Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: AntheaMalec    08/09/2012    12 recensioni
« Mi sembrava molto triste. » « Lo è, ovviamente. Grazie per la tua precisazione inutile, Victor. » Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il cuore che incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di fare il proprio lavoro.
« Dovresti smetterla di essere così duro nei confronti di questa situazione. » « E tu dovresti smetterla di improvvisarti Cupido, è stupido e noioso. »
John si premette una mano sulla bocca, nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano annidando nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo in tilt. « Sei un robot. » Mormorò Victor, in lontananza. « Vorrei tanto poterlo essere. » Sherlock. Sherlock.
« Sherlock? » John riempì la stanza di quel nome, la voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava provando. Il silenzio che riempì le orecchie di John, gli fece capire che l’avevano sentito. Sherlock. Vivo.
Sherlock era vivo.
Genere: Fluff, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
 
Share my life, take me for what I am
Cause I'll never change all my colours for you
Take my love, I'll never ask for too much
Just all that you are and everything that you do
I don't want to have to go where you don't follow
I won't hold it back again, this passion inside
I don't wanna hurt anymore
Stay in my arms if you dare
Or must I imagine you there?
Don't walk away from me...
I have nothing, nothing, nothing
If I don't have you
 
Whitney Houston
 
 
 
 
 
Sherlock. Sherlock. Sherlock. Vivo. John pensava che quelle due parole non potessero stare più insieme –era morto, l’aveva visto con i suoi stessi occhi, non era pazzo!– e invece ora scopriva che era vivo. L’aveva sentito, era lui, avrebbe riconosciuto la sua voce anche tra mille altre.
« John, ehi, ehm, cosa stavi dicendo? Pensavo avessi riattaccato! » Victor. L’avevano riempito di bugie su bugie, infarcendole con sorrisi finti e stupide parole di conforto. « Sherlock. C’è Sherlock lì con te, non è vero? » Aveva parlato in modo sicuro mentre, in realtà, si sentiva cadere a pezzi un po’ per volta, dolorosamente. La mano che non reggeva il cellulare era abbandonata sul suo petto, tremando leggermente. Si mise a sedere, respirando profondamente e imponendosi la calma. « No, cosa dici? John, Sherlock è morto, lo sai! » No, no che non lo sapeva, perché evidentemente c’era in gioco più di quanto gli era concesso sapere. « Giurami che non c’è Sherlock lì con te, giuramelo sulla cosa che hai di più caro, Victor, e allora ti crederò. » Victor esitò, dall’altra parte dalla cornetta, e John si sentì in dovere di farlo sentire in colpa nei suoi confronti –era così strano che volesse sapere la verità? Che volesse sapere se il suo dannato migliore amico avesse solo fatto finta, per un dannato mese, di essere dannatissimamente morto?. « Victor, per favore, dimmi la verità, ho bisogno che qualcuno sia sincero con me, per una volta. Se Sherlock è vivo, dimmelo. » Altro silenzio, altra attesa. « Aspetta un momento, John, ti richiamo più tardi. » Prima che potesse protestare, la telefonata venne interrotta e tutto ciò che gli restò furono dubbi e certezze.
La certezza di averlo riconosciuto, il dubbio di essere diventato pazzo, la certezza di essere stato ingannato –da lui, ancora. Gliel’avrebbe fatta passare liscia, questa volta? Non ne era sicuro–, il dubbio del perché lo avesse fatto. Si alzò dal letto, girando per la stanza in preda a una di quelle irritazioni epiche che si ricordavano per il resto della vita.
Traditore, bugiardo, calcolatore. Bugiardo, calcolatore, traditore. Lanciò un’occhiata al cellulare che non accennava a squillare –squilla, squilla, per favore, ne ho bisogno– prima di buttare tutte le coperte a terra, in un moto di rabbia. Lanciò il cuscino dall’altra parte della stanza, strappò via il lenzuolo, stropicciandolo e facendolo finire sull’orrendo comodino d’epoca, vicino all’armadio. Infuriato, ecco com’era.
Non gli importava che fosse vivo, in quel momento, voleva solamente averlo lì di fronte, sincerarsi che stesse bene e poi picchiarlo così forte da fargli rimanere i lividi per i successivi sette mesi. Si sedette sul pavimento, nel mare di caos che lui stesso aveva creato, sentendo agitarsi nel petto milioni di emozioni contrastanti che creavano una guerra, distruggevano ciò che era rimasto in piedi dalla morte –finta morte– di Sherlock e creavano ipotesi, speranze e castelli di sabbia dentro al suo cervello. Si prese la testa tra le mani, cercando di calmare il clamoroso mal di testa che si era impossessato di lui dopo quella telefonata. Quanto avrebbe realmente aspettato Sherlock a ripresentarsi da lui, se non avesse lasciato aperta la chiamata? E, soprattutto, sarebbe ritornato o avrebbe lasciato tutto così com’era, non preoccupandosi più di lui? Il telefonino prese a vibrare e suonare e non aspettò nemmeno il terzo squillo prima di alzarsi e rispondere. Aveva bisogno con tutto se stesso di sapere la verità. « Victor? » « John, ehi. » John, ehi? Era tutto ciò che aveva da dirgli? John strinse tra le mani il bordo del comodino, cercando rimasugli di calma dentro di lui. « Spero che tu e il tuo compagno di avventure abbiate le idee chiare, ora. » « Senti, non è semplice come credi. » « E’ ancora lì? » Inspira, espira, non arrabbiarti prima del dovuto, si disse, cercando un appiglio, un qualcosa dove poter fare breccia e trovare finalmente una risposta –un mese, un mese. « No, non è qui. Non c’è nessuno qui. » Mentiva, anche se era bravo a fingere tanto quanto a dar sollievo ai poveri coinquilini lasciati soli. Tutto uno squallido piano architettato alla perfezione, il solo pensiero gli fece venire la nausea. « Voglio parlargli, passamelo. » Victor sospirò, dall’altra parte della cornetta, prima di rispondergli. « Aspetta. » Aspettare, aspettare, aspettare, non faceva altro, ormai.
Si alzò dalla posizione accovacciata in cui si era messo senza accorgersene, camminando per la stanza e dando un calcio al cuscino, per terra. « John? » Ancora la voce di Victor –diamine, voleva la voce di Sherlock, voleva gridargli addosso quanto diavolo lo odiasse!. « Non crede sia il momento più opportuno per parlare. » « Oh, pensavo non ci fosse nessuno lì con te, Victor. » Sarcasmo: gli usciva bene quando era particolarmente agitato; fiotti di veleno che non avevano nessun argine. Liberatorio, almeno. « Non è come credi, è…complicato. » « Complicato? Oh, certo. » A John scappò una risata che non aveva nulla di divertente. Si stava arrabbiando, sentiva che tutta la tristezza che l’aveva accompagnato come una seconda pelle per quei giorni, ora si stava tramutando in altro, forse in qualcosa di ancora più letale.
« Passamelo. Voglio sentire la sua voce. » « Non si può, John, ti prego! Questa telefonata potrebbe essere ascoltata! » John sbuffò, sentendo i muscoli tendersi e dolere nello sforzo di mantenere un minimo di calma. Avrebbe voluto non saperlo in questo modo. Avrebbe voluto avere lì davanti quel deficiente e poterlo sistemare bene, come gli era stato insegnato quando era in guerra, sfigurare quel viso di porcellana e romperlo in mille pezzi, come aveva fatto Sherlock con lui. « Va bene, va bene. » Concesse John mentre percepiva Victor sospirare di sollievo dall’altra parte della linea. « Grazie, John, mi fa piacere che tu… » « No. No, non hai capito. Vorrà dire che verrò io lì, ovunque voi siate. Subito, immediatamente. » Victor gemette, frustrato, la mente di John che lavorava da sola, senza freni, in un misto di agitazione, furia e qualcos’altro, che gli faceva pulsare le tempie e torcere lo stomaco. « John…per favore. » « Dimmelo. Verrò a cercarlo per tutta Londra se necessario, sappilo, e informerò tutti, Lestrade, Mrs Hudson, Molly e Mycroft, farò uscire tutti i giornalisti fino a che non lo troveranno. » Silenzio. Sapeva che qualunque cosa fosse successa, quello era il momento giusto per insistere fino a mordere. « Victor… » « John, sai che la decisione non aspetta a me, io…non sono io a scegliere, mi dispiace. » « Beh, allora dì a quel… » John si impose la calma, stringendo forte i denti fino a sentire male alle gengive. « Allora digli che, se non verrà da me ora, non avrà più qualcuno da cui tornare, mai più. Digli che questo è definitivo: o si fa vivo o per me è morto per sempre. » Riuscì a chiudere la chiamata prima che qualcos’altro potesse alimentare la fiamma incessante dentro al suo petto.
Non voleva sapere niente, in quel momento, voleva solo che lui si presentasse lì e respirasse e battesse le palpebre e avesse le pulsazioni regolari per far capire a John che quello non era un sogno o un’allucinazione, che era davvero umano e pieno di vita. Strinse di più la presa sul telefono, lo rigirò tra le mani, lo mise sul comodino e poi sul letto sfatto, prima di decidersi a fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non diventare pazzo d’ansia in quella camera. Scese le scale in fretta, lasciando la camera nel caos totale che aveva creato lui stesso, girò per il salotto ed entrò in cucina, tamburellando con le dita sul tavolo. Nervoso, agitato, in attesa di qualcuno che non sapeva nemmeno sarebbe ricomparso –voleva? Lo sperava. Sherlock, Sherlock, Sherlock.
Sentiva il cuore scoppiargli nel petto e la vista farsi appannata, le mani che incominciavano a formicolare, tanto che dovette sedersi su una sedia e mandare giù un paio di cucchiai ricolmi di zucchero –odio, odio per quello stato in cui era caduto, odio per lui che non stava arrivando–, ispirando ed espirando lentamente, socchiudendo gli occhi e facendo una lista dei pro e dei contro di tutta quella faccenda e rinunciando all’impresa al secondo punto di quel delirio. Avvertiva lo stupido impulso di alzarsi e correre fino al cellulare, fare il numero di Victor e implorargli di passargli Sherlock –perché ne ho bisogno, perché lui mi sta mancando come l’aria e tu non puoi capire–, ma il suo lato duro, quello saldo e indistruttibile, non glielo permise. Non sarebbe andato lui da Sherlock, non quella volta, non quando l’aveva fatto vivere in una bugia per un mese, non quando l’aveva piegato fino a farlo rompere, non quando aveva avuto quel ti amo sulle labbra, ma non era mai riuscito a dirgli niente, per paura di rovinare tutto.
Improvvisamente, tutti i vecchi e i nuovi rancori collegati a Sherlock si stavano coagulando, diventando una sfera insostenibile, creando una rabbia smisurata che lo corrodeva dentro a poco a poco, ma intensamente. Aveva subìto abbastanza, John, aveva subìto troppo e la goccia –una cascata, in realtà– che aveva fatto traboccare il vaso era arrivata, scombinando le carte in tavola. Guardò l’orologio, notando che la mezzanotte era passata da un pezzo e che gli occhi cominciavano a bruciare, complice l’ora tarda e la delusione. Non era venuto, quindi –aveva mai preso in considerazione di venire? Forse no, forse non gliene fregava niente. Dolore.
Aveva deciso al suo posto, ancora una volta. Aveva fatto di testa sua, incurante del fatto che qualcuno gli avesse dato dei limiti, una scelta da fare e una dimostrazione da dare –se ci tieni a me, vieni, altrimenti va’ al diavolo. Dolore, straziante.
 John si tenette la testa con la mano, il braccio che sembrava aver perso consistenza e il gomito che sfregava, insofferente, contro il legno del tavolo. Tutta quell’ansia che solo qualche tempo prima lo aveva scosso, affogandogli il corpo di quella scarica di adrenalina di cui aveva costantemente bisogno, si era affievolita, spegnendosi a poco a poco, come un fuocherello sotto la pioggia battente. Perché non era arrivato a Baker Street e probabilmente quello era il suo modo di chiudere la faccenda. Victor gli aveva detto che era pericoloso, Victor gli aveva detto che non si poteva, Victor gli aveva detto che proprio non era il momento giusto per parlare con il suo migliore amico morto. Bugie, ancora. Bugie belle e buone.
Il pericolo lo avevano affrontato tutti i giorni, prima, il pericolo era sempre andato bene a tutti e due. Se Sherlock non era ritornato a casa, allora era quella la sua scelta. Il tacito accordo del mai più rivederci –per sempre felici e contenti? Pessima idiozia. Si alzò dalla sedia, stiracchiandosi le gambe indolenzite e versandosi un po’ di acqua fresca. Inutile illudersi ancora, inutile ritardare la cruda verità che gli si era mostrata senza pietà. Mise il bicchiere nel lavandino e spense la luce della cucina, avviandosi verso le scale e fermandosi al bivio. Senza pensarci, scese gli scalini fino alla porta d’ingresso, prese un respiro profondo, e abbassò la maniglia, arrivando a contatto con l’aria pungente della notte. Nessuno, ovviamente. Non sapeva nemmeno perché l’avesse fatto, sperando fino all’ultimo in qualcosa che, maledizione, non esisteva. Lanciò un’ultima occhiata alla via deserta, prima di tornare dentro e chiudere il portone. Si premette contro il legno per qualche secondo, in un gesto di resa.
Ci gettava la spugna, con Sherlock Holmes, lui e i suoi stupidi trucchetti di magia, lui e la sua sociopatia, lui e i suoi trabocchetti, lui e basta. John Watson stava smettendo di lottare perché non c’era più nulla per cui farlo. Ritornò su, nella sua camera da letto, tenendosi al corrimano come se fosse la sua personale fune per la salvezza. Arrivato dinanzi alla stanza, lo prese un immotivato panico. Era tutto fuori posto, non andava bene, non andava bene niente. Come avrebbe fatto a dormire in quel caos? Come avrebbe potuto rimettere a posto? Le lacrime premettero per uscire, ma le rispinse dentro, deciso. Niente più lacrime, non per lui –ma stava male per il letto, per il letto disfatto, non per Sherlock che non si era presentato.
Calma. Entrò in quel disordine e afferrò il cellulare che lampeggiava deciso sopra il materasso. Un messaggio, non aveva voglia di leggerlo, chiunque fosse –chi vuoi che sia, John Watson? Di certo non Sherlock. Mai lui. Mai più. Si guardò per un momento intorno, prima di optare per la fuga; si chiuse la porta alle spalle –ancora, la sua vita stava diventando tutta una questione di porte chiuse e ferite aperte– e andò in soggiorno, stendendosi sopra al divano scomodo e girandosi su un fianco, coprendosi la visuale di tutto premendo la faccia contro un cuscino.
Dio, si sentiva uno schifo. Tutta quella serata aveva fatto schifo, in realtà. Anzi, l’intero mese era stato un totale, gigantesco, immane schifo. Nella sua testa continuavano ad affollarsi migliaia di domande che non trovavano alcuna risposta e quell’assenza, quel silenzio, gli bruciava dentro come acido. Si girò supino, l’imbottitura sotto di lui che non gli dava tregua e lo faceva rimanere rigido. Era giusto così, si disse, andava bene stare allerta, essere vigili e non sopprimere tutto nel dormiveglia. Agguantò il cellulare, ai piedi del divano, e premette il tasto al centro, aprendo finalmente il messaggio. Victor.
Diceva: ‘Mi dispiace, davvero. Sappi che è per la tua protezione, non si può esporre. Ti prego, cerca di capire, non è come pensi tu. Se non è di troppo disturbo, domani verrò a casa tua. Ti vuole bene, credici’.  John rise, una risata secca e distruttiva. Gli voleva bene, certo. Gli voleva bene così tanto da non avere nemmeno il coraggio di parlargli, ma sapeva benissimo come fingersi morto per giorni che sembravano anni. Imprecò, buttando malamente il telefonino sul tappeto, non curandosi del fatto che avrebbe potuto rompersi. Lo infarcivano di bugie, gli facevano credere che era tutto per proteggere lui, che lui avrebbe dovuto ringraziare e chinare la testa –lui, il capitano John Watson!–, che tutto si sarebbe risolto, mentre lui brancolava nel buio del lutto –finto, un finto lutto del cavolo. Beh, John non ci stava. Non si sarebbe sottomesso alle regole di Sherlock Holmes e non avrebbe fatto come diamine voleva lui, non quella volta, non dopo tutto quello che aveva causato dentro John e attorno a lui. Spense il cellulare e spense anche i pensieri, chiudendo gli occhi e inalando ossigeno solo per semplice istinto di sopravvivenza.
Qualcosa era inesorabilmente morto, quella notte, qualcosa che aveva a che fare con il senso di legame che era sopravvissuto dopo la caduta, quel senso di alleanza e quella fiducia che prima sembravano a prova di proiettile e che ora restavano a terra, a pezzi. Scivolò in un dormiveglia tormentato, fatto di edifici troppo alti e marciapiedi coperti di sangue, fatto di ossa che stridono e dolore alla nuca, fatto di sentimenti che mutano e fioriscono e appassiscono e si spezzano. Fatto di lutto, questa volta in commemorazione di John.
 
 
La prima cosa di che percepì John appena si svegliò, fu un lancinante dolore alla schiena che gli fece stringere ancora di più le palpebre chiuse e impastate,  ricordandogli immediatamente dove avesse passato le ultime ore.
Victor. Telefonata. Sherlock. Attesa. Sherlock. Rabbia. Sherlock. Delusione. Sherlock. Sherlock che era vivo, ma che aveva deciso di restare morto –a John tanto non importava, sarebbe andato avanti con la sua vita, lo avrebbe fatto sul serio, questa volta. Provò a stirare i muscoli, riuscendo a toccare con la pianta dei piedi il bracciolo del divano dopo di lui e sentendo parecchie ossa scricchiolare fastidiosamente. Aprì gli occhi, scontrandosi con il soffitto verde scuro e lievemente scrostato del suo appartamento. Silenzio, imperioso e inutile quanto banale. Si mise a sedere, massaggiando piano la spalla destra e notando che qualcuno era seduto sulla poltrona nera che un tempo era appartenuta a Sherlock.
Il suo cuore perse un colpo, notando i capelli riccioluti e corti, ma dovette ritornare a fare i conti con la realtà, osservando quel viso che non apparteneva al suo migliore amico –sciocco anche solo pensarlo, sciocco anche solo sperarci– ma a qualcun altro, qualcuno che in quel momento non aveva nessuna intenzione di vedere.
« Prima che mi cacci fuori di casa brandendo una pistola, sappi che sono venuto in pace! » Alzò le mani davanti al viso, un accenno di sorriso sul viso pulito. John si chiese come diavolo avesse potuto anche solo pensare di dare corda ad un ex probabile amico di Sherlock Holmes. « Mi hai mentito. » Riuscì solamente a dire, trovando la forza di alzarsi dal divano e fare qualche passo verso la cucina. « Ho dovuto farlo, lo sai benissimo anche tu. » « Non puoi sapere cosa penso. » « Ma sono certo che non mi hai ancora sparato e questo è un ottimo segno! » John lo guardò in tralice, sopprimendo un sorriso. Non doveva ridere, Victor era stato falso con lui, era stato dalla parte di Sherlock ancora prima di conoscere lui. « Sono qui solo per specificare che non è solo per aiutare lui che ho condiviso con te questi ultimi giorni. Provo un sincero affetto per te, così forte e così simile a ciò che ero io tanti anni fa. Non credere che ciò di cui abbiamo discusso sia solo una bugia, non farlo. » John abbassò lo sguardo, frustrato.
Era tutta una serie di sensazioni negative, quella che provava da un mese a quella parte. Una tristezza sopra l’altra, un castello che barcollava e cadeva sempre, rovesciando tutto e bloccando il respiro. « Potevi dirmelo, anzi, dovevi dirmelo. Sherlock è il mio migliore amico, dannazione! Ho aspettato un mese, un mese! Ma no, perché informare il patetico John Watson che Sh- » Victor gli mise una mano sulla bocca, fulminandolo con i suoi occhi azzurro acqua. « Fai silenzio. » Sillabò, allontanandosi subito dopo, tornando alla sua postazione originale. « Tu non puoi capire molte cose e io non posso spiegartele, ritieniti fortunato nel sapere ciò che sai. » John spalancò gli occhi, allibito da ciò che aveva pronunciato Victor.
Fortunato? Davvero? Era finito in un manicomio per pazzi, ecco il problema. Credevano fosse tutto rose e fiori, che basta sapere che Sherlock fosse vivo per far ritornare tutto alla normalità? Beh, si sbagliavano di grosso. « Tu non puoi capire, nessuno di voi può! Siete solamente dei bugiardi che giocano con i miei sentimenti e con la mia vita! Vattene, non voglio che tu stia in casa mia. » Fece dietro front ed entrò in cucina, chiudendosi la porta alle spalle. Cercò di regolare il respiro, fallendo miseramente e facendolo entrare in iperventilazione. Oltre al danno anche la beffa, oltre all’abbandono anche la delusione e poi l’affronto.
Fortunato. Lui che aveva visto morire il suo migliore amico in diretta. Lui che aveva passato di tutto, in quei giorni schifosi dove nessuno era riuscito a fare niente per farlo stare meglio. Dove anche il sentirsi speciale per essere stato l’unico veramente vicino a Sherlock in tutta la sua vita era andato in frantumi all’arrivo di Victor. John era stato ripagato con una mezza verità, una nuova delusione e tanto fumo.
Se era quello che significava essere fortunati, allora non osava immaginare come sarebbe stato essere sfortunati –un soffitto che crollava in testa, forse. Saltare in aria con una bomba, uno psicopatico e un sociopatico in una dannata piscina, forse.
« Posso? » Chiese Victor, poco dopo, affacciandosi al vano della porta. « No. » « John, non pensare che Sherlock non ti voglia bene solo perché non è venuto da te, ieri sera.” « Odio la gente che mi dice cosa posso pensare o non posso pensare. » Victor si fece un po’ più vicino, posandogli una mano sulla spalla. « Lo capisco, davvero. Posso capire il tuo punto di vista. E’ difficile. E’ doloroso. Ti sei sentito morire quando non l’hai visto arrivare, non è così? » John lo fissò negli occhi e sentì tutte le emozioni salirgli su in gola, creandogli il magone. « Vorrei potertelo far incontrare, John, più di ogni altra cosa al mondo. » « No. No, non voglio. » Victor aggrottò le sopracciglia, confuso.
« Non voglio vederlo. Non stavo scherzando, ieri sera. Gli avevo dato un ultimatum e lui non l’ha rispettato, ha fatto la sua scelta e a me sta bene. » « Non capisci, ora come ora. » John si tolse dalla presa di Victor, aggirando il tavolo e ritornando in salotto. « No, è la mia scelta, per la prima volta ho preso una decisione e sono deciso a rispettarla. Ho la mia vita a cui pensare e lui ha deciso di non farne più parte. » Victor sbuffò, alzando gli occhi al cielo. « Smettila di fare il bambino. » John lo ignorò, avvicinandosi alla finestra e osservando la strada sottostante. « Potresti andartene, ora? Sono stanco. » Non sentì alcun rumore alle sue spalle, ma non se ne curò, appoggiando la tempia sopra al vetro freddo. « John? » « Per favore, no…vai e basta. » Vide il riflesso di Victor tentennare, i denti che mordevano il labbro inferiore e l’indecisione scritta negli occhi. « Sherlock mi ammazzerà, ne sono sicuro. » Proruppe infine, massaggiandosi la fronte e avvicinandosi a John. « In che senso? » « Nel senso… » Incominciò Victor, prendendo dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare e digitando in fretta sullo schermo. « …che sto per fare una cosa che mi farà rischiare quasi certamente la morte. » Si mise un momento il telefono all’orecchio, prima di passarlo a John. Sentì il cuore perdere un battito, non riusciva più ad avere la capacità di manovrare il proprio corpo, in preda ad un’ondata di emozioni così intensa da lasciarlo paralizzato.
Stava per parlare con Sherlock? Perché lui non voleva farlo, no davvero. Sherlock non se lo meritava, affatto.
Prese il cellulare in mano, cercando di frenare il leggero tremito che lo scuoteva tutto. Oh Dio, oh Dio, non voleva parlarci, non voleva sentire più la sua voce, aveva una dannatissima paura delle conseguenze che avrebbe portato quella telefonata. « Victor, perché mi hai chiamato? C’è qualche problema? » John si posò una mano sulla bocca, in un curioso déjà-vu della serata precedente. Sherlock, mio Dio. Sherlock, vivo –il miracolo era giunto e sentiva i pezzi di se stesso vorticare e ferire tutte le parti nascoste di lui. « Victor, sei tu, vero? » Mormorò stizzito Sherlock, dall’altra parte della cornetta. John non riuscì a far altro che guardare Victor negli occhi, sentendosi come un cucciolo abbandonato per strada. « No, non sono Victor. » Riuscì a dire, il tono duro che non lasciava trapelare nulla. Poteva sentirsi scosso quanto voleva, ma non avrebbe mai permesso a Sherlock di vederlo o sentirlo debole. Non gli avrebbe più permesso niente. « John. Ovviamente dare un ordine a Victor è come darlo al muro. » La rabbia incominciò a montargli dentro, distruggendo qualunque altro sentimento. Furia omicida. « Stai facendo anche il sarcastico? Stai davvero cercando di far finta di niente? » Aveva alzato il volume della voce, la mano che non reggeva il telefono era aggrappata al davanzale della finestra, invocando la santa pazienza che gli era stata affidata alla nascita. « Non mi sembra il momento giusto per parlarne. Non dovremmo nemmeno parlare, in realtà. » Odio. Victor dovette vedere che le cose si stavano complicando perché prese in mano la situazione. « Sherlock, senti… » La voce di Victor morì subito mentre quella di Sherlock riusciva ad arrivare anche a John, tanto era alta. « Dimmi dov’è. » Sussurrò John a Victor che scosse la testa, afflitto dalla marea di parole che Sherlock gli stava versando addosso. « Per favore, dimmelo. Devi dirmelo, se qualcosa di vero c’è stato tra di noi, dimmelo. » John lo guardò, in attesa.
Non avrebbe mollato, non ora che l’aveva sentito parlare. Doveva sfogarsi di tutto, doveva poterlo vedere e poterlo aggredire, vedere il suo viso mentre gli sputava tutto il rancore che lo stava perseguitando da giorni. Voleva potergli dire addio guardandolo dritto negli occhi e poi farlo sparire per sempre insieme al peso che gli opprimeva i polmoni. « Washington Street, 46. Ti prego, fai attenzione. » Riuscì solo a dire Victor mentre la voce di Sherlock si alzava ancora, scandendo bene le parole ‘Gli hai detto dove sono? Victor, dannazione!’, prima che John salisse in fretta le scale che portavano alla sua camera, indossando una felpa con il cappuccio, una di quelle sciarpe che non aveva mai messo e un paio di jeans scoloriti –sto arrivando, sto arrivando da te.
Guardò per un momento il disordine che ancora aleggiava in quella stanza, ma durò poco, troppo preso dalla miriade di input e pensieri che il suo corpo e il suo cervello continuavano a concedergli, senza sosta. Scese le scale, osservando Victor che faceva avanti e indietro nel salotto, cercando di aprire bocca per ribattere ma non riuscendo a proferire parola. Un po’ gli dispiaceva per lui, ma lo ammirava e lo stimava per essere andato contro il volere di Sherlock ed aver fatto per conto proprio, nonostante sapesse delle conseguenze irreversibili del suo gesto. Glielo avrebbe detto, dopo aver visto Sherlock –Dio, lo avrebbe ripetuto all’infinito. Sto andando da Sherlock Holmes, sto andando da Sherlock Holmes. Appena si chiuse il grosso portone alle spalle, John si alzò il cappuccio sulla testa, fino a coprire metà volto. Notò una macchina nera e lucida posteggiata davanti a lui e si inquietò subito. Familiare, assurdamente familiare. E irritante. Che cosa voleva Mycroft da lui, ora? Non aveva tempo da perdere. « La prego di salire su quest’auto, dottor Watson. » Disse un uomo in abito elegante, in piedi sul marciapiede. « Se questa messinscena è per evitare che io vada da lui, allora potete risparmiarvela. Stavolta non sono d’accordo, stavolta non cedo. » « Salga in macchina, dottor Watson. » John sbuffò, guardandosi nervosamente attorno. Non sarebbe riuscito a crearsi una via di fuga se Mycroft voleva che non la trovasse, questo era garantito.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare era assecondare le manie di quell’uomo e poi tornare al punto principale, ovvero stanare Sherlock ovunque si trovasse. Salì in macchina, cercando di non pensare a niente –perché pensare gli dava rabbia e, grazie tante, di rabbia ne aveva già abbastanza per conto suo. Il suo telefono squillò nella tasca della felpa, il nome di Mycroft che lampeggiava prepotente sullo schermo luminoso. « Pronto? » « Dottor Watson, che piacevole sorpresa risentirla dopo tutto questo tempo. » Sorpresa? John si massaggiò la tempia, già stanco della conversazione. Mycroft aveva il fantastico dono di farlo arrabbiare a livelli cosmici senza nemmeno stargli davanti. « Vorrei poter dire lo stesso.” « Si sta chiedendo dove è diretto, John? » « In qualche edificio abbandonato dove potrà cercare di parlarmi di non so cosa? » Domandò, ostentando una calma che non sentiva di possedere. « Lo sa bene di cosa potrei parlare, con lei. »
Allora lo sapeva anche lui. Perfetto. Giusto. Magnifico. Era stato un idiota a pensare che Mycroft Holmes, chiamato anche Governo britannico, non sapesse che il suo amato fratellino fosse vivo. A quanto pareva, l’unico ad essere rimasto nel buio era John, il perché era ancora un mistero –o forse non lo era, ma faceva troppo male per prendere in considerazione anche solo l’idea. « Comunque, questo pomeriggio noi non dovremmo incontrarci, dottor Watson. Verrà portato in un’ala ben precisa in un edificio ad alta sicurezza dove potrà aspettare il momento più opportuno per ricevere la visita che anela con così tanto…ardore e sentimento. » Ironico. Ironico e tagliente, il vecchio e pomposo Mycroft era ritornato nella sua vita –ci sarebbe tornato anche il fratello? Sperava di sì. O no. Non ne era sicuro.
Cercò di seguire il percorso della macchina tra le vie di Londra, ma si perse tra un vicolo e una rotonda, l’agonia dell’attesa che lo stava facendo diventare un fascio di nervi, pronto a scattare al minimo cenno.  « Siamo arrivati, dottor Watson. » Disse il conducente con voce atona. John aprì lo sportello, finendo davanti ad un paio di scalini che portavano ad un grosso portone di ciliegio con un’anta spalancata. « Grazie per il passaggio. » Mormorò John, uscendo all’aria aperta. Aspettò qualche secondo in cerca di una risposta qualsiasi o un congedo, ma l’uomo restò in silenzio e John decise di lasciar perdere. Si guardò intorno, con il grande giardino pieno di alberi e una fontana rotonda al centro –come nelle peggiori sit-com americane, si disse–, tutto colorato con i colori romantici del tramonto. Sembrava tutto curato in maniera maniacale, cosa che fece pensare a John che quella enorme reggia dovesse essere di proprietà di Mycroft. Salì gli scalini ed entrò, titubante, nel grande salone d’ingresso, pieno di corridoi e persone  vestite di scuro. Inquietante. « Il dottor Watson? » Una giovane donna mai vista prima gli comparì davanti, il cellulare tra le mani –probabilmente era un requisito per tutti coloro che lavoravano con Mycroft– e una smorfia simile ad un sorriso sul viso truccato. « Sì, sono io. » La donna incominciò a camminare per un lungo corridoio con le piastrelle in lucida ceramica grigia, i tacchi alti che rimbombavano nel silenzio assoluto della casa. John la seguì, le mani che prima si nascondevano nelle tasche e poi si posavano sui suoi fianchi, le braccia che si incrociavano contro al petto mentre si mordeva l’interno guancia, agitato. 
Si sentiva agitato fino ai limiti e la sensazione non era propriamente positiva. Si tolse il cappuccio dalla testa, cercando di respirare in modo regolare, impostando il viso in un’espressione di assoluta impassibilità e concentrandosi per far smettere il cuore di battere così forte. Era andato in Afghanistan, dannazione. Era stato in ospedale due settimane per un proiettile nella spalla, dannazione. Aveva passato delle dannate terapie inutili, aveva incontrato Sherlock Holmes e Mycroft, aveva sparato ad un tassista solo per salvare la vita ad un ipotetico sconosciuto. Quello non era niente, a confronto –forse, o forse era tutto. Forse era la fine di tutto. La ragazza si era fermata davanti ad una porta blu scuro, l’attenzione tutta concentrata sul suo Iphone di ultima generazione. Se fosse stato veramente in sé, John ci avrebbe provato con una delle solite battute che usava per conquistare una ragazza, qualche sorriso luminoso e via. Ma quella non era una situazione normale e avere una fidanzata era l’ultimo dei suoi pensieri.
Era già arrivato? Dio, sperava di no. Non era pronto, non voleva entrare. Non voleva vedere la prova tangibile che Sherlock era vivo, la prova tangibile di tutte le bugie, e non voleva sbattere la testa contro la verità nuda e cruda che, in quel mese, la tristezza che aveva cullato e che l’aveva cullato non era stato altro che inutilità sprecata, un qualcosa di finto, una ferita lancinante e mortale fatta da un oggetto che non esisteva. Recita, inganno. Allungò la mano verso la maniglia e prese un respiro profondo, prima di decidersi ad abbassarla e a spingere, avendo la visuale di una stanza vuota. Non c’era –stavolta si sarebbe presentato? Non sapeva più cosa sperare. Non sapeva più niente. La stanza era spoglia, se non per un piccolo tavolino di vetro con sopra un vassoio di biscotti –biscotti, davvero?– e due sedie in plastica. Una grande finestra faceva entrare gli ultimi raggi di sole e John si ritrovò a pensare di essere entrato in un patetico romanzetto rosa, con la principessa che aspetta il principe chiusa in una stanza del castello. Patetico e fuori moda. Incominciò a girare in tondo, provando spiare dalla finestra l’ingresso, ma non vedendo nessuno né arrivare né andarsene. Non era mai riuscito a gestire il nervosismo, John, era una cosa che andava oltre di lui e che lo faceva impazzire.
Aspettare. Aspettare sempre. Aspettare cosa? Gli aveva dato un ultimatum la sera prima e lui non l’aveva rispettato, che cosa c’era ancora da chiarire? Nulla. John in realtà non lo voleva vedere, ecco. Si sarebbe accertato del suo stato di salute, gli avrebbe tirato un pugno su quel viso perfetto –no, non perfetto, John concentrati!– e poi se ne sarebbe tornato a casa, avrebbe buttato via tutti gli scatoloni riguardanti la loro vita passata e sarebbe andato avanti. Sì, sarebbe andata così. Era un soldato, sapeva mantenere la calma, sapeva conquistare il controllo con la forza, se necessario. Non era spaventato, nient’affatto. Per niente. Forse un po’, non tanto. Magari un po’ troppo. Okay, stava per urlare dall’ansia, ma avrebbe mantenuto l’espressione impassibile e neutra, ne era capace. Non gli sarebbe di certo saltato addosso, piangendo e stringendolo. Oddio, stava per morire di crepacuore e quella porta chiusa gli stava facendo venire la nausea. Quando vide la maniglia abbassarsi a John saltò il cuore in gola, i polmoni che smettevano di fare il loro lavoro, le mani sudate e il cervello in tilt.
Gli sembrò di vedere la scena a rallenty, con la porta che si apriva così lentamente da poter morire, e poi intravide il bordo scuro del cappotto e le scarpe costose, le mani bianche, la camicia chiara, il collo lungo, i nei –stava per svenire, lo sentiva– e poi il viso. Sherlock. Sherlock. Sherlock. Come si faceva a respirare? Sherlock. Sherlock. « John, respira. » A John tremavano le mani, veramente, e di respirare proprio non se ne parlava. Era vivo. Era lì, era lui. Fece qualche passo dentro la stanza, chiudendosi la porta alle spalle e scandagliandolo con i suoi occhi chiari. Era bellissimo, come sempre. Forse un po’ più magro e con le occhiaie più accentuate, ma era sempre lui. Gli sembrava di non vederlo da una vita. Improvvisamente, tutte le parole e tutte le azioni che aveva premeditato di dire o di fare, erano scomparse nel nulla, cancellate su due piedi, senza pensarci. Cosa sarebbe successo? « Sei qui. » Riuscì a dire, con una voce che non riconobbe come sua. « Per colpa di Victor. Non sarei nemmeno dovuto venire qui, ma ormai era fatta. » La bolla in cui John era caduto da quando era entrato Sherlock esplose fragorosamente a quelle parole, riportandolo alla realtà. « Per colpa? Sherlock, ti sei finto morto per un mese! E, a quanto pare, ero l’unico ad essere all’oscuro di tutta questa macchinazione! » Sherlock distolse lo sguardo, l’espressione indecifrabile come sempre. « Perfetta deduzione, John. Saresti dovuto restare all’oscuro di tutto, se qualcuno non avesse rovinato il piano. Non è in gioco solo la mia reputazione, sono in gioco delle vite, ma questo qualcuno non l’ha voluto capire. » Disse velenoso, colpendolo in pieno. Non gli era mancato, per niente. Non era neanche un minimo contento di vederlo? Preferiva proseguire davvero con il suo piano e lasciarlo in disparte a morire? John gli diede le spalle, cercando di trattenere quelle emozioni che gli facevano appannare la vista. Sii forte, sii forte. « Bene, allora puoi anche andartene. » Proruppe John, con tono incolore. Era troppo, quella situazione. Nella sua testa era andata diversamente, nella sua testa aveva immaginato un altro Sherlock, uno Sherlock che chiedeva scusa, uno Sherlock umano che in quel momento sembrava non esistere. « Mi hai voluto incontrare per niente? » Chiese, la sua voce che sembrava essersi fatta più vicina. « No, no, non è per questo, in realtà. Non è per niente, in realtà. Questa situazione, questa… » John cercò di prendere fiato, sentendo la rabbia affiorare incontrollabile.
« Ti sei reso conto di cosa hai fatto, Sherlock? Ti rendi conto di ciò che hai causato alle persone intorno a te? E’ stato terribile! Ha fatto male ogni singolo giorno di questo dannato mese! Hai avvertito tutti, hai avvertito un tuo vecchio amico di cui nemmeno sapevo l’esistenza e non hai avvertito me, il tuo migliore amico! Abbiamo passato diciotto mesi insieme e tu ci hai sputato sopra senza tanti pensieri, creando un magnifico piano per salvare il mondo. Beh, bene! Puoi ritornare al tuo cavolo di lavoro che ti interessa tanto, puoi andartene e non tornare più da me! Ho la mia vita, ora, ho tutto ciò che mi serve. » Sherlock lo guardava immobile, davanti a lui. Non sapeva nemmeno se lo stava ascoltando, veramente. « Pensavo di essere diventato importante. » Non seppe nemmeno John perché quella frase gli uscì dalle labbra, svicolando da tutti i controlli, ma sortì su Sherlock un effetto diverso, che lo risvegliò dal torpore. « Sei in pericolo di vita, non credi che questo sia importante? » « Ma tu sei importante per me e ti sei finto morto. » « Ho dovuto farlo. » « Potevi dirmelo. » « No, non potevo. » « Perché? »
Sherlock distolse nuovamente lo sguardo dal suo, puntandolo sui biscotti accanto a loro. « Non potevo e basta. » John gli si avvicinò un po’ di più, il senso reale dell’averlo lì davanti che prendeva forma secondo dopo secondo. « Parla con me. » John avvicinò piano una mano a quella dell’altro, in cerca di un minimo contatto. Ne aveva bisogno, ora. Lo sentiva necessario come l’ossigeno. Appena sfiorò il dorso della sua mano, però, Sherlock la ritrasse, turbato. Sembrava che si stessero studiando a vicenda, pronti per azzannarsi o per lasciarsi andare –c’era una terza opzione?. « Puoi fidarti di me, lo sai che puoi. » Sherlock puntò gli occhi dritti nei suoi, prima di decidersi a parlare. « Non sei arrabbiato con me? » « Certo che lo sono! Sono furioso con te e non te la farò passare liscia per tutto l’oro del mondo! » Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. « Mi hai toccato la mano, prima. » « Questo non significa che io non sia almeno un po’ felice di vederti vivo, Sherlock. Sono qui per te, sono sempre stato qui per te. »
Successe molto velocemente, con Sherlock che prima era fermo davanti a lui e poi tutto intorno a John, con le braccia che lo circondavano e le mani che stringevano la stoffa della felpa, dietro la schiena. Non se lo aspettava di certo, non da uno come lui, ma questo non gli fece godere di meno il momento. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, abbracciandolo a sua volta. Odore di casa, gli era mancata quella fragranza. « Mi sei mancato tanto. » Borbottò John, strofinando il naso contro la pelle tesa del collo. « Victor è un idiota. » Disse Sherlock, sciogliendo l’abbraccio mentre John si staccava a sua volta, deluso che quel contatto fosse durato così poco. « Invece è un bravo ragazzo. » Sherlock inarcò le sopracciglia e alzò gli occhi al cielo. « Certo, come no. » « Dovrai ancora rimanere nascosto? » Domandò John, dando voce a quella domanda che aleggiava nella sua testa da un po’ di tempo. « Sì, fin quando non prenderemo tutti i componenti del gruppo di Moriarty. » « Ti aiuterò. » Asserì John, immediatamente. « No, tu non farai proprio un bel niente. Adesso andrai a casa e farai finta di non avermi mai incontrato, è così che funziona. Questa è stata solo una circostanza speciale che non si ripeterà. » « Mi stai dicendo che dovrò aspettare ancora non so quanto tempo prima di rivederti mentre tu sarai in missioni suicide da qualche parte nel mondo? » « Esattamente. » « Tu sei pazzo! Non se ne parla assolutamente. » « John, si fa come dico io. Non ti voglio tra i piedi. » « Sherlock, no! Stavolta non ti farai ammazzare senza che io non possa fare niente per proteggerti! » Sherlock restò un momento in silenzio, prima di sospirare e abbassare lo sguardo giusto un attimo, per poi tornare glaciale come sempre. « Smettila. » Disse, indurendo la mascella. « Di fare cosa? » « Di fare la moglie protettiva e amorevole. Smettila, mi irrita. » John sentì qualcosa rompersi dentro di sé, ma non ci fece caso. « Ti sto solo dicendo che non voglio che tu muoia di nuovo! E’ così difficile da comprendere? E’ stato un mese d’inferno! » « Sì, beh, io ho da fare al momento e tu mi intralceresti solo il lavoro con le tue preoccupazioni inutili. Quindi ritorna a casa e rincomincia la tua vita. » « No. No, non se ne parla. Io vengo insieme a te. » « John! » Lo prese per le braccia, in una morsa dolorosa, gli occhi che erano diventati quasi trasparenti dopo quell’urlo. « Io non ti voglio. »
Crack. Bum. Sentì le ginocchia piegarsi dopo quella frase, sotto il peso di qualcosa di troppo grande. « Non ti voglio come collega, né come amico. Adesso ho il mio lavoro e quello mi basta, è chiaro? » Gli lasciò la presa dalle braccia e John quasi cadde, non sorretto da quelle mani. « Spero di essere stato abbastanza chiaro. » John lo vide raggiungere la porta con ampie falcate, girarsi un momento verso di lui e poi andarsene, in una nuvola di nero.
Appena la porta sbattè, John sentì le forze venire meno e si ritrovò incollato al pavimento, le lacrime che ora perdevano il controllo e infuriavano contro di lui.
Non ti voglio.
Il problema, forse, era che John voleva Sherlock il doppio di quanto consentito. Il problema, forse, stava nel fatto che Sherlock non gli aveva detto tutte quelle cose che John aveva sperato di sentirsi dire. Il problema, forse, era solo che John si era ritrovato con il cuore in mano davanti a Sherlock Holmes, un’altra volta, e lui l’aveva gettato a terra senza pensarci due volte.
Il problema, alla fine, era che faceva male e basta, senza Sherlock, semplicemente, non era vita.
   
 
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