Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |       
Autore: AntheaMalec    01/09/2012    9 recensioni
« Mi sembrava molto triste. » « Lo è, ovviamente. Grazie per la tua precisazione inutile, Victor. » Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il cuore che incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di fare il proprio lavoro.
« Dovresti smetterla di essere così duro nei confronti di questa situazione. » « E tu dovresti smetterla di improvvisarti Cupido, è stupido e noioso. »
John si premette una mano sulla bocca, nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano annidando nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo in tilt. « Sei un robot. » Mormorò Victor, in lontananza. « Vorrei tanto poterlo essere. » Sherlock. Sherlock.
« Sherlock? » John riempì la stanza di quel nome, la voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava provando. Il silenzio che riempì le orecchie di John, gli fece capire che l’avevano sentito. Sherlock. Vivo.
Sherlock era vivo.
Genere: Fluff, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Here we are again! Una mini-mini-stramini-long di due capitoli, venuta in mente dallo splendido tumblr che mi ha fatto conoscere Claudia (Iloveyou) e di cui mi sono malvagiamente appropriata (qui e qui). Grazie a Chiara, perché sei bravissima e bellissima e mi riempi sempre di complimenti che non mi merito e a Jessie, perché sei troppo gentile per essere vera <3 Perfect human being! Quindi, sperando che qualcuno se la fili (?), vi auguro buona lettura!
P.S.: Il raiting potrebbe variare nel secondo e ultimo capitolo.

 
 
 
 
 
I wish you were here or I were there or we were together anywhere
 
Dovremmo dire più spesso alle persone quanto vogliamo loro bene, perché la vita è imprevedibile e, se possiamo manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo sempre.
 
 
 
 
 
Pretend I'm okay with it all
Act like there's nothing wrong
Is it over yet?
Can I open my eyes?
Is this as hard as it gets?
Is this what it feels like to really cry?
Cry!
 
Kelly Clarkson
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ironico, assurdamente e tristemente ironico. John continuò a guardare il giovane che era entrato nel suo –loro? No, solo suo– appartamento poco tempo prima. Si guardava intorno, analizzando con lo sguardo gli scatoloni poggiati alla rinfusa sul pavimento, ricolmi di oggetti. Conosceva bene il rumore di una catastrofe: lento, pesante e di malaugurio. Da quando aveva visto Sherlock buttarsi giù dal tetto dell’ospedale lo aveva seguito costantemente, come un’ombra. Anche ora riusciva a sentirlo, guardando negli occhi quel Victor.
« Mi dispiace per la tua perdita, John. »  Come diavolo faceva a sapere il suo nome? Come diavolo poteva, Sherlock Holmes, riuscire a ferirlo anche sotto metri di terra da neanche un mese? Aveva pensato di essere speciale –di essere unico, di valere qualcosa– eppure gli aveva nascosto che c’era stato qualcun’altro prima di John. Qualcuno che era stato suo amico –io non ho amici, aveva detto. Bugiardo, bugiardo.  « Quindi tu… »   Incominciò John, appoggiando il gomito sul bracciolo della poltrona e tenendosi la testa con una mano. « Tu, Victor, saresti stato un amico di Sherlock? »   Victor sembrava impacciato, con gli occhi che non stavano mai fermi e le dita che vagavano tra i riccioli corti –anche lui! Era una fissazione!.
« Sì, lo ero molti anni fa, poi abbiamo perso i contatti per…un certo periodo di tempo, diciamo. »   John abbassò lo sguardo, gli occhi lucidi che non accennavano a smettere di bruciare. Aveva quell’incredibile e al tempo stesso orrenda sensazione di stare affogando nel nulla eppure riusciva ad avere la nausea di tutto. Del divano saturo di ricordi e della cucina che prima era stata protagonista di sentimenti ed ora era protagonista solo del lento frantumarsi di uno solo degli inquilini che prima vi abitavano. Perché l’altro si era già frantumato, sopra ad un marciapiede, raccontandogli bugie su bugie prima di commettere suicidio –bugiardo, bugiardo. « Sei stato il primo, quindi? »   Non aveva avuto l’intenzione di dirlo, ne era sicuro, ma le parole erano uscite di bocca senza controllo e ora a John non rimaneva altro che fissare quel ragazzo più giovane di lui, che gli riservava uno sguardo carico di scuse e pena che lui non sentiva e non capiva.
Cosa c’era da scusarsi? Non era stato lui a lasciarlo da solo. John aveva sempre avuto lo strano istinto di aggrapparsi al pugnale che lo trafiggeva. Ironico, anche quello.
« Già… »   John rimase in silenzio, non sapendo neanche da dove partire per rompere quello strato di ghiaccio e imbarazzo che si stava creando in quella stanza. Aveva imparato a sopravvivere al caldo impossibile dell’Afghanistan, quindi il freddo, ora, gli andava più che bene –era l’unica cosa che gli era rimasta. « John, per caso tu hai qualche idea su come…sul perché Sherlock abbia fatto ciò che ha fatto? »   Se fosse stato in sé, John avrebbe accennato un sorriso di ringraziamento per tutto il tatto che quel ragazzo gli stava mostrando, ma ora lo trovava solamente irritante, una mortale spina nel fianco. Era una morte continua, parlarne.  Le parole di Sherlock continuavano ad affiorare sul suo corpo come lame che non sapevano accarezzare, che raschiavano tutto il viso, che non si fermavano e tornavano sempre indietro. « No, probabilmente è stato tutto uno stupido piano calcolato male. Strano, perché a quanto pareva lui era l’intelligentone di turno. Lo saprai meglio di me, immagino. »   
Acido, brusco e maleducato, eppure non se ne pentiva neanche un po’. Gli era stata tolta la compagnia e ora anche la solitudine; tutta quella commiserazione non sarebbe servita a nient’altro che a infastidirlo. Gli era stata tolta anche l’illusione di essere stato importante. Gli era stato tolto tutto dalle mani piene e insaziabili. Victor tamburellò sulla stoffa del divano sul quale era seduto, l’attenzione improvvisamente rivolta al violino. Sherlock aveva mai suonato per lui? Probabilmente sì, si disse. Probabilmente lui aveva già visto tutto quello che John aveva dovuto faticare per conquistare, magari anche molto di più. « Era di…? »   Aggiunse subito dopo, fermandosi prima di pronunciare quel nome. Lo facevano tutti, da quando era morto. « Era di Sherlock, sì. Puoi dire il suo nome, non sono un bambino, l’ho accettato. »   Non era vero e John poteva intuire che anche Victor aveva compreso quella verità. Non lo aveva accettato e quel nome sarebbe sempre stato un tabù per tutti coloro che gli giravano intorno e per lui stesso.
« Era alle prime armi quando ci frequentavamo, azzeccava sì e no qualche nota. Sbagliava e si arrabbiava, mettendo il broncio a tutti quanti. »   Victor sorrise a labbra aperte e John non se la sentì di fermare quel fiume di parole –non piangere, eri un soldato, controllati.
« Credo che se potesse essere in questa stanza, John, non vorrebbe che tu fossi così… »  Abbattuto, ferito, umiliato, deluso, incattivito, arrabbiato? John poteva servirgli tutti gli aggettivi che voleva su un lucido piatto d’argento e non se ne sarebbe pentito. « Già, ma lui non c’è e per una volta non c’è nessuno che deduce cosa ho fatto e come mi sento dal risvolto delle pieghe della mia camicia. »   Victor annuì, alzandosi dalla sua postazione e stirandosi i jeans con le mani. Si diresse piano verso John e gli diede una veloce, ma soffice pacca sulla spalla, come un balsamo, che lo fece stare un po’ meglio.
« Per qualunque cosa, qualsiasi problema, puoi chiamarmi. Non preoccuparti né per l’ora né per il disturbo, sarà un piacere fare due chiacchiere. »   John si rimise in piedi, la gamba che gli dava un leggero formicolio da giorni, ma che lasciò perdere. Sorrise sinceramente, per la prima volta dopo l’incidente, a quel giovane ragazzo che gli stava regalando del vero e sincero conforto, pur non conoscendolo nemmeno. « Grazie mille, lo farò. »   Victor gli lasciò il suo numero e se ne andò svelto dall’appartamento, adducendo a un impegno urgentissimo che non poteva assolutamente posticipare. John rimase fermo in mezzo alla stanza, rigirandosi tra le mani il pezzettino di carta lasciato da Victor e posizionandolo sopra al tavolino vuoto.
Non si sa mai, si disse, prima di andare a prepararsi del tè.
 
 
Victor intrecciò le mani dietro la schiena, la spalla che poggiava allo stipite della porta d’entrata e lo sguardo fisso sull’altro. « Com’era? » Chiese quest’ultimo, seduto sulla poltrona come lo era stato poco prima John –incredibile quanto fossero diversi eppure così simili. « Sta bene, è solo un po’ frastornato. » Nel tragitto per arrivare al monolocale in cui era stato rinchiuso Sherlock, aveva pensato al modo migliore per non far preoccupare il suo vecchio amico ed aveva optato per una bugia bianca, qualcosa che non avrebbe ferito nessuno –tranne John, che gli era sembrato un cucciolo abbandonato sotto la pioggia.
« Non mentirmi, Victor, lo sai che non funziona con me. » Due occhi azzurri lo puntarono, facendogli perdere la facciata composta e sicura e avvicinandolo a lui. « Sherlock, non credo che… »  « Voglio saperlo. Dimmelo. »  Sherlock si mise nella solita posa che usava anche anni addietro, le mani intrecciate che sfioravano mento e labbra, in un’ impaziente attesa. Victor si sistemò davanti a lui, le sopracciglia aggrottate e i denti che mordevano l’interno guancia. « Ha il cuore spezzato, Sherlock. »   
Sherlock ebbe un momento di esitazione, come un battito di ciglia, mentre abbassava lo sguardo e socchiudeva le palpebre, in un intimo gesto di sconforto che fece angustiare Victor. « Ma ho fatto ciò che mi hai detto, gli ho dato il mio numero per qualunque necessità e sembrava veramente sollevato. »  Si sedette davanti a Sherlock, il busto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, in un gesto di simbolica vicinanza. « Bene, tienimi aggiornato se ci sono ulteriori sviluppi. »  Sherlock chiuse gli occhi e reclinò la testa all’indietro, poggiandola contro la poltrona. Victor rimase immobile, nel silenzio cupo della stanza in penombra. « Puoi andare, Victor, ciò che ho detto prima era un congedo. »  « Sai che ti conosco più di quanto tu voglia ammettere, Sherlock. »  Il detective sbuffò, tamburellò con le dita sul bracciolo della poltrona e si alzò di scatto, in preda ad una crisi nervosa. « Se Mycroft avesse seguito il mio piano al posto di fare con la sua testa, a quest’ora avrei potuto accertarmi da solo della vita al di fuori di questo appartamento! » Della vita di John, avrebbe voluto dire, ma Victor non se la sentì di precisarglielo. Guardò l’orologio, notando che l’ora di cena era passata da un pezzo e che il suo stomaco stava incominciando a risentirne, dopo tutti quegli spostamenti e sensazioni. Un vibrare nella sua tasca lo distolse dalla camminata in circolo di Sherlock, chiuso come un topo nella gabbia. Il numero sconosciuto lo fece stranire. « Chi è? »  Chiese Sherlock ad un certo punto, fermando la sua maratona e fissandolo dall’alto. Victor aprì il messaggio, le poche parole scritte sullo schermo del telefono lo fecero sobbalzare.

Ho bisogno di qualcuno con cui parlare, subito. Per favore. JW

 
Prima che Victor avesse il tempo di poter comunicare la notizia a Sherlock, questo gli aveva già strappato dalle mani il cellulare, leggendo avidamente e rimanendo nella sua piccola bolla di impassibilità. « Sherlock…  »  Sherlock gli fece cenno di fare silenzio, prima di incominciare a digitare la risposta al messaggio, le dita che si inseguivano veloci e gli occhi che sembravano non volersi staccare da quel telefono. Si sedette nuovamente sulla poltrona, in attesa. « Posso sapere cosa gli hai scritto? » Sherlock lo fulminò con un’occhiataccia, prima di sospirare e ridargli il suo telefonino. Andò nella cartella dei messaggi inviati e aprì l’ultimo. Diceva: ‘Scusa, sono impegnato. Parliamo per messaggio. C’è qualcosa che non va?’ e a Victor nacque un sorriso intenerito per tutta quella preoccupazione non da lui –o meglio, da chi voleva sembrare. Un’altra vibrazione, Sherlock che si spostava dalla poltrona e si sedeva accanto a lui, cosa che fece ricordare a Victor i tempi passati, quando erano ancora due giovani in cerca dell’impossibile.
 
E’ solo che…la sera mi frega sempre. Mi manca. Tanto. Da impazzire. JW
 
Non c’era bisogno di mettere un soggetto a quella frase, sapevano benissimo tutti e tre a chi era riferita quella confessione di debolezza. Victor si girò immediatamente verso Sherlock, quella lieve inclinazione nello sguardo gli fece allungare la mano verso il suo ginocchio, in una presa fievole, ma presente. « Ha imparato anche lui a firmarsi. » Disse dopo un po’, lo sguardo incollato alle lettere nere che risaltavano sullo sfondo bianco. Sembrava quasi volersi amalgamare con esso per poter avvicinarsi a chi stava dietro ad un altro schermo, al 221B di Baker Street. Victor gli passò il cellulare, in attesa che scrivesse lui una risposta adeguata a John.
 
E’ morto, John. Non puoi fare altro che andare avanti con la tua vita e lasciarlo andare. E’ solo un periodo, passerà, fatti forza.
 
« Sherlock! » Il suddetto si girò verso di lui, mentre premeva invio con il pollice della mano destra. « Che c’è? »  « E’ così che pensi di risollevargli il morale? Dicendogli di andare avanti? » Victor riprese possesso del suo cellulare, rivolgendogli un’occhiata stizzita. « E’ l’unico modo che conosco. » Stava quasi per rispondergli per le rime –era abituato a quegli inutili comportamenti, già radicati in lui da quando era un neonato, probabilmente– quando il telefono vibrò di nuovo e la concentrazione dei due si focalizzò su quello.
 
Se n’è andato, lontano da me e il solo pensiero che lui non ci sia più, che si sia suicidato di sua spontanea volontà e che io, nonostante tutto e nonostante la rabbia, creda ancora in lui,  mi fa capire che non sarà mai solo un periodo. E’ tutto così triste che sento il dolore alla gamba, accertato come psicosomatico, riaccendersi ogni giorno di più. JW
 
« Chiamalo. » « Cosa? »  Victor lo guardò come se fosse impazzito, lo sguardo che spaziava dai suoi occhi alla stanza tutt’intorno. « Tuo fratello non aveva detto di mantenere la segretezza fino a nuovo ordine? »  Sherlock storse la bocca in un’espressione stizzita. « Innanzitutto, io non seguo nessun ordine, tantomeno da Mycroft, e poi non dovrò parlarci io, ma tu. »  « Io? Sherlock non so cosa tu abbia in mente, ma sarà una pessima idea. » 
« Chiamalo e metti il vivavoce, dai. »  Victor lo fissò, imbronciato, prima di sbuffare e schiacciare il pulsante verde di chiamata.
Tanto, lo sapeva, si sarebbe sempre fatto come voleva Sherlock Holmes.
 
 
Era rinchiuso in una prigione di coperte scomode, il materasso che gli sembrava a tratti troppo duro a tratti troppo cedevole, il buio troppo soffocante, la sveglia sul comodino che emanava troppa luce, il silenzio che trapanava i timpani e lasciava il vuoto tutto intorno e dentro John. Il cellulare ben stretto tra le mani, gli occhi socchiusi per cercare di vedere la schermata nonostante la troppa luminosità.
Quando si accorse che Victor lo stava chiamando –chiamando? Oh Dio, doveva sembrare proprio messo male, allora– schiacciò il tasto verde, sentendo improvvisamente il fiato venire meno. « John? »  Aprì la bocca ma non uscì alcun suono, cercò di tirarsi su, in posizione eretta –si sentiva come uno schifosissimo bruco.
« John? Ci sei? John, stai bene? »  La voce di Victor stava diventando sempre più acuta e agitata. Sentì degli spostamenti dall’altra parte della cornetta e Victor che sussurrava a voce bassissima cose che non riusciva a comprendere.
« Victor? »  Riuscì a dire, tornando ad usare le proprie corde vocali. « Ehi, John, ci hai fatto spaventare! »  « Oh…c’è qualcuno lì con te? »  Chiese John, confuso. « Eh? Cosa? Oh, no! Volevo dire mi, mi hai fatto spaventare. Ahia! »  John rise, sentendo la sensazione di oppressione sparire piano piano dal petto. « Ma che cosa stai facendo? »  « Sono solo andato a sbattere contro la poltrona, una sciocchezza. »  John annuì, anche se sapeva che Victor non avrebbe potuto vederlo. « Allora, raccontami tutto. » 
« Te l’ho già detto, è che la notte riesce a togliermi tutte le difese. »  « Sfogati, sono qui per ascoltarti, anche io sto passando parte di ciò che provi tu. »  John si tolse il cuscino da dietro la schiena e lo strinse forte con il braccio destro, premendoselo contro la pancia. « E’ come se una parte di me non si sia ancora arresa al fatto che lui, beh, sia morto. Una parte del mio cuore è come se fosse sospesa, come se…fosse in attesa di quel qualcosa che eravamo io e lui. »  Ci fu qualche momento di silenzio, con qualcosa che sembrava il ronzio di un’ape in sottofondo. « Victor, sei ancora lì? »  « Sì, sì eccomi, stavo solo pensando. »  « Sicuro che non ti sto disturbando? Ho sentito… »  « Cosa hai sentito? »  Mormorò Victor, in un modo che fece insospettire ancora di più John –il tempo con Sherlock non era stato del tutto infruttuoso. « Niente, dei bisbigli. Davvero, se hai da fare non preoccuparti! »  « Oh, John! E’ la televisione! »  Lo sentì ridere e si diede dello stupido per essersi fatto venire degli inutili dubbi.
Non c’era più nessun enigma da risolvere. Non c’era più nessun consulente investigativo con i suoi irritanti monologhi. Non c’era più niente. « Comunque, credo che Sherlock, ovunque sia in questo momento, sappia cosa tu stia facendo e giudichi con la sua solita voce annoiata e rompiscatole ogni singola cosa stia uscendo dalla tua bocca. »  John sorrise, grato per quella persona così genuina che gli stava tirando su il morale. « Sicuramente sarà così. » 
« Ora è meglio se dormi, cerca di rilassarti, ci sentiremo domani, va bene? »  Promessa. Una persona che richiedeva la sua attenzione, dopo tutto quel tempo. John si sentì improvvisamente ripieno di una nuova forza. « Ovvio, allora buonanotte, Victor. »  « Buonanotte, John. »  Stava quasi per riattaccare quando la voce dell’altro lo riportò a premere il cellulare all’orecchio. « Dimmi. »  « Sherlock ti vuole bene, lo sappiamo entrambi. »  « Comunque sia, Victor, bisogna parlare al passato. »  Anche a lui era capitato, i primi tempi in cui era successo il terribile fatto. Faceva finta che quel giorno non fosse mai esistito e viveva imbrogliando anche se stesso. Pensava che Sherlock sarebbe rientrato dalla porta di casa e tutto sarebbe ritornato a posto. Lo aveva aspettato seduto sulla poltrona che riteneva sua, fissando la finestra, con la pioggia che aveva bagnato Londra per giorni interi. Poi la ragione lo aveva raggiunto e aveva solamente chiuso gli occhi e abbassato la testa davanti alla verità. « Già, come dici tu. »  John aggrottò le sopracciglia, dubbioso. Quel ragazzo aveva un comportamento strano e sembrava nascondesse qualcosa. Sentì un lieve mugolio di dolore da parte di Victor prima che John facesse terminare la telefonata.
Sospettoso, decisamente.
 
 
« Mi hai fatto male! » 
« Sei un idiota, Victor! Pensavo che tutti questi anni avessero avuto un effetto positivo per il tuo piccolo cervello, ma la realtà è ben diversa dalle aspettative! » 
« Che cosa diamine ho fatto? » 
« Ringrazia che John non abbia capito niente, altrimenti passerai dei lunghi guai. » 
« Ma ti rendi conto di avermi tirato addosso dei libri? Avrebbe potuto capire che c’era qualcun altro nella stanza! » 
Lo sguardo inviperito di Sherlock lo fece desistere dal prolungarsi oltre, prese il suo giubbotto e si chiuse la porta alle spalle. Idiota lo era stato veramente, per aver dato nuovamente ascolto a Sherlock Holmes.
Sembrava che non imparasse mai la lezione, maledizione.
 
 
 
 
John aveva sentito una frase particolarmente ispiratrice tempo prima, quando ancora faceva parte dell’esercito, da un commilitone più giovane di lui. L’aveva segnata su un foglio e l’aveva riposta nella tasca dei pantaloni militari, con la speranza che gli portasse un po’ di quella fortuna che serviva dopo essersi arruolati.
La prima volta che l’aveva sentita aveva dato un significato tutto diverso a quelle poche parole, una sostanziale differenza di punti di vista che gli aveva fatto credere di poter capire quella frase molto più di tutti gli altri.
Dopo il congedo, aveva lasciato quel foglietto di carta stropicciata in tasca, la frase che aveva assunto altri toni, più drammatici e pungenti. Il senso delle cose: occhi diversi che pensano di capire ogni cosa allo stesso modo.
Ora, mentre la tempesta infuriava fuori dalla finestra di casa, impedendogli di fare qualunque altra cosa all’infuori di guardare –senza mai osservare, anche quello era diventato un tabù? Non lo sapeva, non lo voleva sapere– quelle parole gli ritornarono alla memoria, dando un senso ancora più triste a quella giornata solitaria. Ti mostro le spine per non far vedere i petali che cadono* –poesia? No, forse cruda realtà pronunciata da una persona troppo giovane per capirla appieno. « Cucù, John? »  Mrs Hudson spuntò dalla porta d’ingresso, una mano posata sull’anca e il sorriso sempre impresso sul viso. Era invecchiata, dalla morte di Sherlock –tutti quelli che avevano conosciuto Sherlock lo erano diventati–, le occhiaie scure che spiccavano sulla carnagione chiara e la pelle che quasi sembrava aver formato un secondo strato delle ossa, incavando le guance e indurendo i lineamenti.
Cambiamenti: nulla per poterli fermare. Bisognava solo accettarli, violenti come tsunami, e aspettare la nuova quiete, prima di tornare a respirare nuovamente –se fossero esistiti ancora polmoni con cui farlo. John voltò il viso verso di lei, l’ombra di un sorriso sul volto. « C’è una visita per te! »  Non ci volle molto per capire chi fosse e ancora di meno che nella stanza entrasse la presenza slanciata di Victor. « Che sorpresa! »  Mormorò John, alzandosi a fatica e cercando sostegno al muro lì vicino. Ci aveva forse preso gusto a fargli visita? Non che John non lo volesse o gli fosse antipatico, ma la ferita era ancora così fresca e non era sicuro che tutta quell’amicizia fosse un bene –la sua fiducia era stata già distrutta una volta, non aveva nessuna intenzione di rischiare di nuovo. « Non va bene? »  Domandò Victor, arrestandosi dal mettere il giubbotto fradicio sull’appendiabiti. Quante volte l’aveva sentita quella frase, in diciotto mesi di convivenza? Tante, ma da una persona diversa. Dio, vivere nel passato gli causava un livello di frustrazione ignobile.
« No, sì… »  John si passò una mano sugli occhi, scoraggiato. « Certo che va bene, va benissimo. Accomodati pure. » 
« Facevi qualcosa di interessante? Ho saputo che scrivi su un blog. »  John si riaccomodò sulla poltrona, le parole di Victor che si agitavano prepotenti nel petto. Gli faceva sempre quell’effetto, parlare con lui, come se fosse sempre pronto per sapere tutta la vita di John, senza che nessuno lo avesse autorizzato a farlo. Si sentiva a disagio e agitato –anche triste, ma quella era una sensazione che lo seguiva da giorni e che non sembrava voler terminare. « Scrivevo, in realtà. Ora non ho niente da raccontare. »  « Deve essere dura, John, riesco solo a immaginare quanto possa esserlo. Vivere insieme, condividere tutto… »  John scosse la testa, colpito in pieno da tutti quei ricordi che premevano per uscire. Fece cenno a Victor di fermarsi, prendendo un bel respiro e osservando il vetro appannato e bagnato. « Era molto più di questo. »  Disse John in un sussurro. Vide con la coda dell’occhio l’altro agitarsi piano sul divano, prima di ritornare immobile, l’attenzione puntata tutta su di lui.
« Lo amavo, in verità. Ha avuto una parte di me già dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti. Anche se non c’è più e non c’è alcuna possibilità che lui ritorni indietro, non verrà dimenticato, non da me. Il dispiacere più grande è di non avere avuto una chance, di essere stati troppo prudenti anche solo per abbracciarci o per tenerci per mano senza pericoli in agguato. Non potrò vederlo invecchiare, perché è troppo tardi e la vita ha scelto per noi, ma mi sarebbe piaciuto tanto. Avrei voluto essere il suo compagno più di qualunque altra cosa. »  Non sapeva perché glielo stava confessando, non sapeva neanche perché avesse le lacrime agli occhi o perché continuasse a far finta che andasse tutto bene –perché, dannazione, non c’era proprio niente che andava bene, ormai. Aveva solo voglia di confidarsi con qualcuno, di togliersi un peso dal cuore che non gli faceva chiudere gli occhi la notte e che gli incurvava le spalle di giorno. Victor aprì le labbra, ma non ne uscì alcun suono, le mani unite in preghiera sopra le ginocchia –di preghiere ce n’erano state fin troppe. Un lampo squarciò il cielo e John trovò la forza di continuare quel discorso che sembrava essersi perso nel nulla. « I primi giorni in cui lui è morto, quando ritornavo a casa da lavoro, pensavo di sentire il suono del suo violino e allora salivo gli scalini a due a due fino a spalancare la porta e rendermi conto che non c’era più nessuno ad aspettare. » 
Victor aveva lo sguardo disperato, di quelli che corrodevano dentro. « John, senti, io devo… »  « Scusa, non ti ho nemmeno chiesto se desideri qualcosa da bere o mangiare. Posso farti del tè? »  Victor annuì, prendendo il cellulare dalla tasca e digitando frettolosamente sui tasti. John mise l’acqua nel bollitore, l’occhio che andava a spiare le mosse di Victor, nella stanza accanto. Sembrava nervoso, come se qualcosa l’avesse scosso. Sperava di non averlo turbato con le sue parole, né altro. Lo vide passarsi una mano tra i capelli e poi entrare in  cucina, insieme a lui. « Qualcosa non va? »  Chiese, rimanendo discreto. « No, è solo che questa storia mi rende un po' triste, in realtà. Insomma, la morte non è mai una bella cosa da affrontare. » John annuì, d’accordo con Victor.
« A volte mi chiedo come tutta questa oscurità ci abbia trovato. »  Sbottò, tutto d’un tratto Victor, le dita che tamburellavano sul tavolo della cucina, pieno di graffi e macchie di ogni genere. John gli puntò gli occhi addosso, interessato. Gli era sembrato un buon ascoltatore, nel breve periodo da quando era piombato nel suo appartamento senza che sapesse nulla, ed ora sembrava in procinto di dire qualcosa di importante e John non voleva perderselo per nulla al mondo. « Insomma, questa oscurità, questa malinconia, come ci ha trovato? »  John scosse la testa, confuso. Non lo sapeva, non era lui quello che sapeva tutto. « Si è messa nelle nostre vite e noi abbiamo solo dovuto abbracciarla fin quando noi stessi incominciamo a cercarla e ad adattare la nostra vita ad essa? Forse…ogni volta che qualcuno esce di casa, è come se fossimo in guerra, speriamo in un loro ritorno, speriamo che non facciano scelte sbagliate, che non cambino rotta in una destinazione lontana da noi. Sherlock ha solo perso la sua strada, per un momento. Ha dovuto scegliere in fretta e ha scelto la via più facile, da una parte, ma molto più difficile dall’altra. Tu sei un uomo forte, John, un uomo che credo abbia avuto un punto speciale nell’animo di Sherlock. Puoi superare tutto questo, puoi andare avanti. »  Victor gli mise una mano sulla spalla, un sorriso che gli increspava il volto e faceva nascere rughe d’espressione vicino alla bocca.
Gli era grato, se ne accorse come se fosse un lampo a ciel sereno. Di essere lì, con lui, quando aveva allontanato tutti. Di ascoltarlo per davvero, senza nessun pregiudizio o cattiveria, con il solo intento di farlo stare meglio e di disinfettare le ferite. John gli sorrise, cercando di essere il più convincente possibile. « Sentirsi speciale è forse una delle peggiori gabbie che una persona possa costruirsi, Victor. L’ho imparato a mie spese quando sei venuto qui la prima volta. »  John spense l’acqua e svuotò la teiera, mettendoci dentro quasi tre grammi di foglioline di tè. Victor aggrottò la fronte, perplesso. « In che senso? »  John si graffiò la pelle del pollice con l’indice, a disagio –fare scenate di gelosia davanti ad un potenziale amico di Sherlock? Brutta idea. « Diciamo che Sherlock non mi aveva mai parlato di te. »  « Oh. »  Disse Victor, tormentandosi la felpa con le dita. « Oh! »  Ripetè ancora, stavolta con più enfasi. « Se ti può consolare, credo che considerasse un  po’ differenti le due amicizie, per questo non ha mai fatto parola di me. »  John sorrise, improvvisamente imbarazzato. Era un complimento? Gli piaceva pensarlo. « Non hai mai provato a rintracciarlo dopo che vi siete separati? »  « Ci sentivamo, ogni tanto, quando io non ero impegnato in… »  Victor sorrise, furbo, deviando lo sguardo di John e prendendo due tazze dal mobile in legno –da quanto non preparava il tè per due persone? Un mese. Triste. « …in affari privati, chiamiamoli così, e lui non era impegnato in quei casi che lo eccitavano tanto. Da quando ha conosciuto te non si è fatto più sentire. A buona causa, aggiungerei. »  John versò il tè nelle tazze e le portò in salotto, attento a non scottarsi. Il rombo dei tuoni che ancora faceva tremare le finestre e illuminava Londra ad intermittenza. « Come… »  John si schiarì la gola, cercando il modo giusto per dirlo –esisteva? E lui aveva davvero la forza per sentire la risposta?. Victor si sedette per terra, la schiena poggiata al divano e la gamba sinistra lievemente piegata. « Com’era Sherlock prima? Quando eravate amici? »  Victor sembrò trovare la domanda particolarmente divertente perché si mise a ridere di gusto, il tè che rischiava di strabordare dalla tazza. « Beh, era Sherlock! Solitario, introverso, arrogante e disgustosamente intelligente! »  John rise con lui, sedendosi a sua volta per terra e poggiando la tazza vuota sul basso tavolino accanto a loro. « Credo fosse anche più…fragile, in qualche modo. Era giovane ed era pieno di vita, ma si riusciva a vedere quanto tutte le parole cattive non fossero completamente gettate nel fuoco. Insomma, era un essere umano anche lui. » 
« Lui più di tutti, già. »  Mormorò John, massaggiandosi per un momento la gamba che aveva incominciato a pulsare dolorosamente. « Una persona, l’altra sera, mi ha detto che stare lontano da una persona che ami, non significa amarla di meno, ma amarla così tanto da rinunciare alla propria felicità, mettendosi in gioco fino alla fine. »  John aggrottò la fronte, cercando di capire il senso di quella frase. Ora capiva perché quei due erano stati amici, ai tempi. Lo stesso, dannato vizio di parlare per metafore o concetti mentali che lui non riusciva nemmeno a comprendere. Annuì lo stesso, facendo finta di aver capito a fondo il senso di quelle parole. « E’ sempre stato più forte di me e di tutti quelli che gli stavano intorno. »  Continuò Victor, poggiando la testa dietro di sé, contro al divano. « Gli bastava una sola parola per ferire le persone. Anzi, a volte anche meno: un silenzio, un’occhiata, uno sguardo rivolto altrove. Potevi sbraitare e dimenarti per ore, passare alle ingiurie, mentre a lui bastava una piccola e semplice smorfia per sconfiggerti, fatta con un angolo del labbro. »  John scosse la testa, abbattuto da quella descrizione così veritiera della vita di Sherlock Holmes e della propria –della loro, di quella che non c’era più.
Gli serviva dell’alcool, ma non voleva annebbiare tutto, non voleva aggiungere a quel momento quel particolare che avrebbe solamente rovinato ogni cosa. « E’ meglio che vada, ho fatto la persona solidale e umana per un’intera vita, parlando con te stasera. Sono pur sempre un uomo! »  Victor sorrise ma John non se la sentì di contraccambiare, già perso ad osservare nuovamente la pioggia scrosciante fuori dalla finestra –perché tutti se ne sarebbero andati, da quell’appartamento, e chi sarebbe dovuto restare aveva deciso di abbandonarlo, tradendo la sua fiducia.
« Non rattristirti troppo, John. Andrà tutto bene prima che tu possa accorgertene. Ricorda che il mio numero è sempre disponibile, per te. »  Victor se ne andò, non prima di avere dato la solita stretta alla spalla di John, stavolta smorzata dal rumore della pioggia, ancora più violento di prima. Avrebbe voluto dirgli di fermarsi a cena, avrebbe voluto dirgli di aspettare perché la tempesta là fuori non sembrava promettere niente di buono, avrebbe voluto parlargli ancora e avere una mano a cui aggrapparsi, nel caso cedesse, nel cuore della notte. Ma tutte quelle cose gli sembravano improponibili –non ora, forse mai– e lo avevano fatto stare zitto, facendolo andare via.
Ciò che gli rimaneva era il silenzio che aveva il volto di tutte le cose che aveva perduto** –Sherlock, Sherlock, ti prego, torna.  
 
 
 
« Ho letto il blog di John mentre venivo qui in taxi. » Victor si sentiva sempre un po’ sotto osservazione quando stava nella stessa stanza con Sherlock –una sensazione che gli ricordava i vecchi tempi in maniera non proprio positiva. Certo, era tutto diverso dallo stare in presenza di John: almeno lui ci provava, a fare il simpatico quando non era colpito dalla tristezza –ovvero molto raramente. « Buon per te, Victor. »  Rispose Sherlock, accucciato su una poltrona davanti al camino con addosso cappotto e sciarpa, le gambe strette al petto e lo sguardo lontano –smarrito? Lo era? Perso senza John, probabilmente, un pezzo fondamentale del suo puzzle. Victor si posizionò sul divano, com’era solito fare nei loro incontri, dopo essere stato da John. Si sentiva meschino a fare quel doppiogioco eppure, vedendo quelle due anime in difficoltà, non riusciva a dire di no. « Nell’ultimo aggiornamento ha scritto: “Lui era il mio migliore amico e crederò sempre in lui.” Sherlock serrò gli occhi, facendogli un gesto brusco con la mano. « Non mi interessa cosa ha scritto sull’argomento. »  « Sembra un brav’uomo, il tuo John, non credo si meriti questo. »  Sherlock raddrizzò le spalle e mise giù i piedi dalla poltrona, ritornando la persona composta e imperturbabile di sempre. « Non è più mio. »  Victor sorrise impercettibilmente, ricordando le parole di John a proposito di cosa provasse davvero per Sherlock. Stupidi, tutti e due. « Io non credo lui la pensi allo stesso modo. »  Buttò lì, cercando di restare il più vago possibile. Sherlock si fermò per un momento dal muovere nervosamente il piede avanti e indietro, l’attenzione improvvisamente tutta su Victor.
« Ti ha detto qualcosa? »  « Forse. »  Sherlock strinse gli occhi in due fessure ghiacciate, alzandosi dalla sua postazione e mettendosi davanti a Victor che sorrideva, beato. « Sbrigati, la pazienza non è uno dei miei pregi. »  « Nemmeno la simpatia, a quanto pare. »  Sherlock alzò gli occhi al cielo e si sedette affianco al compagno, in attesa. « Avanti, parla. »  « Okay, beh, credo solo che, da come lui mi ha parlato di te, e ha parlato veramente tanto –un ghigno si formò sul viso di Sherlock a quella rivelazione–, sì, credo che lui ti consideri davvero molto molto speciale. »  Sherlock sembrò soppesare ogni singola parola e farla sua, prima di abbassare per un secondo lo sguardo sulle sue mani intrecciate. « Non c’è una remota possibilità che tu possa andare da lui? »  « No, non ora. Sarebbe troppo pericoloso e troppo affrettato. »  « Ma potresti, che ne so, mandargli un messaggio, fargli capire che sei ancora vivo. A lui andrebbe bene. »  Sherlock sbuffò, infastidito dalla continua invadenza dell’altro. Noioso, noioso e sentimentale peggio di John Watson. Si tolse il cappotto in un moto di irritazione, alzandosi nuovamente in piedi. « Ho detto di no. Sarebbe disastroso, è un pessimo bugiardo e non aspetterebbe due secondi prima di venire a cercarmi. Lo rintraccerò quando sarà il momento più opportuno. »  Victor lo osservò, lo sguardo che spariva oltre la finestra –così diversi, così uguali–, le braccia incrociate al petto, appoggiato contro un vecchio mobile di plastica arancione –orribile e terrificante, quel posto l’avrebbe fatto uscire pazzo.
« Il momento opportuno per te o per John? »  Chiese d’un tratto, sapendo bene che la frecciata sarebbe andata a buon segno. Si girò a fissarlo in quel modo che aveva sempre messo in soggezione tutti quanti, tranne lui. « Non vedo come questi siano affari tuoi, Victor. Sei qui per svolgere un lavoro, non farti distrarre. »  « Hai paura della sua reazione, non è così? »  Sherlock sbuffò, accennando appena ad una risata sarcastica. « Ovvio che non è così, Victor. Non ho paura di niente. »  « Lo stai ingannando, Sherlock. » « Non si può dire che un’illusione sia un inganno; è piuttosto un abbaglio, una verità a termine che dura finché nella bolla sospesa in aria dura l’ossigeno. »  Victor scrollò le spalle, non prendendo nemmeno in considerazione l’idea di rispondergli. Si strofinò le mani tra loro, cercando di scaldarle, quando il suo telefono squillò e la pesante cortina di silenzio che si era creata tra loro si spezzò. Sherlock ritornò a posare gli occhi su di lui, cercando di capire se fosse John o qualcuno che non valeva la pena nemmeno conoscere. « E’ John. »  Disse ad un tratto Victor, continuando a fissare il cellulare, in attesa di chissà cosa. « Imposta l’altoparlante. »  Sherlock raddrizzò un po’ la schiena quando si sentì la voce di John inondare la stanza. Una voce che non era più destinata  a lui –morte, così irrimediabile, così imprevedibile.
 
 
« Victor?” « Ehi, John! Qualche problema? »  « No, no, figurati. Sei impegnato? »  John continuò a fissare le tazze da tè della signora Hudson –o quello che ne era rimasto–, tutto intorno a lui. Le aveva fatto cadere o le aveva gettate in un momento di rabbia? Non se lo ricordava molto bene, ma appena la governante se ne sarebbe accorta gli avrebbe fatto una bella ramanzina, seguita da un aumento dell’affitto per il prossimo mese. Seguì una pausa di Victor, prima che continuasse a parlare. « No, non proprio. Cosa stai facendo? »  « Sto, uhm, pulendo un po’, ma sto per andare a letto. Tu? »  « Sono a casa di un amico. »  « Oh, scusami allora. »  John si diede mentalmente dell’idiota per averlo chiamato. « No, figurati, è irritante come l’orticaria, mi hai salvato. »  John rise appena e sentì Victor fare lo stesso, con un rumore attutito in sottofondo.
Lanciò un’ultima occhiata ai cocci per terra, prima di lasciar perdere tutto e salire le scale, verso la sua stanza. « E’ un amico tanto antipatico? »  Chiese John, infilandosi direttamente nel letto senza accendere la luce della stanza –il buio andava bene, il buio lo faceva sentire protetto. « Abbastanza, ma il problema è che cocciuto come un mulo. » John sorrise ancora, poggiando la testa sul cuscino e sospirando piano. « Conosco il tipo, posso capirti. »  Poté sentire l’incertezza di Victor dopo quelle parole, nonostante non fosse lì con lui. Una brutta area in cui camminare, piena di mine pronte a esplodere. « Mi dispiace, non volevo… »  « Tranquillo, è tutto okay. »  No, non era okay, per niente, ma far finta che lo fosse andava bene sia lui che agli altri. « John, devo andare ora, ci sentiamo domani? »  « Certo, buonanotte! »  « Buonanotte, John. » 
John si passò stancamente una mano sugli occhi, prima di chiudere la telefonata. Degli strani rumori lo fermarono in tempo, il pollice che sfiorava il tasto rosso per terminare la chiamata mentre la curiosità prendeva il sopravvento sulla ragione. Si riportò il cellulare all’orecchio, in attesa. « Mi sembrava molto triste. »  « Lo è, ovviamente. Grazie per la tua precisazione inutile, Victor. »  Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il cuore che incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di fare il proprio lavoro.
« Dovresti smetterla di essere così duro nei confronti di questa situazione. »  « E tu dovresti smetterla di improvvisarti Cupido, è stupido e noioso. » 
John si premette una mano sulla bocca, nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano annidando nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo in tilt. « Sei un robot. »  Mormorò Victor, in lontananza. « Vorrei tanto poterlo essere. » Sherlock. Sherlock.
« Sherlock? »  John riempì la stanza di quel nome, la voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava provando. Il silenzio che riempì le orecchie di John, gli fece capire che l’avevano sentito. Sherlock. Vivo.
Sherlock era vivo.
 
 
 
Note:
* Citazione da Via Paolo Frabbri 43
** Citazione da Mogol, Paolo Limiti
   
 
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: AntheaMalec