Continua
ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima,
o
almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo
comprenderai
non essere la cima.
[Seneca]
Gli
allenamenti ripresero come ogni altro giorno e la vita,
il corso del tempo, le persone attorno a noi si muovevano come se
quella
routine non fosse mai cambiata.
E
non lo era, davvero.
Soltanto
io mi rendevo conto ogni mattina, quando scivolavo
fuori dal un letto vuoto, ma ancora caldo e mi guardavo allo specchio,
che quel
ragazzo che mi restituiva lo sguardo al di là del vetro non era più lo
stesso
di molti mesi prima.
Da
quando era iniziata tutta quella storia, ne avevamo
passate tante e davvero non avrei mai creduto di poter un giorno dire
di essere
finalmente cambiato, di aver messo da parte i bagordi e la bella vita
di un
calciatore ventenne e mettere tutto me stesso nelle mani di qualcun
altro.
Di
una persona comune.
Ne
hai fatta di strada
da quando pensavi che perfino le tue mutande sporche valessero oro, mh?
Valevano
oro! Ruben ne ha visto il prezzo su e-bay.
Sorrisi
a me stesso e vidi la mia immagine riflessa fare lo
stesso.
Persino
quelle battute squallide non mi divertivano più come
prima, si poteva quasi azzardare a dire che Leonardo Sogno, lo stesso
che in
una notte era volato a Barcellona soltanto per scoparsi una top model,
era
“maturato” finalmente.
E
tutto per merito di un’avventura nata da uno scherzo.
«C-Come
v-va?»
Ruben
bussò piano e fece capolino all’interno della mia
camera. Lo raggiunsi con un asciugamano che mi pendeva dalle spalle,
intento
ancora a frizionarmi i capelli dopo una doccia.
«Bene,
Celeste è uscita?» chiesi tranquillo.
Mi
aveva accennato che dopo la vacanza a Londra aveva delle
lezioni che avrebbe dovuto necessariamente recuperare, per non parlare
del suo
lavoro alla gelateria.
Il
mio amico annuì. «N-No-Non ho f-fa-f-fatto in t-te-tempo
nemmeno a p-pre-prepararle la c-co-col-lacolazione!»
s’impuntò.
Sorrisi.
Ovviamente
non mi stavo burlando della sua balbuzie, solo che
mi faceva sempre divertire il fatto di vederlo così
incespicante su certi argomenti, mentre su
altri riusciva a districarsi perfettamente tirando fuori vocaboli di
cui non
sapevo nemmeno il significato.
Cosa
che non mi
sorprende affatto.
Taci.
Era
da un po’ di tempo a quella parte che la voce del mio
“Ego” era stata lentamente spodestata da una qualche specie di
coscienza che
aveva il tono e le sembianze della Celeste armata di dito pungolatore.
Praticamente
un incubo!
«Non
preoccuparti, tanto c’è la mensa in facoltà,» gli
risposi tranquillamente.
Iniziai
a vestirmi, nonostante Ruben fosse ancora nella mia
stanza, forse in attesa di qualcosa. Afferrai la tuta della magica e
comincia a
infilarci una gamba.
«Vuoi
chiedermi dell’altro, Rub?»
Lui
si sfregò nervosamente le mani una con l’altra. «B-Beh…»
annaspò. «M-Mi ha t-te-telefonato la “Rolling Stones Italia”,» il nome,
ovviamente, lo pronunciò senza intoppi. «E m-mi ha ch-chi-chiesto s-se
s-se-sei
d-disponibile p-per un’intervista.»
Lo
fissai intensamente. Non capivo cosa ci fosse di tanto strano
in quello che doveva comunicarmi, in fondo non era né la prima né
l’ultima
volta che avrei rilasciato un’intervista nella mia vita.
Ero
pure sempre Leonardo Sogno, cazzo.
Sì,
ogni tanto il mio Ego tornava a fare capolino spodestando
la piccola Celeste che viveva ormai fissa dentro di me.
«Va
bene, la farò,» dissi tranquillo.
Lui
però non si mosse dalla soglia. «C’è d-dell’a-altro…»
balbettò, nervoso.
«Mh?»
Potevo
capire che fosse importante la cosa che stava per
dirmi, ma se avesse temporeggiato qualche altro minuto, avrei fatto
ritardo
agli allenamenti. Di nuovo.
Ruben
deglutì a fatica, così decisi di venirgli incontro.
«Bello,
senti,» mormorai, alzandomi e posandogli una mano sulla spalla. «Puoi
dirmi
qualunque cosa, tranquillo. Vogliono farmi delle foto nudo? Devo posare
per un
sexy-calendario? Ne parlerò con Celeste, e stai tranquillo che vorrà la
prima
foto autografata,» sghignazzai.
Lo
vidi arrossire. «M-Magari si tr-trattasse di q-quello…»
Okay.
Adesso stava davvero cominciando a spaventarmi.
Cosa
c’era di peggio di convincere Cel a vedere il mio pistolino
sui cartelloni pubblicitari e appeso ad ogni edicola
della città?
«Sputa
il rospo, Ruben.»
Lui
alzò timidamente lo sguardo su di me. «V-Vogliono
i-in-inter-intervistarvi
i-ins-insieme… t-tu e C-Ce-Celeste…»
«Cosa?»
Ora
ero davvero fottuto.
«L’a-articolo
d-dov-dovrebbe chi-chiamarsi “L’a-altra m-me-metà de-della f-fama” e
v-vo-vogliono f-fa-fare d-de-delle d-do-domande alle f-fi-fidanzate e
a-ai
fi-fidanzati d-de-delle persone f-famose.»
Guardai
il mio migliore amico come se da un momento all’altro il boia avrebbe
chiamato
il mio nome per una decapitazione in pubblico.
Scossi
la testa. «Non accetterà mai.»
«M-Ma-Magari
s-se glielo c-chie-chiedi c-con g-ge-gentilezza… p-potrebbe
p-po-portare m-molta
pub-pubblicità q-questo a-ar-art-articolo…» insistette.
Alzai
le mani in segno di resa.
A
Londra si era respirato un clima più mite per quanto riguardava i fans,
i
giornalisti e i paparazzi, ma l’esperienza di Fiumicino Celeste non
l’aveva mai
digerita.
Anche
se aveva ammesso che non era stato nulla, che l’aveva superata, per lei
quel
mondo era del tutto nuovo ed io avevo il dovere di proteggerla. Anche a
costo
di rinunciare ad un po’ di notorietà.
Ti stai sentendo? Non ti riconosco
più,
bello.
Taci tu! Fa bene, Celeste viene
prima di
tutto!
Chiudi il becco, gallina!
Chiudilo tu, ritardato!
Cercai
di spegnere le voci nella mia testa e pensare ad una soluzione
concreta.
Cercare di convincere Celeste era fuori discussione, di sicuro avrebbe
tirato
fuori argomenti come “cosa vuoi che gli dica? Che sei un demente
ritardato?”
oppure, nell’ipotesi peggiore, “E se ci fanno domande su come è
cominciata?
Dico loro che mi hai rifilato la balla di essere un fioraio e io, come
una
cretina, ci ho pure creduto?”
Okay,
di male in peggio.
«Credo
che dovremmo rinunciare, Ruben,» asserii mogio.
Lui
annuì. Evidentemente aveva fatto gli stessi miei conti. «V-Va b-bene.
Li
a-avverto.» E lasciò la stanza.
Libero
finalmente di vestirmi, mi avvicinai alla scrivania dove la mia ragazza
aveva
lasciato acceso il suo laptop. Mossi curioso il mouse, giusto per
controllare
le previsioni del tempo, ma la prima schermata che si accese fu quella
di un
foglio di scrittura.
Era
da un po’ di tempo, in effetti, che la vedevo indaffarata a
picchiettare giorno
e notte le dita sui tasti, ma avevo sempre pensato che si trattasse di
cose
universitarie. Dalle citazioni presenti nel foglio e dai discorsi
diretti
racchiusi nelle virgolette, riconobbi che quello non era un saggio
bensì
qualcosa scritto da lei.
Sembra un libro.
Eureka! Ci sei arrivato prima o
dopo aver
letto “capitolo 18”?
Dovevo
ricordare al mio Ego di liberarsi il più presto possibile di
quest’altro lato
della mia coscienza che si era insinuato nella mia mente.
Ora
avrei dovuto davvero chiudere lo schermo. Dovevo.
Il
vecchio Leonardo avrebbe curiosato tutto il resto della mattina,
arrivando pure
in ritardo agli allenamenti facendo incazzare il mister a morte e si
sarebbe
anche fatto beccare da Celeste, che magari aveva notato qualcosa di
diverso nel
suo computer.
Presi
un bel respiro e rimisi il pc in stand-by.
Da
tutta quella storia avevo imparato almeno un paio di cose: non far
incazzare
mai né Celeste, né il Mister perché la prima mi avrebbe mandato in
bianco per
il prossimo mese e mezzo, lasciandomi sfogare con Ludovica (la mano
amica), e
il secondo se la sarebbe legata al dito finendo per relegarmi in
panchina o
facendomi fare una cinquantina di giri di campo.
«Ruben,
io vado!» E detto ciò mi fiondai giù per le scale diretto a Trigoria.
***
La
lezione del professor Porelli era talmente lenta e prolissa che ero
stata
costretta a posare il mento sulla mano per non lasciar ciondolare la
testa nel
vuoto.
L’idea
di tenere le palpebre aperte con il nastro adesivo – cosa che Robbeo
aveva
fatto sul serio – non sembrava poi una cattiva idea ora come ora, dopo
che mi
ero ridotta a darmi i pizzicotti di nascosto pur di non dormire in
classe.
Il
resto del corpo studentesco era ormai nel mondo dei sogni.
Gli
studenti seduti in fondo all’aula si erano direttamente sbracati sui
sedili,
utilizzando i cappotti come cuscini e calandosi gli occhiali da sole
sul viso.
Quelli seduti nel mezzo erano ricorsi a tecniche avanzate di
camuffamento, in
modo da non destare sospetti in Maria-Ernesto Porelli, professore di
Lettere
Antiche.
«Non
ho scritto una riga da quando siamo entrati,» mi confessò Romeo.
Vederlo
con lo scotch che gli tirava le palpebre albine fino alla fronte lo
faceva
assomigliare ad una specie di orribile fenomeno da baraccone.
Per
dirla alla “Leonardo”: è un cesso a
pedali.
Posai
lo sguardo sul mio blocco degli appunti. Immacolato proprio come quando
lo
avevo acquistato dalla cartoleria lì di fronte.
Sbuffai
infastidita. Non era da me boicottare una lezione in quel modo, solo
che non
facevo altro che pensare al romanzo. Mancava poco alla conclusione ma
dovevo
trovare un finale degno di essere chiamato tale e non la solita
cavolata di due
righe, contenente una morale squallida e inverosimile.
Romeo
sbadigliò, in modo da farmi contare almeno quattro carie all’interno
della sua
bocca.
«Senti,»
mi disse dopo poco. Uno “SHHHH”
sonoro si levò da metà fila, verso la nostra direzione ed io sussultai
sulla
sedia.
Marika
Ventimiglia, la secchiona che sedeva quasi in bocca al professore, ci
fissava
entrambi come se volesse privarci della testa utilizzando uno spadone
affilato
come in uno di quei romanzi fantasy.
Romeo
le mostrò il dito medio e lei si inacidì maggiormente. Il mio migliore
amico
tornò a sorridermi tutto gongolante. «Ha una cotta per me,» disse
sicuro, ed io
ci credei davvero poco.
«Stavi
dicendo?» lo incalzai.
Odiavo
quando la gente lasciava i discorsi a metà, soprattutto quando non
avevo voglia
di ascoltare il Porelli che continuava a spiegare con una flemma che
avrebbe
fatto suicidare persino Socrate.
«Dunque.»
Romeo si accorse ben presto di non poter sbattere le palpebre a causa
del
nastro adesivo e i suoi occhi stavano diventando rossi. Sembrava come
indemoniato. Mentre parlava cominciò a staccarsi lo scotch e a sibilare
dal
dolore.
Era
proprio un babbeo.
«Annalisa
mi ha chiesto-ahi!» bofonchiò. «Se una sera di queste-porcaputtana!
Usciamo
tutti e quattro insieme, visto che ormai-cazzo! Siamo ufficialmente due
coppie…»
Premesso
che ancora stentavo a fidarmi della rossa, l’idea di andare in uno di
quei
ristoranti a cui era abituata mi metteva ancora più in agitazione della
presenza dell’ex-psicopatica del mio attuale fidanzato.
«Non
credo che Leo voglia…» mentii.
La
comodità di avere qualcuno con cui condividere la propria vita era che
finalmente potevo smollargli anche metà della colpa.
«Ha
già confermato, gli ho telefonato prima,» gongolò Robbeo.
Purtroppo
avere un fidanzato calciatore, che è l’idolo del tuo migliore
amico-nerd non
giova affatto.
Romeo
mi afferrò il braccio entusiasmato. «Eddai! Chissà quando ci ricapita
l’occasione di rimpinzarci in uno di quei ristoranti gné-gné dove ti
portano
delle mini-porzioni e te le fanno pagare cinquanta euro l’una!»
«E
tu come farai a pagare il conto?» gli chiesi, con ovvietà.
Anche
se mi reputavo una donna indipendente, sapevo che il mio stipendio da
Bombolo
non avrebbe mai coperto le spese di uno di quei ristoranti di lusso, o
almeno
sarebbe bastato per il primo piatto.
Romeo
era persino messo peggio di me.
A
quel punto lo vidi arrossire. «Il signor Cavalli mi ha fatto ottenere
un
lavoretto nella sua società,» smozzicò. «Non è un posto di rilievo, ma
guadagno
abbastanza bene e posso pagarmi anche al retta all’università.»
Rimasi
di sasso. L’idea che anche Romeo-babbeo potesse essersi finalmente
responsabilizzato mi metteva in una posizione di disagio. Era come se
io stessa
non riuscissi a migliorare, a crescere…
Forse perché eri già “grande” prima.
«Che
ne dici? E poi bisogna festeggiare!» trillò estasiato.
Lo
guardai sospettosa. «Che cosa, esattamente?»
Roteò
gli occhi al cielo, infastidito forse dalla mia ingenuità.
«L’intervista, no?
Non hai saputo?»
«Quale
intervista?»
Pensai
immediatamente che quel demente di Leonardo mi avesse tenuto nascosta
l’ennesima notizia,
come se non fossero
bastate tutte le bugie del passato.
«Cadi
proprio dalle nuvole a volte,» borbottò. «La rivista Rolling
Stones Italia sta cercando dei personaggi famosi che escono
con persone “normali”, come noi. Intervisteranno Annalisa e quindi
hanno
invitato anche me! Non trovi che sia stupendo?»
Sorrisi.
Alla fine non si era trattato di una bugia da parte di Leo, e quella
era la
cosa che mi sollevava di più in tutta quella faccenda.
Poi
però mi ritrovai a riflettere.
«Meraviglioso…»
commentai.
Strano che non lo hanno chiesto
anche al
tuo boy-friend, no?
«…ma?»
tentai di aggiungere, poi preferii tacere. Se non lo avevano chiesto a
Leonardo, un motivo c’era. Meglio così. Non ero poi tanto sicura di
riuscire ad
affrontare un’intervista a cuore aperto dopo che la nostra relazione si
teneva
in piedi su dei pioli traballanti.
Romeo,
però, fu più veloce di me. «Se ti stai chiedendo il perché non ci siete
anche
tu e Leo, ebbene lui ha rifiutato l’intervista,» gongolò.
Stranamente
non mi sentii sollevata, anzi.
Riflettendo,
avevo già messo in tavola dei pro e dei contro a tutta quella faccenda,
ma il
fatto che Leonardo avesse preso una decisione che riguardava entrambi
senza
prima consultarmi, mi lasciò di stucco.
D’accordo
che a me poco importava. Un’intervista non mi avrebbe di certo cambiato
la
vita, anzi, mi avrebbe messo al centro dell’attenzione dei riflettori,
mi
avrebbe fatta uscire allo scoperto ed io ero segretamente terrorizzata
da
questa cosa.
Seguivo
i programmi in tv e leggevo le riviste di gossip, o almeno quelle che
Anna
lasciava in giro per casa quando dormiva da Romeo.
«E
perché?» chiesi, quasi senza volerlo.
Romeo
scrollò le spalle. «Anna ha telefonato a Ruben e lui le ha solo detto
che non
ci sarete per l’intervista. Non ha detto altro.»
Sentii
la rabbia montarmi dentro.
Punto
primo, stavo perdendo un mucchio di tempo cercando di decifrare ciò che
quella
mummia del Porelli stava scrivendo sulla lavagna a ritmo di una lumaca
con
l’artrosi; punto secondo, Leonardo mi avrebbe ascoltata per bene una
volta rientrato
dagli allenamenti.
«Sembra
che i tuoi occhi sputino fuoco e fiamme…» osservò il mio migliore
amico.
«Deduco che la cena questa sera è rimandata?»
Un
ringhio basso fuoriuscì dalla mia gola e quello bastò a zittire Romeo
per il
resto della giornata.
Ero
rimasta tutto il pomeriggio nel salotto dell’appartamento di Leonardo e
Ruben,
con il televisore spento e una pila di libri da leggere. Dovevo
recuperare una
decina di letture, ma con quella frustrazione che avevo dentro mi
ritrovavo a
leggere la stessa riga una ventina di volte.
Dio, se mi sente quando torna!
Questo
era il pensiero che più o meno si materializzava ogni quarto d’ora
nella mia
mente, spodestando gli scritti De
Maupassant e Hugo.
Controllavo
con ossessione l’orologio del soggiorno, così come la porta
dell’ingresso.
Erano
le 17.15 del pomeriggio e la luce del giorno cominciava a svanire dalla
finestra, così accesi una piccola lampada vicino al divano. Rimasi
assorta nel
leggere le disavventure di Fantine e di Jean Vanjean tanto da non
accorgermi
della chiave che di punto in bianco girò nella toppa.
«Ehi!»
mi salutò Leonardo sorridente, togliendosi sciarpa e cappotto.
Anche
se lo avevo aspettato tutto il pomeriggio col solo intento di farmi una
sana
litigata, lo ignorai. Doveva capire da solo il motivo per cui mi ero
inviperita
in quel modo.
Si
avvicinò cercando i miei occhi, ma gli sfuggii.
«Si
può sapere cos’hai?» chiese, sedendosi sul bracciolo del divano in
pelle. Dopo
qualche minuto del mio eterno silenzio, sospirò. «Ho forse fatto
qualcosa di
sbagliato?»
Deo gratias, ci era arrivato!
«Tu
che dici, mh?» sibilai, acida. Lanciai il libro dei Miserabili sul
tavolinetto
da caffè, senza curarmi nemmeno di dove fosse finito.
Leonardo
assunse quell’espressione da cucciolo bastonato che non capiva affatto
cosa
avesse fatto di così erroneo. Si grattò la testa confuso.
Gli
occhi verdi spalancati e spaesati mi fecero quasi desistere dall’essere
così
stronza.
Quasi.
«Una
certa intervista non ti dice
nulla?»
gli ricordai, alzandomi in piedi e puntellando le mani sui fianchi.
Trattenevo
a stento il piede che, di sua iniziativa, cominciava a picchiettare il
pavimento.
Leonardo
sgranò gli occhi. «Da chi…?» tentò di chiedere, ma lo bloccai.
«Non
è importante da chi l’ho saputo, il punto è: per quale motivo non ne
hai
parlato con me prima di rifiutare di netto? Non conto niente?» sputai
fuori.
Okay,
forse era una reazione esagerata per una cosa tanto futile, ma dovevamo
lavorare su questa relazione ora che eravamo agli inizi. Non ci tenevo
a subire
per anni e poi esplodere come una pazza isterica chiedendo il divorzio
o chissà
cosa.
Il
calciatore si portò una mano dietro la nuca, nervoso. «Ho pensato di
fare la
cosa giusta, sai…» Gesticolò.
«Mi sono
chiesto quali domande avrebbero potuto farti, e la maggior parte erano
imbarazzanti.»
«Del
tipo?» lo esortai, sfinita.
Leonardo
sospirò, affranto. Il suo comportamento riconobbi era diverso dal
solito, come
se effettivamente avesse messo me al primo posto, piuttosto che pensare
al suo
di tornaconto.
«E
se ti domandassero dove ci siamo conosciuti? Come è iniziata la nostra
storia?
Tu cosa risponderesti?» gridò di punto in bianco, facendomi sussultare.
«So
perfettamente che è colpa mia tutto questo, il fatto che tu non possa
nemmeno
vantarti di avere un fidanzato famoso senza poter raccontare la parte
in cui io
ti ho presa in giro tutto quel tempo… mi dispiace.»
Le
braccia mi caddero lungo i fianchi, inerti.
Non
riuscivo nemmeno a parlare, a muovere le labbra, perché tutto ciò che
mi aveva
rivoltato in faccia corrispondeva all’esatta realtà dei fatti. Forse
ero stata
troppo precipitosa, magari l’idea che mi avesse data per scontata mi
aveva
accecata verso le reali motivazioni di quella decisione, e, infatti, mi
sentivo
una sciocca.
Dopo
qualche minuto cercai i suoi occhi verdi. «Mi dispiace,» dissi, e mi
fiondai
tra le sue braccia. Leonardo mi accolse senza dire nulla, mi strinse a
sé
forte, tanto che sentii il suo cuore battere attraverso la tuta.
«Scusami, hai
fatto bene. Hai ragione, sono stata una stupida ad urlarti contro solo
che…»
smozzicai, confusa e imbarazzata.
Lui
mi accarezzò i capelli. «Pensavi che ti avessi messa da parte?»
ipotizzò con un
sorriso.
Alzai
il capo e incrociai il suo meraviglioso sguardo e annuii. Si chinò a
baciarmi
ed io accolsi le sue labbra senza tirarmi indietro, cercando un maggior
contatto. Mi alzai in punta di piedi ed allacciai le braccia dietro la
sua
nuca, mentre lui mi strinse i fianchi.
Ci
separammo dopo poco, fronte contro fronte. «Non voglio più metterti in
imbarazzo,» mi confessò triste.
Mandai
giù un grosso groppo di tristezza che si era formato attorno alla gola.
«Tu non
mi metti mai in imbarazzo, non più,» affermai sicura.
Rimanemmo
a guardarci l’un l’altro, mentre il sole calava all’orizzonte e la
stanza si
faceva sempre più buia, avvolta nel mantello della notte.
«Davvero,»
disse, scostandosi lievemente. «Preferisco evitare tutte le feste
mondane e i
luoghi pubblici se questo ti da fastidio. Eviterò anche le intervis-…»
Gli
misi un dito sulle labbra, zittendolo.
Era
sufficiente, davvero. Quella sua rinuncia dimostrava una maturità che
sicuramente aveva acquisito col tempo, e magari forse era un po’ mio il
merito.
Avevo conosciuto un ragazzo egoista, pieno di sé, borioso, a cui non
importava
nulla del prossimo. La persona che avevo davanti agli occhi aveva
soltanto
l’aspetto di quel ragazzo di un tempo.
Del
Leonardo Sogno tutto calcio e successo c’era rimasto ben poco.
Inseguiva
ancora la sua fama, l’amore per quel pallone che io ancora non
condividevo
appieno, ma nel suo cuore adesso c’era spazio anche per me. Ed era una
cosa
molto dolce a cui pensare.
«Non
dirlo,» gli sussurrai e lo baciai di nuovo. «Come tu non vuoi farmi del
male o
ferirmi, io non ho alcuna intenzione di tarparti le ali, di mettere
fine alla
tua carriera obbligandoti a stare con me e alle mie regole. L’amore è
dare e
ricevere, e adesso è venuto il mio turno di dare.»
Per
un attimo il vecchio Leo fece capolino su quel viso giovane, sfoderando
un
sorriso malizioso.
Ridacchiai
a mia volta. «Non intendevo quello!»
gridai, fingendomi arrabbiata.
Dopo
poco tornai seria. «Credo che stasera io e te dovremmo farci un giretto
in uno
dei ristoranti del centro, che ne dici? Magari chiamiamo anche Annalisa
e
Robbeo.»
La
feci sembrare una mia idea, ma gli avevo solo riferito ciò che il mio
migliore
amico mi aveva proposto.
Il
calciatore arcuò un sopracciglio, sospettoso. «Sicura? Sai che il
centro è
pieno di turisti e che di sicuro assalteranno il nostro tavolo per
degli
autografi…» mi avvertì.
Un
momento di puro panico attraversò il mio corpo, ma lo ricacciai
indietro.
«Dovrò abituarmici prima o poi, giusto? Non possiamo nasconderci per
sempre.»
Leonardo
sembrò essersi tolto un enorme peso dal cuore ed io gli afferrai la
mano, per
poi dirigermi verso la sua stanza.
«E
questo sarebbe il premio per cosa?» chiese, inseguendomi.
Mi
voltai appena e gli sorrisi. «È per me il premio, caro. Visto che mi
sono
sorbita due ore del Porelli tenendo a stento gli occhi aperti.»
Lui
allora mi afferrò per i fianchi e mi sollevò come se pesassi meno di
una piuma.
Gli cinsi la vita con le gambe e affondai il viso nell’incavo del suo
collo,
inspirando il profumo del bagnoschiuma. Leonardo odorava sempre di
pulito, come
se i suoi vestiti fossero stati appena lavati, nonostante si fosse
allenato giù
a Trigoria.
Entrammo
nella sua stanza e lui si chiuse la porta alle spalle.
«Aspetta,»
dissi solo, e Leo mi fece scendere dal suo abbraccio. Mi mordicchiai
nervosamente le labbra, forse ancora indecisa su quello che stavo per
dire.
Fu
allora che Leo mi afferrò il viso e mi costrinse a guardarlo. «Niente
segreti,
ricordi?» disse ed io lo amai, forse un po’ più di prima.
Così
presi coraggio. «È troppo tardi per quell’intervista?» chiesi e gli
occhi verdi
del mio fidanzato si spalancarono.
Sorrise,
un po’ incerto. «Ne sei sicura?» indagò.
Presi
un bel respiro e annuii con convinzione. «Credo di avere delle cose da
chiarire
ed altre di cui devo assolutamente parlare,» aggiunsi.
Leonardo
allora afferrò il cellulare e digitò un numero. Al terzo squillo
qualcuno
rispose.
«Ruben?
Dì a quelli del Rolling Stones che io e Cel ci stiamo.»
Dopo
si chino a baciarmi, ancora e ancora.
***
I
giornalisti del “Rolling Stone Italia” ci accolsero in un lussuoso
attico al
centro della città, in una delle traverse di Via del Corso. Dapprima
avevo
pensato si trovasse lì anche la sede della rivista stessa, ma Ruben mi
aveva
detto che loro preferivano mettere i propri ospiti a loro agio e
cercare un
ambiente confortevole in cui parlare.
«Sono
E.M.O.Z.I.O.N.A.T.O.,» trillò per la quarta volta Romeo, lisciandosi i
capelli
fulvi tutti impomatati all’indietro.
Annalisa
non la finiva di sorridergli come un’ebete e da quando si era
riscoperta
innamorata del ragazzo, non si accorgeva neppure di come lo lasciasse
andare in
giro: camicia bianca infilata in dei pantaloni eleganti di due taglie
più
grandi della sua, tenute su da bretelle di dubbio gusto e provenienza.
Celeste
camminava al mio fianco, radiosa come un raggio di sole del primo
mattino.
«Come
ti senti?» le chiesi preoccupato.
L’idea
che qualche giornalista potesse metterla sotto pressione con delle
domande
inopportune mi terrorizzava, soprattutto perché io ci ero passato e sapevo quanto quelle persone potessero
essere invadenti.
Lei
mi afferrò la mano e la strinse. «Tutto okay,» mi rassicurò.
Entrammo
nell’edificio all’apparenza vecchissimo, uno di quei classici palazzoni
anneriti dallo smog che erano situati al centro della città, ma il suo
interno
era tutto rimodernato. All’ingresso ci attendeva il portiere, che
subito prese
i nostri cappotti e ci fece strada verso uno degli ascensori.
Celeste
aveva insistito per portare con sé un plico di documenti, che teneva
ben
riposti in un’enorme borsa.
«Che
c’è lì dentro?» le chiese subito Anna, curiosa.
Ovviamente
io non avevo osato chiedere, altrimenti le sue ire si sarebbero
abbattute su di
me e preferivo evitare.
Cel
la fulminò. «Cose,» tagliò corto.
Anna
non sembrava molto soddisfatta della risposta, ma il tintinnio del
campanello
la distrasse. L’ascensore era finalmente arrivato, così tutti e quattro
montammo in quello stretto abitacolo per digitare poi l’ultimo piano.
«Almeno
questo trabiccolo non è come l’ascensore di casa vostra,» ridacchiai.
Annalisa
si unì subito. «Credo che quell’affare sia lì dalla guerra di
secessione, o
forse prima!» gongolò.
«Ah!
Ah! Ah!» tuonò Celeste. «Scusate se non possiamo permetterci un
lussuoso
appartamento come questo, posto al centro cittadino. Purtroppo io e
Robbeo ci
manteniamo da soli, nonostante tutto.»
Passò
un attimo di silenzio nel quale pensai avessi peggiorato di gran lunga
la
situazione.
Guai in arrivo.
«Però
ammettilo, Cel. Quell’affare è un pericolo pubblico!» commentò Robbeo,
e fu
allora che anche Celeste ridacchiò.
L’ascensore
giunse all’attico e non appena scendemmo una giovane donna ci accolse
con
sorrisi e benvenuti, conducendoci verso l’interno dell’appartamento.
«Da
questa parte signori, prego, accomodatevi,» disse educatamente. «Io
sono
Rebecca e mi occupo degli appuntamento coi giornalisti. Voi siete…?» e
il suo
sguardo si posò con insistenza sull’aspetto bizzarro di Romeo.
Lui
allungò subito la sua pallida e lentigginosa mano, passandosi l’altra
tra i
capelli impomatati. «Io mi chiamo Ciuccio…» sorrise, maliziosamente.
«Romeo
Ciuccio.»
La
signorina ignorò palesemente la mano, alquanto sudaticcia.
«Leonardo
Sogno, piacere,» dissi, imitando Robbeo.
«Mr.
Sogno, lei e la signorina dovete entrare nella stanza in fondo al
corridoio,
per l’intervista. La ringraziamo anticipatamente per questo enorme
favore che
ha fatto alla rivista.»
La
interruppi subito. «È stato merito della mia ragazza,» mi sentii in
dovere di
dire, posandole una mano sul fianco.
Celeste
mi sorrise, un po’ imbarazzata.
«Da
questa parte, signori,» disse, rivoltasi ad Anna e Romeo-babbeo. Loro
furono
condotti in un’altra saletta, sempre con la porta sigillata.
Mentre
li vedevo andarsene, mi domandai quali genere di domande avrebbero
potuto fare
alla Cavalli e un po’ mi preoccupai per lei. Di certo, io sarei stato
quello
più esposto in tutta questa faccenda ma vederla così tranquilla mi
spaventava.
Visto
e considerato che fino a nemmeno un mese prima aveva tentato più volte
di
sabotare la mia storia con Celeste per i suoi secondi fini. Adesso
faceva la
fidanzata perfetta, e sinceramente era inquietante.
«Che
hai?» mi domandò Cel, vedendomi assorto.
Le
strinsi la mano. «Nulla d’importante.»
Lei
puntò quelle sue iridi cristalline e stirò le labbra. Niente
più segreti.
Sospirai
sconfitto. «Mi chiedevo cosa racconterà Anna ai giornalisti,» le
spiegai,
mentre ci incamminavamo verso la nostra sala delle interviste.
«Sei
preoccupato che possa mettere in imbarazzo Romeo?» domandò, acuta come
sempre.
Annuii.
«Lo sai, Anna non è dotata di molto tatto, soprattutto quando si parla
della
sua vita privata. Non vorrei che si lasciasse sfuggire delle cose
spiacevoli…»
Celeste
sembrò pensarci su. «Certo, dovresti considerare anche il contrario.
Hai visto
come si è vestito Robbeo, vero?»
Come
avrei potuto non notarlo?
«Dici
che quei due si completano a vicenda, mh?»
Lei
mi sorrise, poi d’impatto ci fermammo entrambi davanti alla porta di
legno
laccato bianco. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero nervoso
per
un’intervista.
Non
mi era mai capitato, anzi. Adoravo quando i giornalisti mi facevano
domande su
me stesso, sulla mia fantastica vita da calciatore, sulle innumerevoli
love
stories e sulla mia fama. Parlare di Leonardo Sogno era il mio
argomento
preferito da un po’ di anni a quella parte.
Adesso
invece sarei volentieri fuggito da lì.
«Siamo
ancora in tempo per rinunciare,» le dissi, cercando di bloccare la voce
che mi
tremava.
Sei Leonardo Sogno, dannazione.
Ricordatelo!
Celeste
allora si passò il plico di fogli che aveva sotto braccio, nell’altra
mano. Poi
mi strinse a sé. Forte.
«Lo
voglio fare,» ripeté decisa. «Per noi.»
Annuii
e presi più coraggio. La verità era che la nostra relazione era ancora
in
bilico su una sottilissima lama di rasoio, pronta ad essere spazzata da
un lato
o dall’altro della lama. Era così fragile da essere spezzata, ed io
ormai avevo
il terrore.
Dopo
ciò che eravamo riusciti a recuperare a Londra, l’idea di perderla
ancora mi
avrebbe distrutto.
Entrammo
nel salottino arredato moderno, dove c’erano un divano e due
poltroncine al
centro di un grande tappeto di pelo bianco.
Una
donna si alzò e venne ad accoglierci, raggiante.
Aveva
l’aspetto di una ventenne intrappolata in un corpo di quaranta. A
giudicare
dalle extension e dal trucco pesante che aveva in volto, assomigliava a
una
protagonista di Desperate Housewives.
«Ma
benvenuti, mie tesovi!» trillò,
abbracciandoci come se fossimo i suoi figli dispersi.
«Salve,»
la salutò cordialmente Celeste, io mi limitai a grugnire qualcosa.
«Pvego,
accomodatevi puve!» ci disse, pronunciando quelle “evve” in un modo
talmente
fastidioso che avrei lasciato il palazzo pur di non sentirla più
parlare.
Consideralo un handicap, come la
balbuzie
di Ruben.
Il
problema che quella donna era un Ruben cinquantenne truccato malamente.
«Lui
e Paolo, vi favà delle fotogvafie duvante l’intevvista,» ci spiegò,
presentando
il fotografo che ci fissava come se anche a lui sarebbe spettato il
patibolo.
«Vi
ringrazio infinitamente per questa opportunità,» disse subito Celeste,
sorprendendomi. «Per me e per Leonardo significa molto.»
«Già…
uhm, grazie,» aggiunsi.
Non
era proprio mia abitudine ringraziare, semmai era il contrario. Essere
famosi
comportava anche il sapersi districare tra le numerose offerte
pubblicitarie
che mi venivano sottoposte, e quando più di un giornale si contendeva
una mia
esclusiva, ero sempre stato del parere che i ringraziamenti mi erano
dovuti.
Celeste,
invece, riusciva sempre a cambiare ogni mio punto di vista.
«Che
cava vagazza!» disse estasiata l’anziana giornalista. «Sei pvopvio
fovtunato,
vagazzo mio!» E mi strizzò l’occhiolino molto più maliziosamente di
quanto mi
sarei aspettato.
Vade retro, Satana!
In
risposta, stiracchiai un mezzo sorriso e cercai, scivolando sul divano,
di
incollarmi al corpo di Celeste per sopprimere le avances di quella
specie di
megera.
«Dunque,
divei di cominciave,» sospirò, tirando fuori un registratore e un
taccuino dove
si era annotata alcune domande. «Sapete che l’intevvista pavlevà delle
stovie
d’amove tra una pevsona famosa e l’altva ovdinavia, quindi, io pavtivei
divettamente dal pvincipio.»
La
mazzata stava arrivando.
«Cava
Celeste,» le sorrise come una madre orgogliosa fa con un figlio. «Come
vi siete
conosciuti?»
Cercai
gli occhi della mia ragazza per paura di leggervi dentro uno stato
d’ansia, lo
stesso che mi stava attorcigliando le budella. Era stato difficile per
lei,
nell’intimo, digerire la storia delle cazzate che avevo sparato per
piacerle, e
adesso era costretta a raccontare quell’idiozia a mezzo mondo.
Le
strinsi la mano, forte. Lei ricambiò la stretta.
«Dunque,
devo ammettere che io di calcio non ne capisco molto, anzi, devo dire
che sono
proprio ignorante in materia,» ridacchiò. «Quindi puoi immaginarti che
appena
mi sono trovata Leo davanti, nemmeno sapevo chi fosse.»
L’ironia
e le battute con cui Celeste riusciva a mantenere sul “leggero” quelle
confessioni, piacque molto alla giornalista. Lei e il fotografo
cominciarono a
ridacchiare, ed erano entusiasti di tutta la storia della motocicletta,
della
pozzanghera e del fatto che mi fossi inventato un nome fittizio per
nascondere
la mia identità.
«Quindi,
campione,» disse la signora, al sottoscritto. «La vostva stovia è nata
pev un
piccolo malinteso che poi è sfociato in qualcosa di più ingavbugliato?»
e
scrisse.
Scrisse
e annotò, tutto il tempo.
I
flash del fotografo e il “click” della macchina fotografica mi
innervosivano.
Ero
io quello che si doveva comportare con naturalezza, quello abituato
agli
autografi, alle domande e a fare i conti con la propria vita
spiattellata sulla
copertina di un giornale. Invece, in quel momento, era Celeste ad
essere
tranquilla.
«Sì,»
risposi titubante. «Diciamo che all’inizio era soltanto un gioco.»
Misurai
bene le parole. Non avevo pensato a cosa avrei potuto dire, magari
utilizzando
un termine sbagliato avrei potuto mettere fine alla mia storia con Cel.
La
giornalista annuì e scrisse.
«Sai,
era la prima volta che qualcuno non mi riconosceva. Non mi era mai
capitato
prima, così presi la palla al balzo e inventai tutta un’identità falsa
per
potermi godere un po’ di “anonimato”.»
Dal
modo in cui picchiettava la penna sul taccuino, sembrava avesse trovato
la
storia del secolo.
«E
tu, cava, non ti sei accovta di nulla?»
Celeste
scosse la testa. «Come ho detto, non conoscevo chi fosse questo
Leonardo Sogno,
ma dall'inizio capii si trattasse di un ragazzo vanitoso e pieno di sé,
uno di
quei tipi che solevo evitare da sempre. Il fatto è che giorno dopo
giorno, me
lo trovai sempre tra i piedi e in un modo o nell’altro riusciva a
sorprendermi
e a rendere le mie giornate meno noiose.» Si portò le mani al volto,
ridendo.
«Non so spiegarmi bene.»
La
donna le prese una delle mani tra le sue. «Oh no, tesovo! Ti spieghi
benissimo!»
Udire
di nuovo la versione dei fatti dalle labbra di Celeste mi fece sentire
strano.
Avevamo chiarito i nostri problemi, certo, ma non avevo mai sentito la
sua di
storia.
«Che
identità hai utilizzato, Leonavdo?» mi chiese.
LeonaRdo,
avrei voluto risponderle.
«Ho
utilizzato il nome del mio manager, Ruben. Poi mi sono inventato una
professione normale, come fioraio, nel negozio di mia nonna
Annunziata,»
spiegai.
«Oh!
Davvevo intevessante!» trillò, scrivendo come una forsennata.
Andammo
avanti a raccontare, a turno, le nostre storie, intrecciandole
opportunamente
l’una con l’altra e cercando di rispondere anche ad alcune domande
imbarazzanti.
Per
fortuna, sorvolammo su ciò che era successo alla festa di Annalisa e
tutte le
altre occasioni in cui la nostra passione era sfociata in tempi e
luoghi poco
opportuni.
Trascorsero
quasi tre ore, ma facemmo due o più pause. Per fortuna un buffet
abbondante mi
distrasse dal nervosismo di quell’intervista, che però non aveva
contribuito a
chiudermi lo stomaco.
Anzi.
«Guarda
che poi non ceni,» mi ammonì Celeste, vedendo quanto mangiavo.
La
zitti con un cenno della mano. «’O dici te!» la rassicurai.
Vidi
con la coda dell’occhio che la mia ragazza si appartava con la
giornalista,
mostrandole il plico di fogli che aveva stretto a sé tutto il tempo.
Avevo
tentato più volte di sbirciare, ma lo sguardo gelido di Celeste mi
aveva
rimesso in riga.
«Quindi,
Londva è stata un’isola di salvezza pev la vostva stovia?» chiese,
concludendo.
Celeste
annuì. «All’inizio ero restia a partire, ancora non mi fidavo di
Leonardo. Il
fatto di aver scoperto la sua menzogna alla festa di J, davanti a tutte
quelle
persone, mi aveva imbarazzato a tal punto da non trovare più il
coraggio di
uscire di casa.»
Quelle
parole mi ferirono nel profondo. Ogni lettera era un ricordo a quei
giorni
passati nell’assoluto isolamento, da tutto e da tutti, conscio d’aver
perso la
mia unica occasione per essere felice.
«Immagino
sia stata duva,» sussurrò la donna.
Celeste
annuì ed io mi allungai a stringerle la mano. Sentivo come se ci
stessimo
allontanando, anche se eravamo a pochi centimetri di distanza l’uno
dall’altra.
Quell’esperienza ci avrebbe accompagnati per sempre, ed io sapevo che
anche se
il tempo avrebbe sbiadito il ricordo, le cicatrici sarebbero rimaste.
«Sì,»
annuì Celeste, poi però sorrise. «Però è stato molto più difficile
rimanere
troppo a lungo separati. Per quando sia arduo ammetterlo, non so se
sopravvivrei senza di lui.»
E
quello mi bastò, davvero.
Tutte
le paure volarono via in un attimo, lasciando spazio a un tenero e
sincero
sorriso.
«La
stessa cosa vale per me,» aggiunsi.
La
giornalista sembrò molto soddisfatta di ciò che aveva scritto e dal
modo in cui
ci guardava, sembrava realmente felice.
«E
come la vivi, adesso, la notovietà di Leoravdo?» le chiese.
L’immagine
di noi all’aeroporto di Fiumicino apparve nitida nella mia mente. I
flash
insistenti delle macchine fotografiche, le domande assordanti, gli
strattoni.
Vedevo ancora il viso di Cel impaurito che cercava rifugio tra le mie
braccia.
Fu
lei però a rispondere. «Dovrò abituarmici, sono sincera,» sorrise.
«Credo che
in questo, Leonardo, mi aiuterà.»
«Bene,
cvedo sia tutto! Vi vingvazio molto, davvevo. L’intevvista savà pvonta
tva due
giovni, pev il numevo di Maggio.»
Ci
alzammo in piedi e salutammo sia la donna che il fotografo.
Improvvisamente
mi sentii più leggero, quasi come dopo aver fatto l’esame di maturità.
Finalmente libero.
Una
volta fuori dalla stanza, trovammo Anna e Romeo che ci aspettavano in
fondo al
corridoio.
«Com’è
andata?» domandò Cel.
Notai
che tra quei due s’era creato un silenzio che non prometteva nulla di
buono.
Era come se l’imbarazzo li avesse resi completamente muti.
«Che
è successo?» chiesi subito, intuendo che qualcosa non andava.
Annalisa
fissò Romeo, furente. «Chiedetelo a Mr. Barzelletta vivente!» ringhiò.
«Non ha
fatto altro che intrattenere il giornalista con i suoi aneddoti
scadenti, e lui
non mi ha rivolto nemmeno una domanda!»
Romeo
la sfidò. «Doveva intervistare me, non te. Tu sei già famosa. Questo
articolo è
sulle coppie formate da famosi e non famosi.»
«Okay,
calmatevi. Intanto usciamo,» sentenziò Celeste.
Una
volta in strada, la situazione andò di male in peggio.
Cominciarono
a volare malignità e cattiverie gratuite tra quei due, e non la
finivano di
punzecchiarsi a vicenda. Romeo non era affatto intimidito dalla lingua
velenosa
di Annalisa, forse troppo abituato a ricevere offese da chiunque.
Compresa
l’amica di Celeste, Veneranda.
«Oh!
Taci! Maledetto il giorno in cui mi sono innamorata di te!» ringhiò
Anna.
«Figurati
io! Annalisa di qua, Annalisa dillà, pensi sempre a te stessa!» le
rimbeccò
l’altro.
Io
e Celeste rimanemmo in silenzio, come se fossimo al cinema o a teatro.
«Perché
pagare per uno spettacolo gratuito?» le sussurrai, ridacchiando.
Lei
mi rifilò una gomitata leggera. «Zitto!» Ma la vidi sorridere.
La
verità era che Romeo e Annalisa litigavano sempre
e per qualsiasi stupidaggine. Cominciava con un semplice commento, o
una
battuta, poi finivano a mali parole. Diciamo che io e Cel avevamo fatto
un po’
l’abitudine alle loro liti.
Non
si parlavano per giorni. Staccavano tutti i loro contatti.
Dopodiché,
se non stavi attento, li ritrovavi a rotolarsi tra le lenzuola o
completamente
incollati l’uno all’altro in qualsiasi angolo dell’appartamento dei
Fiore-Ciuccio.
«Cos’hai
consegnato alla giornalista, durante la pausa?» chiesi alla mia
ragazza,
sorvolando sull’argomento del Rosso.
Celeste
sfoderò un sorriso malizioso. «Una sorpresa a cui lavoro da tempo.»
Il
mio pensiero andò subito a quello strano documento che avevo intravisto
sul suo
computer, ma su cui non avevo indagato per rispetto della sua privacy.
Cosa
poteva essere? Le sue memorie?
Le mie prigioni?
Mica
è una galeotta!
Silvio Pellico, Leona’.
«E
non mi puoi anticipare niente, niente?» chiesi, col labbro tremulo.
Lei
si aggrappò al mio braccio come un cucciolo di koala, mentre
attraversavamo le
piccole vie strette del centro di Roma.
«È
una sorpresa,» concluse.
Ed
io mi fidavo abbastanza di lei, da consegnarle tutto ciò che rimaneva
di me
stesso.
Allora!
Premetto che siete autorizzati a lanciarmi addosso
maledizioni/insulti/scarpe puzzolenti e quant'altro perché questo
aggiornamento è imperdonabilmente in ritardo. Purtroppo non avevo
ispirazione, lo ammetto. Per quanto questa storia mi abbia coinvolto
sin dall'inizio, adesso trovo un'immensa difficoltà a concluderla,
forse perché ho paura di distaccarmene, boh. Fatto sta che finalmente
mi sono messa di buona lena a scrivere, e qualcosa ne è uscito fuori!
*3*
Ammetto che Leo mi era mancato troppo. TROPPO.
Con
lui è iniziato tutto e anche se la maggior parte dei miei lettori si è
persa per strada, non fa niente.
Questa
storia MERITA di essere conclusa e ne approfitto per dirvi che mancherà
soltanto l'epilogo alla fine. Cercherò una conclusione degna e già mi
sto adoperando per lasciare avvisi anche nell'altro account (di
_Shantel) in modo che i lettori non si ''perdano'' il seguito di CIUS
sul mio profilo.
Anche
voi, se vi capita, spargete la voce ;3
Detto
ciò, mi rimetto nelle vostre mani.
Un
pensiero sarebbe gradito (anche insulti, anzi INSULTATEMI!)
Baci,
Marty.
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