotti. « Sei ancora arrabbiato, quindi. » « Sherlock, parla chiaro e dimmi che cosa vuoi da me. » Si sforzò di dire, in un impeto di coraggio che in quel momento sembrava scarseggiare. « Insomma, pensavo che… » Lo osservò muoversi agitato davanti al citofono, gli occhi che ancora non fissavano la videocamera. « Pensavo dovessimo parlare riguardo ciò che è successo l’ultima volta che ci siamo incontrati, ecco. Dovresti aver già sbollito la rabbia, ormai. Possiamo continuare da dove abbiamo terminato e… » Sherlock fermò il suo monologo che a John sembravano solo frasi in ordine casuale e senza significato. Cosa stava dicendo? A lui non era passata affatto, quella furia. A lui non era passato nemmeno il dolore della perdita, seppur finta –davvero? Perché lui la sentiva vera, sulla pelle, il legame che si era spezzato e un amico che se n’era andato–, e di certo non avrebbe fatto finta di niente, non dopo ciò che gli aveva detto. « Non posso, Sherlock. »
Finalmente, gli occhi di Sherlock si focalizzarono nella videocamera e John si pentì di aver desiderato quel gesto, perché ora le sue iridi erano puntate su di lui, nonostante la schermata fosse in bianco e nero, e la cosa lo stava alquanto agitando. « Cosa vuol dire ‘non posso’, John? » Lo sapeva bene, cosa volesse dire, ma voleva che John glielo dicesse. Era testardo, nonostante leggesse qualcosa, in quei occhi, qualcosa che era umano e tangibile e che graffiava la pelle di John fino a farlo sanguinare. « Non posso, Sherlock. Non posso lasciare ancora la mia vita per te, lasciare tutto quello che sto cercando di costruire, per ritornare insieme a te fino a quando non ci sarà un altro criminale che ti farà fare cose stupide. Non posso sacrificarmi ancora, non posso fare questo, non posso farmi questo. Mi sono fatto tanto di quel male che tu non te lo puoi nemmeno immaginare. Non posso fare finta che sia tutto okay, capisci? Hai bisogno di…hai bisogno di stare da solo, ora, tu stesso mi hai detto che vuoi che sia così. Per favore…per favore, vattene. Non posso, vattene. » Gli occhi di Sherlock erano la peggiore punizione che potesse avere da chiunque stesse manovrando le loro vite, c’era tutto, in quelle iridi, tutto quello che a parole non sarebbe stato capace di dire.
Tutti i sentimenti che stava provando strabordavano dai suoi bulbi e investivano John come uno tsunami, facendogli venire la nausea. Sentiva le gambe molli e si accorse di avere una lacrima solitaria sullo zigomo solo quando chiuse gli occhi e li sentì umidi. Dolore, dolore che non accennava a scemare, ma che, anzi, continuava a muoversi impetuoso in lui, così tanto da farlo morire dentro, ancora e ancora. « Io l’ho fatto per te. » Mormorò Sherlock, non c’era nulla delle emozioni che sembravano creare ombre lungo tutto il suo viso, c’era solo rabbia –la rabbia che muoveva ogni cosa, da due mesi. « Ho fatto tutto questo per te, ho salvato la tua vita e tu dici che hai la tua vita a cui pensare. » John non sapeva cosa dire, la gola così secca da rasentare l’irrealtà. Lo sapeva cosa stava succedendo a Sherlock, in quel momento: combattere tutti gli altri sentimenti per far posto alla cattiveria, alla furia. « Addio John. »
Lo vide sparire come un fulmine, lasciando il buio davanti a John. John che non riusciva più a reggersi in piedi, John che aveva urlato il nome di Sherlock mentre sentiva l’anima in ginocchio, cercando di farlo restare perché, diavolo, no che non voleva vederlo in quello stato, nonostante tutto –la persona più umana di questo mondo ed era quella la verità. Se n’era andato prima di mostrare le sue debolezze, cercando di rimanere forte, cercando di non finire in mille pezzi, come era finito John non appena aveva visto il cadavere di Sherlock riverso in una pozza di sangue. Rimise la cornetta al proprio posto, prendendo un respiro profondo e scacciando quella foschia che gli appannava la vista e lo faceva barcollare –l’unica volta che l’aveva fatto era stato riempito di esplosivo. Era la stessa, medesima, struggente situazione. Cercò di calmarsi, si mise a riordinare i pochi libri che aveva portato dall’appartamento a Baker Street –la sua vera casa. Non pensarci, non pensarci.
Si sentiva come se avesse perso qualcosa di non rimpiazzabile, aveva amato troppo quell’uomo e ora aveva perduto tutto –poteva andare peggio?. Ci aveva provato, John, aveva provato finché aveva potuto, era andato anche oltre i suoi limiti, contro la sua eterosessualità, contro i suoi principi, contro le malelingue, era andato contro la polizia, contro al mondo intero e ciò che gli era rimasto in mano erano briciole di qualcosa che non esisteva più. Si sentiva così stanco, ora. Prosciugato di tutte le energie che servivano per sopravvivere, ridotto come un’ombra confusa su un vetro appannato. Aveva finalmente ottenuto la sua vendetta, fargli provare almeno un minimo di quel dolore che aveva sentito lui in quei due mesi, eppure sentiva di non aver conquistato niente. Nessuna gloria, nessun amore, nessuna felicità, solo il triste capolinea di qualcosa di irrisolto, ma già perduto –perso qualcosa che non si poteva rimpiazzare, l’amore di sempre, il contorno di tutti suoi giorni, la nitidezza della sua intera esistenza. Si trascinò fino al letto, ancora sfatto dalla nottata precedente.
Provò a dare un paio di colpi al cuscino, fece gli angoli al lenzuolo e provò ad annullare tutti i pensieri, fallendo. Era lui, era Sherlock, radicato dentro di lui dal primo secondo in cui aveva posato gli occhi su di lui. Bellissimo in tutto il suo essere speciale. Si mise sotto le coperte ancora vestito, coprendosi fino al mento e affondando la testa nel cuscino. A tutti serviva qualcosa per vincere la notte, fosse anche il più piccolo spiraglio di speranza.* John si sentiva così perdente, da restare con gli occhi sbarrati contro al soffitto, le parole di Sherlock che affioravano nella sua mente e bruciavano tutto. Sherlock, Sherlock, il mio Sherlock. Scoppiò a piangere, in un curioso déjà-vu della sua vita dopo l’incidente in Afghanistan.
I singhiozzi che gli scuotevano il petto, Sherlock che appariva chiaro davanti a lui, impresso nella sua retina a fuoco. Sherlock con i suoi occhi ghiacciati, Sherlock in un mare di lava, qualche momento prima. Sherlock che rideva, Sherlock sull’orlo di una crisi di nervi. Sherlock sempre, Sherlock che aveva deciso di lasciare alle sue spalle, ma che sapeva, non avrebbe mai avuto il coraggio di dimenticare. Sherlock. Sherlock che amava, Sherlock che avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni.
Si sentiva invisibile, inadatto, incompreso. Era il destino di tutti quelli che sentivano troppo. Il destino di tutti quelli che amavano troppo. La via obbligata del troppo pensare era veder svanire, sotto un velo di incomprensibilità, quell’ illogico mondo e restare irrimediabilmente soli.** Solo. Ancora.
 
 
 
 
 
Sveglia. Borbottio. Ciglia attaccate l’una all’altra. Bagno. Doccia. Caffè, senza zucchero. Respirare. Far battere il cuore.
John si sentiva come un automa quella mattina, la mano che si muoveva da sola per mischiare il secondo caffe della giornata, in ambulatorio. Sarah gliel’aveva gentilmente offerto vedendo il suo stato di semi incoscienza in cui era caduto, gli occhi fissi sul muro di fronte e il paziente che aspettava la ricetta per le medicine. Era stanco, non aveva dormito praticamente niente per tutta la notte, in una continua lotta con se stesso, ciò che provava e ciò che non voleva più provare. Si passò una mano sugli occhi, cercando di cacciare quella spossatezza che lo rendeva nervoso e intrattabile. Non era colpa degli ammalati e nemmeno dei suoi colleghi se lui conosceva Sherlock Holmes –era colpa del destino e, in buona percentuale, di Mike Stamford.
Buttò il bicchiere di plastica nel cestino e si preparò per il prossimo paziente, cercando di focalizzare tutta la sua attenzione sul suo posto di lavoro e non altrove –chissà dove, si stava già facendo ammazzare da altri criminali? Senza di lui? No, basta. La dottoressa che anticipava i pazienti nel suo studio, arrivò tutta trafelata, il camice sgualcito e lo sguardo confuso. « Dottor Watson, c’è un ragazzo che dice di stare molto male, ha rimesso nelle ultime quarantotto ore e dice di non riuscire a reggersi nemmeno in piedi. Lo faccio entrare? » John avrebbe voluto rispondergli con una nota sarcastica –no, lo lasci pure fuori, a morire sul pavimento!–, ma si trattenne, facendo un gesto sbrigativo con la testa e alzandosi dalla sedia, pronto per sorreggere il nuovo arrivato.
Si diede dello stupido, più e più volte, quando il paziente entrò nel suo campo visivo e riconobbe la figura accartocciata di Victor –ovvio, l’arte di mentire, ingannare e recitare era insidiata in tutti loro. Strinse le labbra, arrabbiato, mentre la ragazza sorreggeva Victor per un braccio, con l’ansia a trasformarle il volto. John rimase fermo a braccia conserte, gli occhi di Victor che si muovevano veloci dal pavimento, al viso dell’infermiera fino a lui, con il sottofondo ironico che li caratterizzava sempre.
Si accasciò sul lettino, privo di forze, mentre la ragazza gli scostava i capelli, arrossiva e se ne andava, sbattendo la porta alle sue spalle. « Siete davvero le persone più spregevoli su questa Terra. » Proruppe John, ad un tratto, facendo nascere una sentita risata da parte dell’altro. « Tu non rispondevi al cellulare e mi evitavi, non mi hai lasciato scelta. » Sbuffò, mettendosi finalmente a sedere e ritornando la persona composta e piena di salute di sempre. « Ho saputo cos’è successo ieri sera. » Come giravano le voci a Londra non succedeva da nessun’altra parte, pensò, distogliendo lo sguardo da lui e affondandolo fuori dalla finestra. « C’è stato solo un disguido, tutto risolto. » Victor alzò un sopracciglio, accigliato. « A quanto ho capito, non c’è nulla di risolto in tutta questa faccenda. » « Non sono affari tuoi.” « Invece sì. » John stesse in silenzio, cercando di non fare una sfuriata in piena regola. Victor scese dal lettino e si avvicinò a lui, gli occhi fissi sul suo viso che non volevano farlo respirare.
« John, senti, lo so che è difficile. E’ dura, è Sherlock, è sempre stato così. Io ti ho tenuto nascosto ciò che era giusto nascondere, ma tu sei come un fratello per me, un amico… » Ritornò a posare gli occhi su di lui, sentendo quelle parole entrare dentro e riscaldarlo. « Hai parlato con lui? » Chiese John, appoggiandosi alla scrivania, seguito subito da Victor. « Sì, mi ha mandato un messaggio e io sono andato da lui. Era sconvolto, anche se faceva finta di niente, sembrava crollare a pezzi dietro tutta la sua immobilità e non ha spiccicato una parola. Mi aveva detto che sarebbe venuto da te…ha rovinato tutto come sempre? »
John non sapeva più come si parlasse, immaginando Sherlock nel loro appartamento a Baker Street, solo come lo era stato lui solo un mese prima, con un comportamento che rasentava quello tenuto a Baskerville. Triste, era in quello stato anche lui. « E’ venuto a parlare con me. » Incominciò, cercando di mantenere una posa rilassata e neutra, ma non riuscendoci. Era Victor, era un suo amico, nonostante tutto, e John era stanco di nascondersi dietro a belle facciate. « Non l’ho fatto salire, abbiamo parlato al citofono. » Victor sgranò un momento gli occhi, ma non parlò, cosa che rincuorò enormemente John. « Lui mi ha chiesto di tornare con lui, nel suo modo contorto, e io gli ho detto di no. Non posso, non voglio. E’…troppo presto, ancora. Doloroso. Lui mi ha detto addio e se n’è andato. » Era stato sintetico, non aveva voluto veramente dire cos’era successo, cos’aveva visto dal videocitofono –la tormenta negli occhi di lui che crepava il cuore di John, ancora, ancora e ancora.
« E a te sta bene così? » Chiese Victor, con una punta di rabbia nella voce. « Certo che mi sta bene così! Ti devo forse ricordare cos’ha fatto? » « Ora deve solo capire se vuoi continuare a vivere nei rancori del passato o pensare al presente e al tuo possibile futuro. Sei disposto a lasciarlo andare per davvero? » Victor prese in mano il fermacarte dalla scrivania, incominciando a passarselo da una mano all’altra, gli occhi che continuavano ad incentrarsi su di lui.
Certo che lo voleva lasciare andare, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare in quei mesi. Voleva punirlo, fargli capire come si stava da soli, smarriti e abbandonati. Voleva che, finalmente, pronunciasse qualche parola di vero sentimento, tanto da convincerlo a ritornare da lui, piano piano.
Ma era Sherlock e tutti quei desideri si tramutavano solo in fumo incolore e insapore, riempiendolo nuovamente di delusione. « Se sei sicuro di volerlo lasciare andare, sicuro al cento per cento, allora io non vi fermerò e lascerò che ricominciate a vivere separatamente, ma se c’è anche solo una piccolissima parte di te che si sta pentendo di non averlo fatto salire a parlare con te, se solo c’è una parte che ha mancanza di Sherlock, allora è mio dovere di amico fare in modo che ritorniate uniti, insieme. La scelta è tua, però. Spetta a te decidere. » Victor rimise a posto il fermacarte, dandogli una solidale pacca sulla spalla e facendo per uscire dallo studio. « E comunque… » Disse ad un tratto, aprendo la porta in plastica lucida e ritornando a guardare John. « Anche Sherlock è rimasto in silenzio. » Se ne andò via, lasciandolo in un mare di confusione che non gli piaceva per niente. Cosa aveva voluto dire con quella frase? Che Sherlock era disposto a riprovarci un’altra volta, mister non-mi-piace-nessuno-in-questo-mondo-idiota? Brividi. L’infermiera ritornò dentro, accompagnando una madre con la sua bambina di qualche anno mentre la mente di John era ormai persa, alla deriva di pensieri troppo grandi. Lavoro, sei al lavoro, John Watson, riprenditi, pensò, aprendo la bocca alla bimba con lunghi riccioli neri. Sherlock. « Respira profondamente, brava. » Sherlock. « Stenditi, ecco, sei bravissima!” Sherlock. Sherlock. « Ora prova a tossire un po’ e poi abbiamo finito, su. » Sherlock. Lasciò una carezza sulla testa della piccola, sorprendentemente silenziosa, e prese la sua decisione, sperando che quell’idiota non avesse cambiato numero di cellulare in tutto quel tempo di lontananza.
 
Stasera, nel mio appartamento. Dobbiamo parlare. JW
 
Lasciò il cellulare sulla scrivania, il peso dal cuore che diminuiva lentamente, lasciando posto ad un sorriso appena nervoso. Lanciò un’occhiata all’orologio fissato al muro mentre regalava una caramella al gusto di menta alla bimba. La resa dei conti che, imperterrita, si avvicinava.
 
 
 
 
 
« Come va, consulente investigativo? » Chiese Victor con evidente scherno, guardando Sherlock seduto sul pavimento dell’appartamento a Baker Street, contornato da fogli e foto. « Non ho tempo da perdere con te e le tue stupide chiacchiere, Victor. Sono impegnato. » « Oh, beh, quindi non vuoi sapere che sono appena stato da John. » La testa di Sherlock si alzò di scatto, intrappolandolo sul posto con le sue iridi chiare. « Infatti, non mi importa. » « Oddio, smettetela di fare i bambini! » Sherlock lasciò perdere, ritornando a fissare un’immagine zoomata di un braccio.
« Ha detto che ha pensato molto a quello che vi siete detti… » Provò, cercando di attirare la sua attenzione, ma Sherlock sembrava ostinato a dimenticare la sua esistenza in quel luogo. « Insomma, non sei un minimo curioso di ciò che sta provando lontano da te? » « Ti sorprenderà la mia risposta, ma no. Ho chiuso con…John Watson. E’ anche meglio, visto che ora la mia concentrazione è tutta sul lavoro. » Victor alzò gli occhi al cielo, spazientito.
Se parlare con John era stato potenzialmente duro –almeno ad arrivarci a parlare con lui, visto che aveva dovuto ricorrere a trucchetti idioti per raggiungerlo–, provare ad avere un discorso serio con Sherlock Holmes senza arrivare alle mani era quantomeno un’impresa titanica. « Ha detto che ti vuole bene. » Sherlock si arrestò per un momento, facendo cadere una nuova foto dalle mani, per poi riprendersi nuovamente, gli occhi che non accennavano ad alzarsi da terra.
Eccolo lì, il punto debole. Voleva sentirselo dire, voleva che glielo dicesse John perché ne aveva un disperato bisogno. Idioti, pensò Victor, sedendosi in mezzo alle scartoffie di Sherlock, davanti a lui. « Ti vuole molto bene, in realtà. Solo che ora è molto ferito e tu lo sai bene perché. » « Non mi trattare come un bambino perché non lo sono. » Sembrava un bimbo sperduto dopo una particolare sgridata della mamma, con i riccioli che gli nascondevano il viso e il borbottio arrabbiato. « Forse anche lui vorrebbe sapere che gli vuoi bene. » Si decise ad alzare il viso verso il suo, una punta di irritazione nello sguardo. « Te l’ho mai detto che non ti sopporto? »
Victor piegò le labbra in un accenno di sorriso, sentendo che era la cosa giusta, che Sherlock aveva capito che non avrebbe affrontato la realtà nascondendosi dietro una bugia. « Me l’hai detto un paio di volte, sì. » Anche Sherlock ghignò, ritornando a prestare attenzione al suo lavoro. Okay, il suo lavoro per quel giorno l’aveva fatto, si disse, alzandosi e stirandosi i jeans scuri con le mani –se esisteva un paradiso, pretendeva il posto d’onore.
Un lieve rumore lo distrasse dall’osservare il suo eccentrico e vecchio amico d’avventure, facendogli spostare lo sguardo sul tavolino pieno di cartellette aperte. Rintracciò il telefono di Sherlock sotto il marasma e sbloccò la schermata, pieno di positività per quel nuovo messaggio –sapeva che la rubrica di Sherlock era molto scarna e il nome che era apparso gli faceva presagire il meglio. Finalmente. 
Un sorriso pieno gli riempì il viso non notato da Sherlock, mentre leggeva il resoconto stretto che John aveva scritto all’altro. Perfetto, stupendo. Alla buon ora, soprattutto. « Credo che qualcuno abbia fatto il primo passo. » Borbottò, lasciando il cellulare nella sua postazione originale e dirigendosi verso la porta. Sherlock mormorò qualcosa, ma non accennò a distogliere l’attenzione dallo schema che aveva appena afferrato. Uscì piano, socchiudendo la porta e restando a vedere uno Sherlock che, dopo pochi minuti, afferrava il cellulare e leggeva avidamente ciò che John gli aveva scritto. Sorrise insieme a Victor, ancora nascosto, prima di poggiare il telefonino tra le sue gambe, la bocca che non accennava a spegnere quella manifestazione di gioia, per una volta. Victor si decise a scendere le scale, orgoglioso di se stesso. In fondo, gli esseri umani erano tutti dannatamente, odiosamente e irrimediabilmente sentimentali. E nessuno faceva eccezione.
 
 
 
 
 
Stava impazzendo, in quel maledetto bilocale asettico. Improvvisamente, tutto quello che aveva reputato banale e di nessuna importanza aveva incominciato a valere più di qualunque altra cosa nella sua vita.
Da quel tavolino poteva capire che aveva pianto dopo aver parlato con lui, qualche giorno fa? Dalla riga sul parquet poteva arrivare a definire la sua vita inutile fino a quel giorno? Dio, Dio, Dio. Non gli aveva dato un orario preciso e si odiava per quello, sobbalzando ogni volta che qualcuno muoveva qualcosa fuori dalla sua porta. Non doveva preoccuparsi, si diceva, sei nella tua area di gioco, sei in casa tua e lui partirà svantaggiato per questo, ma sapeva che, invece, era tutto il contrario. Oddio, stava per vomitare la cena che non aveva mai ingerito.
Un bussare la porta gli fece rompere il bicchiere che stava pulendo, gli occhi puntati improvvisamente all’ingresso come un cervo davanti alla luce. Pericolo, una dannata paura che la conversazione degeneri, ritrovandosi nuovamente al punto di partenza. Cercò di raggruppare i cocci in un angolo, prima di aprire la porta, sciogliendo i muscoli contratti delle spalle con una mano. « Ti ho spaventato. » Annunciò, restando fermo nel corridoio del condominio. « No, ero solo…sovrappensiero. » Mormorò, puntando gli occhi sul suo collo –pessima, orrenda idea– pur di non incontrare i suoi. « Ho preferito arrivare direttamente qui, in caso avessi cambiato idea e non volessi aprirmi la porta d’ingresso. » Oh, oh sì. John annuì, cercando di riattaccare la spina del cervello a tutto il resto del corpo. « Entra pure. » Gli fece spazio ed entrò, portando alle narici di John il profumo intenso che aveva sempre contraddistinto la loro casa, ai tempi in cui vivevano insieme –e anche dopo, c’era sempre stato, nei suoi ricordi.
Sherlock si fermò in mezzo al salotto, lo sguardo che vagava da tutte le parti e raccoglieva dati. Imbarazzante. Tutta quella situazione era imbarazzante, tanto che si pentì di non avergli dato appuntamento in un bar o ristorante o qualunque altro posto popolato da gente. « Carino. » Sussurrò Sherlock, poco convinto. « E’ quello che si ottiene con un lavoro minimo e una pensione ai limiti dell’umano. » Un silenzio insopportabile scese nella stanza, lasciando John camminare avanti e indietro davanti alla porta della sua camera da letto con Sherlock che lo inseguiva con lo sguardo, ancora fermo al centro del salotto. « Quindi? » « Quindi cosa? » John ebbe un déjà-vu –ancora. La sua vita ormai sembrava tutta un trito e ritrito di cose già vissute, di cose che facevano male. « Se mi hai fatto venire qui ci dev’essere un motivo. » Sì, sì, era giunto il momento. O adesso o mai più, John Watson. « Vuoi…vuoi sederti? » Mormorò John, indicando il piccolo sofà lì vicino. Sherlock non sembrava voler accettare quella proposta, ma lo fece lo stesso, aiutandolo a sbollire un po’ di ansia. « Okay, beh… » Incominciò, stropicciandosi le mani e mettendosi davanti a lui.
« Ecco, vedi, sono stati dei giorni orribili, per me. Giorni che preferirei non fossero mai avvenuti, ma ci sono, sono tra noi e sono reali. Io…io non so se potrò mai perdonare ciò che hai fatto. » Sherlock aggrottò le sopracciglia, a metà tra il confuso e l’irritato. « Mi hai fatto venire qui per ribadire ciò che già so? Bene, non ce n’era bisogno. » Si alzò dal divano, stringendosi i lembi del cappotto –cosa ci faceva ancora con il cappotto?– più vicino al petto. John si avvicinò di più a lui –pessima, orrenda, cattivissima idea– e lo ammonì con gli occhi. « Non ho finito. Siediti. » Sherlock sembrava più docile degli altri giorni e fece come gli era stato chiesto, continuando a tenere gli occhi puntati su di lui. « Dicevo, non credo di poter mai perdonare il tuo gesto. Hai finto un suicidio, mi hai riempito di bugie e hai fatto sì che rimanessi da solo per un mese, non accennando a farmi sapere che eri in vita. Se non fosse stato per Victor, non so nemmeno per quanto tempo avresti dilungato questa situazione e ciò mi fa paura. E’ stato duro, no, Dio, è stato come morire. Tu non c’eri e io non sapevo più che fare. Questo, questo non potrò mai dimenticarlo, non potrà mai far tornare il nostro rapporto come prima. » Si fermò per un momento, sentendo il magone fluire su per la gola.
« E’ tutto? » Domandò Sherlock, l’espressione indecifrabile come sempre. « Dimmelo tu. » « Non mi piacciono gli indovinelli. » Rispose calmo, fulminandolo con gli occhi. John stava per gettare la spugna, con quel tipo. Era tutto frasi dette e non dette che lo lasciavano stordito ogni volta, lasciandolo in bilico. « C’è qualcosa che vorresti dire a proposito? » Riprovò John, cercando di fargli sputare fuori quelle parole che era restio a dire –non ci pensava nemmeno a confessare tutto lui, lasciandolo fuori da tutti i problemi. Stavolta doveva mettersi in gioco anche lui. Sherlock restò in silenzio con gli occhi fissi nei suoi. Parlami, parlami, ti prego. « Sono venuto da te e tu mi hai respinto, non ho più nient’altro da aggiungere. » John sbattè la mano sul muro contro il quale si era appoggiato poco prima. « Smettila di fare così! Non sei la vittima della situazione! » « Ho già ripetuto le mie motivazioni, non so cosa tu voglia sentirti dire! » Sbottò anche lui, alzandosi dal divano. « Forse se tu la smettessi di fissarmi dal tuo stupido piedistallo e mi guardassi davvero in faccia, capiresti ciò che voglio sentirmi dire! » « Hai detto che non volevi più vedermi. » « Ero arrabbiato! » « Ora non lo sei più? » John aprì e chiuse la bocca, cercando le parole adatte con cui rispondergli. Sherlock si era fatto più vicino, nella foga di quel discorso, e ora guardarlo negli occhi gli creava non poca difficoltà. « Potresti smetterla di far finta che non t’importi? » Mormorò John, stanco di quel continuo litigare che lo tormentava ogni volta che incontrava Sherlock. « Devi dirmi quello che vuoi, Sherlock. Devi dirmi se hai bisogno di me o se preferisci restare tu e il tuo lavoro. Devi dirmi se t’importa veramente di me o è solo per avere al tuo fianco un leccapiedi che ti farà tutti i complimenti che il tuo ego desidera. Devi dirmi la verità perché me lo devi. Mi devi tutto, Sherlock. »
Sherlock abbassò le palpebre e le strizzò con forza, insieme ai pugni. « Che cosa vuoi sapere? » « Perché mi hai respinto, perché te ne sei andato quando io avevo bisogno di te. » « Potevi morire e la pista era troppo flebile per farla svanire da uno stupido errore. Dovevi stare lontano perché dovevo rimanere nascosto. E’ stato l’unico modo. » Lo sapeva che si stava sforzando e lo apprezzava davvero.
Era stupendo, con la testa un po’ abbassata e i capelli vaporosi, come una nuvola. Era fantastico anche con il cappotto dopo tutto quel tempo chiuso nel suo appartamento. Magnifico mentre cercava di andare contro la sua natura, per John. « Volevo starti vicino. » Disse John, frenando l’impulso di allungare la mano verso il suo viso scurito dalla vergogna per tutte quelle emozioni che andavano fuori dal DNA che si era imposto. « Devi per forza pensare al passato, John? » Sbuffò stizzito, Sherlock, stringendo forte i denti. « O mi perdoni o lasciamo perdere, non esiste una terza opzione. » Abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un caldo soffocante nel suo maglione a righe bianche e nere. Avrebbe voluto rispondergli scortesemente –non mostrarti troppo preso da come andrà a finire la nostra amicizia, mi raccomando!–, ma la voce sembrava averlo abbandonato, seccandogli la lingua. « Il problema non sta nel cosa voglio io, Sherlock! » Riuscì a mormorare, spazientito. « Tutto sta nel cosa vuoi tu. Non posso giocare da solo, non questa volta. » « Non ti farò una dichiarazione romantica, non pensarci nemmeno. » John sbuffò, facendo un passo indietro e facendo distanziare i loro corpi. « Non è questo che ti sto chiedendo. » Sbotta di nuovo John, cercando di non fantasticare in quali momenti gli avrebbe potuto fare una dichiarazione romantica –letto e Sherlock nella stessa frase non erano proprio il miglior modo per restare concentrati. « Vorrei che…vorrei che potessi avere ancora un coinquilino su cui fare affidamento. » Ammise, distogliendo lo sguardo dal suo. « Non so se mi basta. » « Te l’ho detto, nessuna dichiarazione romantica uscirà dalla mia bocca. » « No, non in quel senso. Non so se mi basta essere solo un coinquilino, per te. » John si morse la lingua, imbarazzato.
Era stato azzardato, stavano giusto per riequilibrare le cose e lui aveva alzato nuovamente un altro polverone, confondendo tutto. Idiota. Stupido idiota. Sherlock aggrottò le sopracciglia, prima di dipanare le rughe della fronte in una espressione sconfitta. « Sì, va bene, non solo come coinquilino, lo sai. » A John balzò il cuore in gola, sorpreso dalla ventata di avvenenza che Sherlock stava sfoggiando con così tanta calma. Era giunto forse il momento? « Lo sai che siamo anche…legati in una relazione di amicizia reciproca a tempo indeterminato. » Detta così sembrava tanto un punto di accordo in un qualsiasi contratto –cinico come il peggiore degli scienziati. John non riuscì a trattenere un gemito di delusione alle parole di Sherlock –amicizia? Solo amicizia? Perché amicizia?.
« Ho detto qualcosa che non va? Insomma, sai cosa volevo dire! » « No, è tutto okay. » Provò a dire, cercando di non far trasparire nessun segno sul suo corpo, in modo da non far dedurre a Sherlock il suo stato d’animo. Inutilmente. « Non ti stavi riferendo all’amicizia, non è così? » « No, senti, lascia stare. Va bene, essere amici, va bene. Possiamo provarci di nuovo, sì. »
 John si sentiva così in imbarazzo da voler affondare nel pavimento e non tornare a galla mai più. Sherlock, ora, sembrava aver preso coscienza del segreto più importante del mondo –oddio, doveva scappare da lì, subito, immediatamente. « Dovremmo….dovresti, insomma, andare a casa. E’ tardi, è buio, continueremo il discorso domani, okay? » Avrebbe voluto potersi dividere in due persone per poter vedere la faccia di assoluta idiozia che stava sfoggiando in quel momento, sotto la radiografia di Sherlock che non accennava a muoversi. « John… » C’era per forza bisogno di parlare?, si chiese frustato, passandosi la mano tra i capelli e osservando la porta d’ingresso con particolare interesse. « John, lo sai cosa penso riguardo queste cose… » Sembrava incerto, come se stesse camminando su una sottile lastra di ghiaccio pronta a spezzarsi al minimo movimento  brusco. « No, non ti stavo chiedendo…no. » Provò a negare, scuotendo la testa energicamente e muovendo con enfasi le braccia.
Dannazione, dannazione, dannazione. Dannazione a lui e alla sua boccaccia e dannazione anche a Sherlock, che continuava a far finta che niente e nessuno intaccasse la sua personale bolla di cinica solidità. Sherlock scrollò le spalle, raddrizzando appena la schiena. « Okay, bene. » La patina di imbarazzo che sembrava essersi dissolta solo pochi minuti prima ora era ritornata compatta tra di loro, come un muro invisibile che li faceva rimanere su isole diverse. John si ritrovò, per la prima, senza parole da dirgli. Provava una strana sensazione, qualcosa come una mano trasparente che schiacciava il cuore in una stretta letale, impedendogli di mentire come aveva sempre fatto da quando l’aveva conosciuto. Si ritrovò immobilizzato e stanco, mentre Sherlock si avvicinava alla porta di casa e si sistemava ancora una volta il cappotto.
Si sentì stufo, incredibilmente irritato nel dover continuare a dire bugie e nascondersi e far tacere i suoi sentimenti solo per paura, paura che niente potesse migliore e tutto potesse, miseramente, peggiorare. Inutile era stato tenere al riparo dai tempi il germoglio di qualcosa che sbocciava prepotente dentro di lui, inutile scalciare e smentire le insinuazioni della gente, nella vana speranza di far smettere di crescere anche ai suoi, di pensieri.
Quello che provava per Sherlock –amore, amore, più di amore, era sempre più di tutto, quando c’era lui di mezzo– era mutato senza freno, da una salda fiducia all’amicizia più pura, fino a diventare altro –altro di sbagliato. Scorretto. Così tanto ingiusto?–, un ridimensionamento di se stesso che cercava di scacciare via con tutte le sue forze. Era arrivato al punto di non ritorno, non voleva più lasciare tutto al caso, non ora che aveva davvero rischiato di perderlo per sempre. « Quindi, ti aspetto a Baker Street domani pomeriggio. Lestrade mi ha lasciato il primo caso, smettendola di farmi il broncio ogni volta che lo incrociavo. Potresti anche smetterla di pagare per questo posto orrendo e ritornare lì, se ne hai voglia. Non che io ne abbia, ovviamente. » Mormorò alla fine, borbottando più con se stesso che con John.
Sherlock aprì la porta e le parole uscirono dalla bocca prima ancora che potesse pensare a cosa dire. Prima ancora di respirare. « Io ti odio. » Un fiotto di aria calda, una frase così impercettibile che quasi sembrò che John non l’avesse pronunciata, in un imperturbabile silenzio che, invece, diceva tutto il contrario. Sherlock rimase fermo lì, una mano sulla maniglia, la porta socchiusa che gli faceva smuovere dolcemente i capelli, e le spalle irrigidite. Tutto sembrava morto, ma John sentiva di dover andare avanti o non l’avrebbe fatto mai più. Dirgli tutto e dirglielo subito o sarebbe marcito nel pentimento di un sentimento. « Mi hai lasciato da solo, uno stupido che credeva in un uomo, un bugiardo. » John si fermò un momento, riempì i polmoni d’aria e si sforzò di non far tremare le mani –tutto, tutto, tutto o niente, niente più mezze misure.
« Mi sono fidato di te, fidato quando nessuno era stato in grado di farmi provare un minimo di amicizia, dopo il congedo in Afghanistan. Te ne sei andato nel peggiore dei modi. E’ questo, questo che odio. »  « Pensavo avessimo chiarito, John. » Sbottò, stizzito, girandosi verso di lui e John notò la durezza dei suoi lineamenti. « Non c’era davvero bisogno che mi ricordassi ciò che ho fatto perché me lo ricordo bene anche io, ma grazie per lo spunto. » Prima che John potesse dire qualcosa per fermarlo –non capiva mai niente, quell’idiota, e non gli faceva mai finire un discorso senza che lui ne deducesse il finale. Sbagliando. Odiava anche quello–, Sherlock aveva già sbattuto la porta alle sue spalle, lasciandolo da solo nella stanza. No, no, no, non ancora. « Sherlock? Sherlock! » John gli corse dietro, trovandolo a metà scalinata e afferrandolo per il cappotto. « Ehi, aspetta, non hai capito niente! » Sherlock si girò verso di lui e gli lanciò un’occhiata di fuoco, strattonando il braccio con cui aveva stoppato la sua fuga. « Io capisco sempre tutto, se te lo fossi dimenticato. »
« Quindi hai capito anche che non ti odio realmente? Hai capito che, quello che volevo dire, è che vorrei odiarti, vorrei odiarti per tutte queste cose che mi fanno uscire fuori di testa, ma tu sei tu e io…io non sono più io, quando si parla di te. Non mi hai fatto scegliere, se avessi potuto, per l’ennesima volta, avrei scelto te. Il problema sta nel fatto che sceglierei te anche ora. » Sherlock dipanò piano le rughe in mezzo alle sopracciglia, gli occhi che si fondevano insieme a quelli di John, spezzando un legame e creandone un altro. « Dopo tutto quello che mi hai fatto, volevo davvero non perdonarti, stare lontano da te e fare una vita normale. Ti sei finto morto e io questo non riuscivo ad accettarlo. Ma tu sei qui e sei Sherlock e non posso, davvero, non posso pensare al fatto che tu sia vivo ma lontano da me. » John si sentiva come una stupida ragazzina di quei film romantici e adolescenziali che aveva evitato come la peste per tutta la vita. Un allarme continuava a lampeggiargli in testa, urlandogli che era uno stupido idiota ad essersi esposto così tanto, scoprendo il suo tallone d’Achille.
Poteva sentire le valvole del cervello di Sherlock muoversi veloci, alla ricerca del giusto senso per quelle parole. « Non ti stavi riferendo all’amicizia, prima. E’ così. » Disse dopo un momento interminabile, salendo uno scalino e arrivando vicinissimo a John. Il dottore si sentiva fremere ogni muscolo del corpo, guardando Sherlock da un po’ più in alto rispetto al solito, ringraziando mentalmente le scale che gli davano un vantaggio in altezza. John non rispose, preso com’era a trovare il coraggio di fare ciò che andava fatto, ciò che voleva fare da mesi, sentendo i loro sguardi farsi carne e unirli in un abbraccio che non si sarebbero dati di nuovo –respira, respira, non andare in iperventilazione!.  John chiuse gli occhi, chiuse le mani a pugno lungo i fianchi e recluse tutti i pensieri in fondo alla sua testa, premendo le labbra contro quelle secche di Sherlock. Durò giusto un paio di secondi, il momento di assaporarne la consistenza, per poi ragionare sul gesto completamente sconsiderato che aveva commesso, facendolo staccare in fretta e sgranare gli occhi, pronto per la risposta di Sherlock. Sherlock che stava immobile. Sherlock che non parlava, non muoveva nessun muscolo e lo fissava. Sherlock che, John temeva, non respirava nemmeno. « Non…è che, non…io, solo… » Si sarebbe picchiato, se non si fosse trovato in quella situazione. L’aveva spaventato –l’aveva spaventato? Dio, sperava di no. « Sherlock, credimi, non ho nessuna intenzione di chiederti cose che non…va bene, essere amici. Non so cosa mi sia preso. » « Facciamo finta che non sia successo niente, okay? » Chiese Sherlock, mordendosi il labbro inferiore. John sentì il cuore spezzarsi, ma annuì solamente, risoluto. Andava bene, non aveva nulla del quale rimproverarsi; ci aveva provato, almeno. « Va bene, va benissimo. » John fece per risalire, quando la mano bianca di Sherlock si posò dietro al suo collo e le sue labbra tornarono sopra le sue. Rimase sbalordito per un po’, finchè non si rese conto che Sherlock lo stava baciando –Dio santissimo, Dio santissimo– e che quel miracolo stava accadendo a lui. Premette più forte la bocca contro la sua, poggiandogli le braccia sulle spalle e accarezzandogli i capelli. Bello, bellissimo, perfetto. Incredibile come avesse passato la sua vita cercando di nascondere i suoi sentimenti dietro un muro di spavalderia, orgoglio e testardaggine, per poi ridursi tutto in un istante. Rimasero lì per un tempo indefinito, con Sherlock che brontolava per ogni cosa –John, John, ahia, mi stai tirando i capelli! John, smettila di mordermi il labbro! John, scendi da questo scalino, è noioso!– e John che sorrideva e lo continuava a baciare, impertinente. Tutto, in quell’unico attimo.
 
 
 
 
 
« Ehi, Victor, come stai? » « John! Ho sentito che qualcuno ha pomiciato sulle scale di un condominio! » John arrossì di botto, orgoglioso del fatto che l’altro non potesse vederlo. Si premette il cellulare contro l’orecchio, finendo di mettere a posto le sue poche cose nei cartoni scuri. « Spero non te l’abbia detto Sherlock! » « No, me l’ha detto Mycroft, insomma, un minimo di pudore! » Lo sentiva ridere come non mai e la cosa lo infastidiva e divertiva allo stesso tempo. « Stai tornando a Baker Street, allora? » « Sì, è giusto così, dopotutto. » « Pensi che potremmo…rivederci? » Borbottò Victor, improvvisamente serio. « Ovviamente, Sherlock non vede l’ora che io abbia qualche altro amico per il quale essere irritantemente geloso. » « L’irritante consulente investigativo, che Dio ce ne scampi! » John rise, sentendo bussare alla porta del suo appartamento, prima di veder comparire Sherlock. « John, hai finito? Non devi portare dietro anche la polvere di questo posto immondo. » « John, ti lascio al tuo sfortunato destino! Ci sentiamo più tardi. » John fece per terminare la chiamata quando sentì la voce di Victor richiamarlo. « Sono davvero felice per voi, volevo dirtelo.” « Grazie per tutto quanto, Victor. » « Dai, John! Dai! Noia! » Girò per l’appartamento come se fosse in gabbia, prima di riuscire dalla porta d’ingresso. John si sistemò il cellulare nella tasca dei jeans, prendendo i due cartoni pieni di roba –non sia mai che Sherlock lo aiuti a fare qualcosa di così poco interessante come aiutarlo in qualcosa– e dirigendosi verso l’uscita. Si guardò per l’ultima volta indietro, in quella casa che non era mai stata veramente sua. Così triste, così solo. Un periodo buio, un periodo che non si sarebbe mai scordato, ma che aveva bisogno di essere riposto nello scaffale dei vecchi ricordi dolorosi. « John! » Chiamò una voce petulante dal vano delle scale. « Arrivo! » Era ora di andare a vivere con Sherlock, di nuovo, in un modo tutto diverso. Lo stesso Sherlock, come lo sarebbe sempre stato, ma con quell’aggettivo possessivo –suo– che rendeva l’emozione forte e viva come se fosse la prima volta. « John, sto per andarmene! » Chiuse la porta di casa e tirò un sospiro di sollievo, sentendo il peso di mesi crollare via. Chi restava non lo diceva, si soffermava suoi tuoi occhi e con gli occhi te lo gridava, con tutto l’amore che aveva dentro. Chi restava non voltava il viso lontano dal tuo. E alla fine, ciò che a John importava, era che Sherlock fosse tornato per restare. Insieme.
 
 
 
 
Note:
 
* Citazione di Mary Alice Young                      
** Citazione di Anton Vanligt
 
Questa storia è finalmente giunta al termine. Ha visto luce come una one-shot, passando per una mini-long di due capitoli, di tre, fino ad arrivare a credere che non potesse finire mai. Ma è finita e sono veramente contenta di come io abbia saputo gestire qualcosa di diverso.
Un grazie particolare va a Claudia che è stata la portatrice di quell’incentivo giusto che mi serviva per partire, a Sabrina, Natasa, Jessie, Cristina, Monica, Glass, Greta, Caroline e tutte le altre bellissime ragazze che ho conosciuto, che sono state il supporto per il mio ego e per me stessa. Spero che questo capitolo non deluda nessuna aspettativa. Un abbraccio con affetto ad ognuna delle mie lettrici.
   
 
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