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Autore: IoNarrante    03/03/2013    6 recensioni
Seguito della storia a quattro mani scritta insieme a _Shantel
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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Capitolo 19
betato da San nes_ssA
Continua ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima,
o almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo
comprenderai non essere la cima.
[Seneca]
 
Gli allenamenti ripresero come ogni altro giorno e la vita, il corso del tempo, le persone attorno a noi si muovevano come se quella routine non fosse mai cambiata.
E non lo era, davvero.
Soltanto io mi rendevo conto ogni mattina, quando scivolavo fuori dal un letto vuoto, ma ancora caldo e mi guardavo allo specchio, che quel ragazzo che mi restituiva lo sguardo al di là del vetro non era più lo stesso di molti mesi prima.
Da quando era iniziata tutta quella storia, ne avevamo passate tante e davvero non avrei mai creduto di poter un giorno dire di essere finalmente cambiato, di aver messo da parte i bagordi e la bella vita di un calciatore ventenne e mettere tutto me stesso nelle mani di qualcun altro.
Di una persona comune.
Ne hai fatta di strada da quando pensavi che perfino le tue mutande sporche valessero oro, mh?
Valevano oro! Ruben ne ha visto il prezzo su e-bay.
Sorrisi a me stesso e vidi la mia immagine riflessa fare lo stesso.
Persino quelle battute squallide non mi divertivano più come prima, si poteva quasi azzardare a dire che Leonardo Sogno, lo stesso che in una notte era volato a Barcellona soltanto per scoparsi una top model, era “maturato” finalmente.
E tutto per merito di un’avventura nata da uno scherzo.
«C-Come v-va?»
Ruben bussò piano e fece capolino all’interno della mia camera. Lo raggiunsi con un asciugamano che mi pendeva dalle spalle, intento ancora a frizionarmi i capelli dopo una doccia.
«Bene, Celeste è uscita?» chiesi tranquillo.
Mi aveva accennato che dopo la vacanza a Londra aveva delle lezioni che avrebbe dovuto necessariamente recuperare, per non parlare del suo lavoro alla gelateria.
Il mio amico annuì. «N-No-Non ho f-fa-f-fatto in t-te-tempo nemmeno a p-pre-prepararle la c-co-col-lacolazione!» s’impuntò.
Sorrisi.
Ovviamente non mi stavo burlando della sua balbuzie, solo che mi faceva sempre divertire il fatto di vederlo così  incespicante su certi argomenti, mentre su altri riusciva a districarsi perfettamente tirando fuori vocaboli di cui non sapevo nemmeno il significato.
Cosa che non mi sorprende affatto.
Taci.
Era da un po’ di tempo a quella parte che la voce del mio “Ego” era stata lentamente spodestata da una qualche specie di coscienza che aveva il tono e le sembianze della Celeste armata di dito pungolatore.
Praticamente un incubo!
«Non preoccuparti, tanto c’è la mensa in facoltà,» gli risposi tranquillamente.
Iniziai a vestirmi, nonostante Ruben fosse ancora nella mia stanza, forse in attesa di qualcosa. Afferrai la tuta della magica e comincia a infilarci una gamba.
«Vuoi chiedermi dell’altro, Rub?»
Lui si sfregò nervosamente le mani una con l’altra. «B-Beh…» annaspò. «M-Mi ha t-te-telefonato la “Rolling Stones Italia”,» il nome, ovviamente, lo pronunciò senza intoppi. «E m-mi ha ch-chi-chiesto s-se s-se-sei d-disponibile p-per un’intervista.»
Lo fissai intensamente. Non capivo cosa ci fosse di tanto strano in quello che doveva comunicarmi, in fondo non era né la prima né l’ultima volta che avrei rilasciato un’intervista nella mia vita.
Ero pure sempre Leonardo Sogno, cazzo.
Sì, ogni tanto il mio Ego tornava a fare capolino spodestando la piccola Celeste che viveva ormai fissa dentro di me.
«Va bene, la farò,» dissi tranquillo.
Lui però non si mosse dalla soglia. «C’è d-dell’a-altro…» balbettò, nervoso.
«Mh?»
Potevo capire che fosse importante la cosa che stava per dirmi, ma se avesse temporeggiato qualche altro minuto, avrei fatto ritardo agli allenamenti. Di nuovo.
Ruben deglutì a fatica, così decisi di venirgli incontro.
«Bello, senti,» mormorai, alzandomi e posandogli una mano sulla spalla. «Puoi dirmi qualunque cosa, tranquillo. Vogliono farmi delle foto nudo? Devo posare per un sexy-calendario? Ne parlerò con Celeste, e stai tranquillo che vorrà la prima foto autografata,» sghignazzai.
Lo vidi arrossire. «M-Magari si tr-trattasse di q-quello…»
Okay. Adesso stava davvero cominciando a spaventarmi.
Cosa c’era di peggio di convincere Cel a vedere il mio pistolino sui cartelloni pubblicitari e appeso ad ogni edicola della città?
«Sputa il rospo, Ruben.»
Lui alzò timidamente lo sguardo su di me. «V-Vogliono i-in-inter-intervistarvi i-ins-insieme… t-tu e C-Ce-Celeste…»
«Cosa?»
Ora ero davvero fottuto.
«L’a-articolo d-dov-dovrebbe chi-chiamarsi “L’a-altra m-me-metà de-della f-fama” e v-vo-vogliono f-fa-fare d-de-delle d-do-domande alle f-fi-fidanzate e a-ai fi-fidanzati d-de-delle persone f-famose.»
Guardai il mio migliore amico come se da un momento all’altro il boia avrebbe chiamato il mio nome per una decapitazione in pubblico.
Scossi la testa. «Non accetterà mai.»
«M-Ma-Magari s-se glielo c-chie-chiedi c-con g-ge-gentilezza… p-potrebbe p-po-portare m-molta pub-pubblicità q-questo a-ar-art-articolo…» insistette.
Alzai le mani in segno di resa.
A Londra si era respirato un clima più mite per quanto riguardava i fans, i giornalisti e i paparazzi, ma l’esperienza di Fiumicino Celeste non l’aveva mai digerita.
Anche se aveva ammesso che non era stato nulla, che l’aveva superata, per lei quel mondo era del tutto nuovo ed io avevo il dovere di proteggerla. Anche a costo di rinunciare ad un po’ di notorietà.
Ti stai sentendo? Non ti riconosco più, bello.
Taci tu! Fa bene, Celeste viene prima di tutto!
Chiudi il becco, gallina!
Chiudilo tu, ritardato!
Cercai di spegnere le voci nella mia testa e pensare ad una soluzione concreta. Cercare di convincere Celeste era fuori discussione, di sicuro avrebbe tirato fuori argomenti come “cosa vuoi che gli dica? Che sei un demente ritardato?” oppure, nell’ipotesi peggiore, “E se ci fanno domande su come è cominciata? Dico loro che mi hai rifilato la balla di essere un fioraio e io, come una cretina, ci ho pure creduto?”
Okay, di male in peggio.
«Credo che dovremmo rinunciare, Ruben,» asserii mogio.
Lui annuì. Evidentemente aveva fatto gli stessi miei conti. «V-Va b-bene. Li a-avverto.» E lasciò la stanza.
Libero finalmente di vestirmi, mi avvicinai alla scrivania dove la mia ragazza aveva lasciato acceso il suo laptop. Mossi curioso il mouse, giusto per controllare le previsioni del tempo, ma la prima schermata che si accese fu quella di un foglio di scrittura.
Era da un po’ di tempo, in effetti, che la vedevo indaffarata a picchiettare giorno e notte le dita sui tasti, ma avevo sempre pensato che si trattasse di cose universitarie. Dalle citazioni presenti nel foglio e dai discorsi diretti racchiusi nelle virgolette, riconobbi che quello non era un saggio bensì qualcosa scritto da lei.
Sembra un libro.
Eureka! Ci sei arrivato prima o dopo aver letto “capitolo 18”?
Dovevo ricordare al mio Ego di liberarsi il più presto possibile di quest’altro lato della mia coscienza che si era insinuato nella mia mente.
Ora avrei dovuto davvero chiudere lo schermo. Dovevo.
Il vecchio Leonardo avrebbe curiosato tutto il resto della mattina, arrivando pure in ritardo agli allenamenti facendo incazzare il mister a morte e si sarebbe anche fatto beccare da Celeste, che magari aveva notato qualcosa di diverso nel suo computer.
Presi un bel respiro e rimisi il pc in stand-by.
Da tutta quella storia avevo imparato almeno un paio di cose: non far incazzare mai né Celeste, né il Mister perché la prima mi avrebbe mandato in bianco per il prossimo mese e mezzo, lasciandomi sfogare con Ludovica (la mano amica), e il secondo se la sarebbe legata al dito finendo per relegarmi in panchina o facendomi fare una cinquantina di giri di campo.
«Ruben, io vado!» E detto ciò mi fiondai giù per le scale diretto a Trigoria.
 
***
 
La lezione del professor Porelli era talmente lenta e prolissa che ero stata costretta a posare il mento sulla mano per non lasciar ciondolare la testa nel vuoto.
L’idea di tenere le palpebre aperte con il nastro adesivo – cosa che Robbeo aveva fatto sul serio – non sembrava poi una cattiva idea ora come ora, dopo che mi ero ridotta a darmi i pizzicotti di nascosto pur di non dormire in classe.
Il resto del corpo studentesco era ormai nel mondo dei sogni.
Gli studenti seduti in fondo all’aula si erano direttamente sbracati sui sedili, utilizzando i cappotti come cuscini e calandosi gli occhiali da sole sul viso. Quelli seduti nel mezzo erano ricorsi a tecniche avanzate di camuffamento, in modo da non destare sospetti in Maria-Ernesto Porelli, professore di Lettere Antiche.
«Non ho scritto una riga da quando siamo entrati,» mi confessò Romeo.
Vederlo con lo scotch che gli tirava le palpebre albine fino alla fronte lo faceva assomigliare ad una specie di orribile fenomeno da baraccone.
Per dirla alla “Leonardo”: è un cesso a pedali.
Posai lo sguardo sul mio blocco degli appunti. Immacolato proprio come quando lo avevo acquistato dalla cartoleria lì di fronte.
Sbuffai infastidita. Non era da me boicottare una lezione in quel modo, solo che non facevo altro che pensare al romanzo. Mancava poco alla conclusione ma dovevo trovare un finale degno di essere chiamato tale e non la solita cavolata di due righe, contenente una morale squallida e inverosimile.
Romeo sbadigliò, in modo da farmi contare almeno quattro carie all’interno della sua bocca.
«Senti,» mi disse dopo poco. Uno “SHHHH” sonoro si levò da metà fila, verso la nostra direzione ed io sussultai sulla sedia.
Marika Ventimiglia, la secchiona che sedeva quasi in bocca al professore, ci fissava entrambi come se volesse privarci della testa utilizzando uno spadone affilato come in uno di quei romanzi fantasy.
Romeo le mostrò il dito medio e lei si inacidì maggiormente. Il mio migliore amico tornò a sorridermi tutto gongolante. «Ha una cotta per me,» disse sicuro, ed io ci credei davvero poco.
«Stavi dicendo?» lo incalzai.
Odiavo quando la gente lasciava i discorsi a metà, soprattutto quando non avevo voglia di ascoltare il Porelli che continuava a spiegare con una flemma che avrebbe fatto suicidare persino Socrate.
«Dunque.» Romeo si accorse ben presto di non poter sbattere le palpebre a causa del nastro adesivo e i suoi occhi stavano diventando rossi. Sembrava come indemoniato. Mentre parlava cominciò a staccarsi lo scotch e a sibilare dal dolore.
Era proprio un babbeo.
«Annalisa mi ha chiesto-ahi!» bofonchiò. «Se una sera di queste-porcaputtana! Usciamo tutti e quattro insieme, visto che ormai-cazzo! Siamo ufficialmente due coppie…»
Premesso che ancora stentavo a fidarmi della rossa, l’idea di andare in uno di quei ristoranti a cui era abituata mi metteva ancora più in agitazione della presenza dell’ex-psicopatica del mio attuale fidanzato.
«Non credo che Leo voglia…» mentii.
La comodità di avere qualcuno con cui condividere la propria vita era che finalmente potevo smollargli anche metà della colpa.
«Ha già confermato, gli ho telefonato prima,» gongolò Robbeo.
Purtroppo avere un fidanzato calciatore, che è l’idolo del tuo migliore amico-nerd non giova affatto.
Romeo mi afferrò il braccio entusiasmato. «Eddai! Chissà quando ci ricapita l’occasione di rimpinzarci in uno di quei ristoranti gné-gné dove ti portano delle mini-porzioni e te le fanno pagare cinquanta euro l’una!»
«E tu come farai a pagare il conto?» gli chiesi, con ovvietà.
Anche se mi reputavo una donna indipendente, sapevo che il mio stipendio da Bombolo non avrebbe mai coperto le spese di uno di quei ristoranti di lusso, o almeno sarebbe bastato per il primo piatto.
Romeo era persino messo peggio di me.
A quel punto lo vidi arrossire. «Il signor Cavalli mi ha fatto ottenere un lavoretto nella sua società,» smozzicò. «Non è un posto di rilievo, ma guadagno abbastanza bene e posso pagarmi anche al retta all’università.»
Rimasi di sasso. L’idea che anche Romeo-babbeo potesse essersi finalmente responsabilizzato mi metteva in una posizione di disagio. Era come se io stessa non riuscissi a migliorare, a crescere…
Forse perché eri già “grande” prima.
«Che ne dici? E poi bisogna festeggiare!» trillò estasiato.
Lo guardai sospettosa. «Che cosa, esattamente?»
Roteò gli occhi al cielo, infastidito forse dalla mia ingenuità. «L’intervista, no? Non hai saputo?»
«Quale intervista?»
Pensai immediatamente che quel demente di Leonardo mi avesse tenuto nascosta l’ennesima  notizia, come se non fossero bastate tutte le bugie del passato.
«Cadi proprio dalle nuvole a volte,» borbottò. «La rivista Rolling Stones Italia sta cercando dei personaggi famosi che escono con persone “normali”, come noi. Intervisteranno Annalisa e quindi hanno invitato anche me! Non trovi che sia stupendo?»
Sorrisi. Alla fine non si era trattato di una bugia da parte di Leo, e quella era la cosa che mi sollevava di più in tutta quella faccenda.
Poi però mi ritrovai a riflettere.
«Meraviglioso…» commentai.
Strano che non lo hanno chiesto anche al tuo boy-friend, no?
«…ma?» tentai di aggiungere, poi preferii tacere. Se non lo avevano chiesto a Leonardo, un motivo c’era. Meglio così. Non ero poi tanto sicura di riuscire ad affrontare un’intervista a cuore aperto dopo che la nostra relazione si teneva in piedi su dei pioli traballanti.
Romeo, però, fu più veloce di me. «Se ti stai chiedendo il perché non ci siete anche tu e Leo, ebbene lui ha rifiutato l’intervista,» gongolò.
Stranamente non mi sentii sollevata, anzi.
Riflettendo, avevo già messo in tavola dei pro e dei contro a tutta quella faccenda, ma il fatto che Leonardo avesse preso una decisione che riguardava entrambi senza prima consultarmi, mi lasciò di stucco.
D’accordo che a me poco importava. Un’intervista non mi avrebbe di certo cambiato la vita, anzi, mi avrebbe messo al centro dell’attenzione dei riflettori, mi avrebbe fatta uscire allo scoperto ed io ero segretamente terrorizzata da questa cosa.
Seguivo i programmi in tv e leggevo le riviste di gossip, o almeno quelle che Anna lasciava in giro per casa quando dormiva da Romeo.
«E perché?» chiesi, quasi senza volerlo.
Romeo scrollò le spalle. «Anna ha telefonato a Ruben e lui le ha solo detto che non ci sarete per l’intervista. Non ha detto altro.»
Sentii la rabbia montarmi dentro.
Punto primo, stavo perdendo un mucchio di tempo cercando di decifrare ciò che quella mummia del Porelli stava scrivendo sulla lavagna a ritmo di una lumaca con l’artrosi; punto secondo, Leonardo mi avrebbe ascoltata per bene una volta rientrato dagli allenamenti.
«Sembra che i tuoi occhi sputino fuoco e fiamme…» osservò il mio migliore amico. «Deduco che la cena questa sera è rimandata?»
Un ringhio basso fuoriuscì dalla mia gola e quello bastò a zittire Romeo per il resto della giornata.
 
Ero rimasta tutto il pomeriggio nel salotto dell’appartamento di Leonardo e Ruben, con il televisore spento e una pila di libri da leggere. Dovevo recuperare una decina di letture, ma con quella frustrazione che avevo dentro mi ritrovavo a leggere la stessa riga una ventina di volte.
Dio, se mi sente quando torna!
Questo era il pensiero che più o meno si materializzava ogni quarto d’ora nella mia mente, spodestando gli scritti De Maupassant e Hugo.
Controllavo con ossessione l’orologio del soggiorno, così come la porta dell’ingresso.
Erano le 17.15 del pomeriggio e la luce del giorno cominciava a svanire dalla finestra, così accesi una piccola lampada vicino al divano. Rimasi assorta nel leggere le disavventure di Fantine e di Jean Vanjean tanto da non accorgermi della chiave che di punto in bianco girò nella toppa.
«Ehi!» mi salutò Leonardo sorridente, togliendosi sciarpa e cappotto.
Anche se lo avevo aspettato tutto il pomeriggio col solo intento di farmi una sana litigata, lo ignorai. Doveva capire da solo il motivo per cui mi ero inviperita in quel modo.
Si avvicinò cercando i miei occhi, ma gli sfuggii.
«Si può sapere cos’hai?» chiese, sedendosi sul bracciolo del divano in pelle. Dopo qualche minuto del mio eterno silenzio, sospirò. «Ho forse fatto qualcosa di sbagliato?»
Deo gratias, ci era arrivato!
«Tu che dici, mh?» sibilai, acida. Lanciai il libro dei Miserabili sul tavolinetto da caffè, senza curarmi nemmeno di dove fosse finito.
Leonardo assunse quell’espressione da cucciolo bastonato che non capiva affatto cosa avesse fatto di così erroneo. Si grattò la testa confuso.
Gli occhi verdi spalancati e spaesati mi fecero quasi desistere dall’essere così stronza.
Quasi.
«Una certa intervista non ti dice nulla?» gli ricordai, alzandomi in piedi e puntellando le mani sui fianchi. Trattenevo a stento il piede che, di sua iniziativa, cominciava a picchiettare il pavimento.
Leonardo sgranò gli occhi. «Da chi…?» tentò di chiedere, ma lo bloccai.
«Non è importante da chi l’ho saputo, il punto è: per quale motivo non ne hai parlato con me prima di rifiutare di netto? Non conto niente?» sputai fuori.
Okay, forse era una reazione esagerata per una cosa tanto futile, ma dovevamo lavorare su questa relazione ora che eravamo agli inizi. Non ci tenevo a subire per anni e poi esplodere come una pazza isterica chiedendo il divorzio o chissà cosa.
Il calciatore si portò una mano dietro la nuca, nervoso. «Ho pensato di fare la cosa giusta, sai…»  Gesticolò. «Mi sono chiesto quali domande avrebbero potuto farti, e la maggior parte erano imbarazzanti.»
«Del tipo?» lo esortai, sfinita.
Leonardo sospirò, affranto. Il suo comportamento riconobbi era diverso dal solito, come se effettivamente avesse messo me al primo posto, piuttosto che pensare al suo di tornaconto.
«E se ti domandassero dove ci siamo conosciuti? Come è iniziata la nostra storia? Tu cosa risponderesti?» gridò di punto in bianco, facendomi sussultare. «So perfettamente che è colpa mia tutto questo, il fatto che tu non possa nemmeno vantarti di avere un fidanzato famoso senza poter raccontare la parte in cui io ti ho presa in giro tutto quel tempo… mi dispiace.»
Le braccia mi caddero lungo i fianchi, inerti.
Non riuscivo nemmeno a parlare, a muovere le labbra, perché tutto ciò che mi aveva rivoltato in faccia corrispondeva all’esatta realtà dei fatti. Forse ero stata troppo precipitosa, magari l’idea che mi avesse data per scontata mi aveva accecata verso le reali motivazioni di quella decisione, e, infatti, mi sentivo una sciocca.
Dopo qualche minuto cercai i suoi occhi verdi. «Mi dispiace,» dissi, e mi fiondai tra le sue braccia. Leonardo mi accolse senza dire nulla, mi strinse a sé forte, tanto che sentii il suo cuore battere attraverso la tuta. «Scusami, hai fatto bene. Hai ragione, sono stata una stupida ad urlarti contro solo che…» smozzicai, confusa e imbarazzata.
Lui mi accarezzò i capelli. «Pensavi che ti avessi messa da parte?» ipotizzò con un sorriso.
Alzai il capo e incrociai il suo meraviglioso sguardo e annuii. Si chinò a baciarmi ed io accolsi le sue labbra senza tirarmi indietro, cercando un maggior contatto. Mi alzai in punta di piedi ed allacciai le braccia dietro la sua nuca, mentre lui mi strinse i fianchi.
Ci separammo dopo poco, fronte contro fronte. «Non voglio più metterti in imbarazzo,» mi confessò triste.
Mandai giù un grosso groppo di tristezza che si era formato attorno alla gola. «Tu non mi metti mai in imbarazzo, non più,» affermai sicura.
Rimanemmo a guardarci l’un l’altro, mentre il sole calava all’orizzonte e la stanza si faceva sempre più buia, avvolta nel mantello della notte.
«Davvero,» disse, scostandosi lievemente. «Preferisco evitare tutte le feste mondane e i luoghi pubblici se questo ti da fastidio. Eviterò anche le intervis-…»
Gli misi un dito sulle labbra, zittendolo.
Era sufficiente, davvero. Quella sua rinuncia dimostrava una maturità che sicuramente aveva acquisito col tempo, e magari forse era un po’ mio il merito. Avevo conosciuto un ragazzo egoista, pieno di sé, borioso, a cui non importava nulla del prossimo. La persona che avevo davanti agli occhi aveva soltanto l’aspetto di quel ragazzo di un tempo.
Del Leonardo Sogno tutto calcio e successo c’era rimasto ben poco.
Inseguiva ancora la sua fama, l’amore per quel pallone che io ancora non condividevo appieno, ma nel suo cuore adesso c’era spazio anche per me. Ed era una cosa molto dolce a cui pensare.
«Non dirlo,» gli sussurrai e lo baciai di nuovo. «Come tu non vuoi farmi del male o ferirmi, io non ho alcuna intenzione di tarparti le ali, di mettere fine alla tua carriera obbligandoti a stare con me e alle mie regole. L’amore è dare e ricevere, e adesso è venuto il mio turno di dare
Per un attimo il vecchio Leo fece capolino su quel viso giovane, sfoderando un sorriso malizioso.
Ridacchiai a mia volta. «Non intendevo quello!» gridai, fingendomi arrabbiata.
Dopo poco tornai seria. «Credo che stasera io e te dovremmo farci un giretto in uno dei ristoranti del centro, che ne dici? Magari chiamiamo anche Annalisa e Robbeo.»
La feci sembrare una mia idea, ma gli avevo solo riferito ciò che il mio migliore amico mi aveva proposto.
Il calciatore arcuò un sopracciglio, sospettoso. «Sicura? Sai che il centro è pieno di turisti e che di sicuro assalteranno il nostro tavolo per degli autografi…» mi avvertì.
Un momento di puro panico attraversò il mio corpo, ma lo ricacciai indietro. «Dovrò abituarmici prima o poi, giusto? Non possiamo nasconderci per sempre.»
Leonardo sembrò essersi tolto un enorme peso dal cuore ed io gli afferrai la mano, per poi dirigermi verso la sua stanza.
«E questo sarebbe il premio per cosa?» chiese, inseguendomi.
Mi voltai appena e gli sorrisi. «È per me il premio, caro. Visto che mi sono sorbita due ore del Porelli tenendo a stento gli occhi aperti.»
Lui allora mi afferrò per i fianchi e mi sollevò come se pesassi meno di una piuma. Gli cinsi la vita con le gambe e affondai il viso nell’incavo del suo collo, inspirando il profumo del bagnoschiuma. Leonardo odorava sempre di pulito, come se i suoi vestiti fossero stati appena lavati, nonostante si fosse allenato giù a Trigoria.
Entrammo nella sua stanza e lui si chiuse la porta alle spalle.
«Aspetta,» dissi solo, e Leo mi fece scendere dal suo abbraccio. Mi mordicchiai nervosamente le labbra, forse ancora indecisa su quello che stavo per dire.
Fu allora che Leo mi afferrò il viso e mi costrinse a guardarlo. «Niente segreti, ricordi?» disse ed io lo amai, forse un po’ più di prima.
Così presi coraggio. «È troppo tardi per quell’intervista?» chiesi e gli occhi verdi del mio fidanzato si spalancarono.
Sorrise, un po’ incerto. «Ne sei sicura?» indagò.
Presi un bel respiro e annuii con convinzione. «Credo di avere delle cose da chiarire ed altre di cui devo assolutamente parlare,» aggiunsi.
Leonardo allora afferrò il cellulare e digitò un numero. Al terzo squillo qualcuno rispose.
«Ruben? Dì a quelli del Rolling Stones che io e Cel ci stiamo.»
Dopo si chino a baciarmi, ancora e ancora.
 
***
 
I giornalisti del “Rolling Stone Italia” ci accolsero in un lussuoso attico al centro della città, in una delle traverse di Via del Corso. Dapprima avevo pensato si trovasse lì anche la sede della rivista stessa, ma Ruben mi aveva detto che loro preferivano mettere i propri ospiti a loro agio e cercare un ambiente confortevole in cui parlare.
«Sono E.M.O.Z.I.O.N.A.T.O.,» trillò per la quarta volta Romeo, lisciandosi i capelli fulvi tutti impomatati all’indietro.
Annalisa non la finiva di sorridergli come un’ebete e da quando si era riscoperta innamorata del ragazzo, non si accorgeva neppure di come lo lasciasse andare in giro: camicia bianca infilata in dei pantaloni eleganti di due taglie più grandi della sua, tenute su da bretelle di dubbio gusto e provenienza.
Celeste camminava al mio fianco, radiosa come un raggio di sole del primo mattino.
«Come ti senti?» le chiesi preoccupato.
L’idea che qualche giornalista potesse metterla sotto pressione con delle domande inopportune mi terrorizzava, soprattutto perché io ci ero passato e sapevo quanto quelle persone potessero essere invadenti.
Lei mi afferrò la mano e la strinse. «Tutto okay,» mi rassicurò.
Entrammo nell’edificio all’apparenza vecchissimo, uno di quei classici palazzoni anneriti dallo smog che erano situati al centro della città, ma il suo interno era tutto rimodernato. All’ingresso ci attendeva il portiere, che subito prese i nostri cappotti e ci fece strada verso uno degli ascensori.
Celeste aveva insistito per portare con sé un plico di documenti, che teneva ben riposti in un’enorme borsa.
«Che c’è lì dentro?» le chiese subito Anna, curiosa.
Ovviamente io non avevo osato chiedere, altrimenti le sue ire si sarebbero abbattute su di me e preferivo evitare.
Cel la fulminò. «Cose,» tagliò corto.
Anna non sembrava molto soddisfatta della risposta, ma il tintinnio del campanello la distrasse. L’ascensore era finalmente arrivato, così tutti e quattro montammo in quello stretto abitacolo per digitare poi l’ultimo piano.
«Almeno questo trabiccolo non è come l’ascensore di casa vostra,» ridacchiai.
Annalisa si unì subito. «Credo che quell’affare sia lì dalla guerra di secessione, o forse prima!» gongolò.
«Ah! Ah! Ah!» tuonò Celeste. «Scusate se non possiamo permetterci un lussuoso appartamento come questo, posto al centro cittadino. Purtroppo io e Robbeo ci manteniamo da soli, nonostante tutto.»
Passò un attimo di silenzio nel quale pensai avessi peggiorato di gran lunga la situazione.
Guai in arrivo.
«Però ammettilo, Cel. Quell’affare è un pericolo pubblico!» commentò Robbeo, e fu allora che anche Celeste ridacchiò.
L’ascensore giunse all’attico e non appena scendemmo una giovane donna ci accolse con sorrisi e benvenuti, conducendoci verso l’interno dell’appartamento.
«Da questa parte signori, prego, accomodatevi,» disse educatamente. «Io sono Rebecca e mi occupo degli appuntamento coi giornalisti. Voi siete…?» e il suo sguardo si posò con insistenza sull’aspetto bizzarro di Romeo.
Lui allungò subito la sua pallida e lentigginosa mano, passandosi l’altra tra i capelli impomatati. «Io mi chiamo Ciuccio…» sorrise, maliziosamente. «Romeo Ciuccio.»
La signorina ignorò palesemente la mano, alquanto sudaticcia.
«Leonardo Sogno, piacere,» dissi, imitando Robbeo.
«Mr. Sogno, lei e la signorina dovete entrare nella stanza in fondo al corridoio, per l’intervista. La ringraziamo anticipatamente per questo enorme favore che ha fatto alla rivista.»
La interruppi subito. «È stato merito della mia ragazza,» mi sentii in dovere di dire, posandole una mano sul fianco.
Celeste mi sorrise, un po’ imbarazzata.
«Da questa parte, signori,» disse, rivoltasi ad Anna e Romeo-babbeo. Loro furono condotti in un’altra saletta, sempre con la porta sigillata.
Mentre li vedevo andarsene, mi domandai quali genere di domande avrebbero potuto fare alla Cavalli e un po’ mi preoccupai per lei. Di certo, io sarei stato quello più esposto in tutta questa faccenda ma vederla così tranquilla mi spaventava.
Visto e considerato che fino a nemmeno un mese prima aveva tentato più volte di sabotare la mia storia con Celeste per i suoi secondi fini. Adesso faceva la fidanzata perfetta, e sinceramente era inquietante.
«Che hai?» mi domandò Cel, vedendomi assorto.
Le strinsi la mano. «Nulla d’importante.»
Lei puntò quelle sue iridi cristalline e stirò le labbra. Niente più segreti.
Sospirai sconfitto. «Mi chiedevo cosa racconterà Anna ai giornalisti,» le spiegai, mentre ci incamminavamo verso la nostra sala delle interviste.
«Sei preoccupato che possa mettere in imbarazzo Romeo?» domandò, acuta come sempre.
Annuii. «Lo sai, Anna non è dotata di molto tatto, soprattutto quando si parla della sua vita privata. Non vorrei che si lasciasse sfuggire delle cose spiacevoli…»
Celeste sembrò pensarci su. «Certo, dovresti considerare anche il contrario. Hai visto come si è vestito Robbeo, vero?»
Come avrei potuto non notarlo?
«Dici che quei due si completano a vicenda, mh?»
Lei mi sorrise, poi d’impatto ci fermammo entrambi davanti alla porta di legno laccato bianco. Per la prima volta in tutta la mia vita, ero nervoso per un’intervista.
Non mi era mai capitato, anzi. Adoravo quando i giornalisti mi facevano domande su me stesso, sulla mia fantastica vita da calciatore, sulle innumerevoli love stories e sulla mia fama. Parlare di Leonardo Sogno era il mio argomento preferito da un po’ di anni a quella parte.
Adesso invece sarei volentieri fuggito da lì.
«Siamo ancora in tempo per rinunciare,» le dissi, cercando di bloccare la voce che mi tremava.
Sei Leonardo Sogno, dannazione. Ricordatelo!
Celeste allora si passò il plico di fogli che aveva sotto braccio, nell’altra mano. Poi mi strinse a sé. Forte.
«Lo voglio fare,» ripeté decisa. «Per noi.»
Annuii e presi più coraggio. La verità era che la nostra relazione era ancora in bilico su una sottilissima lama di rasoio, pronta ad essere spazzata da un lato o dall’altro della lama. Era così fragile da essere spezzata, ed io ormai avevo il terrore.
Dopo ciò che eravamo riusciti a recuperare a Londra, l’idea di perderla ancora mi avrebbe distrutto.
Entrammo nel salottino arredato moderno, dove c’erano un divano e due poltroncine al centro di un grande tappeto di pelo bianco.
Una donna si alzò e venne ad accoglierci, raggiante.
Aveva l’aspetto di una ventenne intrappolata in un corpo di quaranta. A giudicare dalle extension e dal trucco pesante che aveva in volto, assomigliava a una protagonista di Desperate Housewives.
«Ma benvenuti, mie tesovi!» trillò, abbracciandoci come se fossimo i suoi figli dispersi.
«Salve,» la salutò cordialmente Celeste, io mi limitai a grugnire qualcosa.
«Pvego, accomodatevi puve!» ci disse, pronunciando quelle “evve” in un modo talmente fastidioso che avrei lasciato il palazzo pur di non sentirla più parlare.
Consideralo un handicap, come la balbuzie di Ruben.
Il problema che quella donna era un Ruben cinquantenne truccato malamente.
«Lui e Paolo, vi favà delle fotogvafie duvante l’intevvista,» ci spiegò, presentando il fotografo che ci fissava come se anche a lui sarebbe spettato il patibolo.
«Vi ringrazio infinitamente per questa opportunità,» disse subito Celeste, sorprendendomi. «Per me e per Leonardo significa molto.»
«Già… uhm, grazie,» aggiunsi.
Non era proprio mia abitudine ringraziare, semmai era il contrario. Essere famosi comportava anche il sapersi districare tra le numerose offerte pubblicitarie che mi venivano sottoposte, e quando più di un giornale si contendeva una mia esclusiva, ero sempre stato del parere che i ringraziamenti mi erano dovuti.
Celeste, invece, riusciva sempre a cambiare ogni mio punto di vista.
«Che cava vagazza!» disse estasiata l’anziana giornalista. «Sei pvopvio fovtunato, vagazzo mio!» E mi strizzò l’occhiolino molto più maliziosamente di quanto mi sarei aspettato.
Vade retro, Satana!
In risposta, stiracchiai un mezzo sorriso e cercai, scivolando sul divano, di incollarmi al corpo di Celeste per sopprimere le avances di quella specie di megera.
«Dunque, divei di cominciave,» sospirò, tirando fuori un registratore e un taccuino dove si era annotata alcune domande. «Sapete che l’intevvista pavlevà delle stovie d’amove tra una pevsona famosa e l’altva ovdinavia, quindi, io pavtivei divettamente dal pvincipio.»
La mazzata stava arrivando.
«Cava Celeste,» le sorrise come una madre orgogliosa fa con un figlio. «Come vi siete conosciuti?»
Cercai gli occhi della mia ragazza per paura di leggervi dentro uno stato d’ansia, lo stesso che mi stava attorcigliando le budella. Era stato difficile per lei, nell’intimo, digerire la storia delle cazzate che avevo sparato per piacerle, e adesso era costretta a raccontare quell’idiozia a mezzo mondo.
Le strinsi la mano, forte. Lei ricambiò la stretta.
«Dunque, devo ammettere che io di calcio non ne capisco molto, anzi, devo dire che sono proprio ignorante in materia,» ridacchiò. «Quindi puoi immaginarti che appena mi sono trovata Leo davanti, nemmeno sapevo chi fosse.»
L’ironia e le battute con cui Celeste riusciva a mantenere sul “leggero” quelle confessioni, piacque molto alla giornalista. Lei e il fotografo cominciarono a ridacchiare, ed erano entusiasti di tutta la storia della motocicletta, della pozzanghera e del fatto che mi fossi inventato un nome fittizio per nascondere la mia identità.
«Quindi, campione,» disse la signora, al sottoscritto. «La vostva stovia è nata pev un piccolo malinteso che poi è sfociato in qualcosa di più ingavbugliato?» e scrisse.
Scrisse e annotò, tutto il tempo.
I flash del fotografo e il “click” della macchina fotografica mi innervosivano.
Ero io quello che si doveva comportare con naturalezza, quello abituato agli autografi, alle domande e a fare i conti con la propria vita spiattellata sulla copertina di un giornale. Invece, in quel momento, era Celeste ad essere tranquilla.
«Sì,» risposi titubante. «Diciamo che all’inizio era soltanto un gioco.»
Misurai bene le parole. Non avevo pensato a cosa avrei potuto dire, magari utilizzando un termine sbagliato avrei potuto mettere fine alla mia storia con Cel.
La giornalista annuì e scrisse.
«Sai, era la prima volta che qualcuno non mi riconosceva. Non mi era mai capitato prima, così presi la palla al balzo e inventai tutta un’identità falsa per potermi godere un po’ di “anonimato”.»
Dal modo in cui picchiettava la penna sul taccuino, sembrava avesse trovato la storia del secolo.
«E tu, cava, non ti sei accovta di nulla?»
Celeste scosse la testa. «Come ho detto, non conoscevo chi fosse questo Leonardo Sogno, ma dall'inizio capii si trattasse di un ragazzo vanitoso e pieno di sé, uno di quei tipi che solevo evitare da sempre. Il fatto è che giorno dopo giorno, me lo trovai sempre tra i piedi e in un modo o nell’altro riusciva a sorprendermi e a rendere le mie giornate meno noiose.» Si portò le mani al volto, ridendo. «Non so spiegarmi bene.»
La donna le prese una delle mani tra le sue. «Oh no, tesovo! Ti spieghi benissimo!»
Udire di nuovo la versione dei fatti dalle labbra di Celeste mi fece sentire strano. Avevamo chiarito i nostri problemi, certo, ma non avevo mai sentito la sua di storia.
«Che identità hai utilizzato, Leonavdo?» mi chiese.
LeonaRdo, avrei voluto risponderle.
«Ho utilizzato il nome del mio manager, Ruben. Poi mi sono inventato una professione normale, come fioraio, nel negozio di mia nonna Annunziata,» spiegai.
«Oh! Davvevo intevessante!» trillò, scrivendo come una forsennata.
Andammo avanti a raccontare, a turno, le nostre storie, intrecciandole opportunamente l’una con l’altra e cercando di rispondere anche ad alcune domande imbarazzanti.
Per fortuna, sorvolammo su ciò che era successo alla festa di Annalisa e tutte le altre occasioni in cui la nostra passione era sfociata in tempi e luoghi poco opportuni.
Trascorsero quasi tre ore, ma facemmo due o più pause. Per fortuna un buffet abbondante mi distrasse dal nervosismo di quell’intervista, che però non aveva contribuito a chiudermi lo stomaco.
Anzi.
«Guarda che poi non ceni,» mi ammonì Celeste, vedendo quanto mangiavo.
La zitti con un cenno della mano. «’O dici te!» la rassicurai.
Vidi con la coda dell’occhio che la mia ragazza si appartava con la giornalista, mostrandole il plico di fogli che aveva stretto a sé tutto il tempo. Avevo tentato più volte di sbirciare, ma lo sguardo gelido di Celeste mi aveva rimesso in riga.
«Quindi, Londva è stata un’isola di salvezza pev la vostva stovia?» chiese, concludendo.
Celeste annuì. «All’inizio ero restia a partire, ancora non mi fidavo di Leonardo. Il fatto di aver scoperto la sua menzogna alla festa di J, davanti a tutte quelle persone, mi aveva imbarazzato a tal punto da non trovare più il coraggio di uscire di casa.»
Quelle parole mi ferirono nel profondo. Ogni lettera era un ricordo a quei giorni passati nell’assoluto isolamento, da tutto e da tutti, conscio d’aver perso la mia unica occasione per essere felice.
«Immagino sia stata duva,» sussurrò la donna.
Celeste annuì ed io mi allungai a stringerle la mano. Sentivo come se ci stessimo allontanando, anche se eravamo a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altra. Quell’esperienza ci avrebbe accompagnati per sempre, ed io sapevo che anche se il tempo avrebbe sbiadito il ricordo, le cicatrici sarebbero rimaste.
«Sì,» annuì Celeste, poi però sorrise. «Però è stato molto più difficile rimanere troppo a lungo separati. Per quando sia arduo ammetterlo, non so se sopravvivrei senza di lui.»
E quello mi bastò, davvero.
Tutte le paure volarono via in un attimo, lasciando spazio a un tenero e sincero sorriso.
«La stessa cosa vale per me,» aggiunsi.
La giornalista sembrò molto soddisfatta di ciò che aveva scritto e dal modo in cui ci guardava, sembrava realmente felice.
«E come la vivi, adesso, la notovietà di Leoravdo?» le chiese.
L’immagine di noi all’aeroporto di Fiumicino apparve nitida nella mia mente. I flash insistenti delle macchine fotografiche, le domande assordanti, gli strattoni. Vedevo ancora il viso di Cel impaurito che cercava rifugio tra le mie braccia.
Fu lei però a rispondere. «Dovrò abituarmici, sono sincera,» sorrise. «Credo che in questo, Leonardo, mi aiuterà.»
«Bene, cvedo sia tutto! Vi vingvazio molto, davvevo. L’intevvista savà pvonta tva due giovni, pev il numevo di Maggio.»
Ci alzammo in piedi e salutammo sia la donna che il fotografo.
Improvvisamente mi sentii più leggero, quasi come dopo aver fatto l’esame di maturità. Finalmente libero.
Una volta fuori dalla stanza, trovammo Anna e Romeo che ci aspettavano in fondo al corridoio.
«Com’è andata?» domandò Cel.
Notai che tra quei due s’era creato un silenzio che non prometteva nulla di buono. Era come se l’imbarazzo li avesse resi completamente muti.
«Che è successo?» chiesi subito, intuendo che qualcosa non andava.
Annalisa fissò Romeo, furente. «Chiedetelo a Mr. Barzelletta vivente!» ringhiò. «Non ha fatto altro che intrattenere il giornalista con i suoi aneddoti scadenti, e lui non mi ha rivolto nemmeno una domanda!»
Romeo la sfidò. «Doveva intervistare me, non te. Tu sei già famosa. Questo articolo è sulle coppie formate da famosi e non famosi.»
«Okay, calmatevi. Intanto usciamo,» sentenziò Celeste.
 
Una volta in strada, la situazione andò di male in peggio.
Cominciarono a volare malignità e cattiverie gratuite tra quei due, e non la finivano di punzecchiarsi a vicenda. Romeo non era affatto intimidito dalla lingua velenosa di Annalisa, forse troppo abituato a ricevere offese da chiunque.
Compresa l’amica di Celeste, Veneranda.
«Oh! Taci! Maledetto il giorno in cui mi sono innamorata di te!» ringhiò Anna.
«Figurati io! Annalisa di qua, Annalisa dillà, pensi sempre a te stessa!» le rimbeccò l’altro.
Io e Celeste rimanemmo in silenzio, come se fossimo al cinema o a teatro.
«Perché pagare per uno spettacolo gratuito?» le sussurrai, ridacchiando.
Lei mi rifilò una gomitata leggera. «Zitto!» Ma la vidi sorridere.
La verità era che Romeo e Annalisa litigavano sempre e per qualsiasi stupidaggine. Cominciava con un semplice commento, o una battuta, poi finivano a mali parole. Diciamo che io e Cel avevamo fatto un po’ l’abitudine alle loro liti.
Non si parlavano per giorni. Staccavano tutti i loro contatti.
Dopodiché, se non stavi attento, li ritrovavi a rotolarsi tra le lenzuola o completamente incollati l’uno all’altro in qualsiasi angolo dell’appartamento dei Fiore-Ciuccio.
«Cos’hai consegnato alla giornalista, durante la pausa?» chiesi alla mia ragazza, sorvolando sull’argomento del Rosso.
Celeste sfoderò un sorriso malizioso. «Una sorpresa a cui lavoro da tempo.»
Il mio pensiero andò subito a quello strano documento che avevo intravisto sul suo computer, ma su cui non avevo indagato per rispetto della sua privacy.
Cosa poteva essere? Le sue memorie?
Le mie prigioni?
Mica è una galeotta!
Silvio Pellico, Leona’.
«E non mi puoi anticipare niente, niente?» chiesi, col labbro tremulo.
Lei si aggrappò al mio braccio come un cucciolo di koala, mentre attraversavamo le piccole vie strette del centro di Roma.
«È una sorpresa,» concluse.
Ed io mi fidavo abbastanza di lei, da consegnarle tutto ciò che rimaneva di me stesso.



Allora! Premetto che siete autorizzati a lanciarmi addosso maledizioni/insulti/scarpe puzzolenti e quant'altro perché questo aggiornamento è imperdonabilmente in ritardo. Purtroppo non avevo ispirazione, lo ammetto. Per quanto questa storia mi abbia coinvolto sin dall'inizio, adesso trovo un'immensa difficoltà a concluderla, forse perché ho paura di distaccarmene, boh. Fatto sta che finalmente mi sono messa di buona lena a scrivere, e qualcosa ne è uscito fuori!
*3* Ammetto che Leo mi era mancato troppo. TROPPO.
Con lui è iniziato tutto e anche se la maggior parte dei miei lettori si è persa per strada, non fa niente.
Questa storia MERITA di essere conclusa e ne approfitto per dirvi che mancherà soltanto l'epilogo alla fine. Cercherò una conclusione degna e già mi sto adoperando per lasciare avvisi anche nell'altro account (di _Shantel) in modo che i lettori non si ''perdano'' il seguito di CIUS sul mio profilo.
Anche voi, se vi capita, spargete la voce ;3

Detto ciò, mi rimetto nelle vostre mani.
Un pensiero sarebbe gradito (anche insulti, anzi INSULTATEMI!)
Baci, Marty.


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