E dopo 4 anni, ecco a voi
l'11 capitolo!! spero possa piacervi, anche se personalmente aspetto di
scrivere i prossimi. Ho tante ideuzze per questa fic, spero potranno
piacervi!
un saluto a tutti!!!
Miky91
CHAP 11
“In ogni istante della nostra vita siamo ciò che
saremo, non meno di ciò che siamo stati.”
(Oscar Wilde)
Non si era fatto notare quella mattina.
Era passato dal retro, dal parcheggio del grande ospedale. Si era ben
guardato dal farsi notare in atrio, si era ben guardato dal farsi
vedere, zoppicante come sempre ma, questa volta,anche
incerto, spaesato. Incerto su cosa fare, incerto se fare la cosa
giusta.
Aveva giurato a se stesso che avrebbe affrontato le sue paure.
l’aveva giurato. E l’avrebbe fatto.
In realtà non avrebbe mai voluto tornare in
quell’ospedale, luogo dove molti sui ricordi, sia tristi che
spensierati, si mescolavano con un inquietante chiarezza.
Memorie, sofferenze… e poi c’era lei. Sarebbe
stato in grado di affrontare questa ennesima prova? Era ormai arrivato
ad un punto dove non poteva permettersi il lusso di tornare indietro e
abbandonare l’impresa. Doveva combattere.
Fermò il passo, piantandosi al centro del corridoio che
stava attraversando. Si voltò verso la parete a vetro alla
sua sinistra e, poggiando il peso del corpo sul suo bastone, rimase a
fissarli.
I suoi ex dipendenti.
Erano lì, nel solito vecchio ufficio che aveva visto
risolvere decine e decine di casi medici.
Erano ancora lì, proprio dove lui li aveva lasciati.
Erano tutti rivolti verso la fida lavagna, intenti a proporre teorie ad
un uomo, mai visto prima, che sembrava ascoltarle con attenzione per
poi trascriverle nero su bianco.
Era così che si faceva? Si ascoltava con attenzione ogni
teoria? Si annuiva amichevolmente?
House fece un sorrisetto divertito, grattandosi la fronte col pollice
della mano libera.
Era come se avesse lasciato i propri bambini ad una babysitter che ogni
giorno compra loro gelato, dolciumi e schifezze varie…
viziandoli fino al midollo.
L’uomo che sino a quel momento aveva scritto a raffica una
serie di teorie sulla lavagna bianca, sicuramente improbabili,
posò finalmente il suo sguardo su House…
domandandosi dubbioso come mai fosse così interessato al
loro lavoro.
Tutti gli altri medici si voltarono, curiosi di individuare quel
qualcosa che aveva attratto l’attenzione dell’uomo.
Ci fu un attimo di silenzio. Se qualcuno di loro si era voltato con
noncuranza, ancora intento ad esporre una propria idea, alla vista di
House si zittì.
Il vetro sembrava rendere la scena eccessivamente teatrale, mentre la
gente nel corridoio andava e veniva come se nulla fosse, ignorando
quella particolare ed imbarazzante situazione.
House fece un sorrisino di circostanza, inclinando il capo. Ecco che si
entrava in scena.
Prese un respiro profondo…
“Scusate!- esclamò quindi, entrando zoppicante
dentro l’ufficio e attirandosi gli sguardi interdetti di
tutti i presenti -Avevo tentato di entrare nell’ufficio
affianco ma qualche balordo deve averlo chiuso a chiave!”
“House!- Foreman si era alzato in piedi, confuso –
che ci fai qui?”
“Sei stato dimesso?” azzardò Taub.
“Lei…è il Dr. House.”
l’uomo a lui sconosciuto gli rivolse un sorriso sorpreso,
allungando subito la mano per salutare quella figura leggendaria.
Era alto, magro. Non sembrava avere più di una trentina
d’anni. Vestiva in giacca e cravatta, ma per quanto elegante
fosse il suo abbigliamento, non era facile notarlo sotto quel tanto
conosciuto camice bianco. Quel camice bianco che Gregory House si era
sempre rifiutato di portare.
House rimase a fissare la sua mano sospesa a mezz’aria, senza
pensare minimamente di corrispondere il gesto, costringendolo dopo poco
ad abbandonare l’idea di avere un saluto di rimando. Lo
guardò torvo per un attimo, squadrandolo da capo a piedi
“E lei sarebbe?”
“Sono il nuovo primario di questo reparto. Posso esserle
utile?”
House rimase interdetto per qualche istante, gettando ai suoi ex
collaboratori un occhiata vaga.
Certo.
Era stato sostituito.
Ecco perché nessuno si era preso la briga di farsi sentire
anche solo per un consulto medico. Avrebbe dovuto immaginarlo
d’altronde.
“Si, volevo sapere che fine hanno fatto le cose che stavano
nel mio ufficio.”
Tutti si guardarono intontiti.
“Hai parlato con la Cuddy? Li ha presi lei, probabilmente li
ha portati a casa tua assieme a Wilson” azzardò
Foreman.
“No – House ignorò la prima domanda,
zoppicando verso il suo ex ufficio – a casa mia non ci sono.
Quindi le cose sono due: o li tiene come cimeli o li ha messi in
vendita su ebay, e se l’ha fatto… stima profonda
per le sue capacità intuitive. Quegli oggetti avevano
più valore di voi quattro messi assieme.”
“Erano robaccia” fece Taub con
nonchalance.
“Oh su via!non sminuire ulteriormente la tua
posizione!” fece House ironico, iniziando ad aprire i vari
cassetti del vecchio ufficio, nel tentativo di trovare qualcosa. O
forse nel tentativo di ficcanasare in giro.
Il nuovo capo reparto lo raggiunse, ponendosi subito tra i cassetti ed
il loro attentatore “Non troverà niente
qui, l’ufficio era stato svuotato quando mi hanno dato
l’incarico!Provi a parlare con la Dr.sa Cuddy…
sicuramente saprà aiutarla.”
House sbuffò seccato, ignorando l’uomo e tornando
nell’altro ufficio, pensieroso.
“Sei stato riassunto? Lavorerai con noi?”
domandò Tredici incuriosita.
“Figuriamoci. Non voglio mica togliervi tutto il
divertimento! Sono sicuro che avete fatto i bravi bambini mentre papino
era via…”
Mugugnò pensieroso, mentre con gli occhi percorreva
vagamente la lista di sintomi scarabocchiati sulla lavagna:
Arresto cardiaco, epistassi,… e poi vari
scarabocchi,giustamente presentati nello stile incomprensibile comune a
molti medici. più si scorreva la lista dei sintomi,
più questi diventavano illeggibili. Era forse
‘droga’ la parola che stava tentando di mettere a
fuoco??
“Infatti. Sono degli ottimi medici, li ha istruiti bene. Ma
adesso dovranno cavarsela senza di lei… - gli sorrise ancora
una volta l’uomo che sino ad allora aveva continuato a
parlare senza esser interpellato, destandolo dal tentare di decifrare
le annotazioni sulla lavagna – stia tranquillo, e si goda la
riabilitazione.”
House si voltò a guardarlo finalmente, sul viso
un’espressione di disgusto.
“Certo. Come no.”
“Dove stai andando?”
“A cercare le mie palle. Qualcuno le ha prese.”
rispose teatrale all’insulsa domanda di Foreman mentre,
uscendo nuovamente in corridoio, la sua figura svaniva tra la gente che
lo popolava.
***
“Va meglio?”
Cuddy annuì debolmente, bevendo un altro sorso di tisana
calda. Firmò un documento, poi un altro ancora, cercando di
apparire più stabile possibile.
In realtà non lo era affatto.
Wilson era preoccupato, lo sapeva. Ed aveva tutte le ragioni per
esserlo. Eppure non voleva che lo fosse, non voleva mostragli tutta
quella vulnerabilità che sino ad allora aveva faticato a
nascondere.
Certo, avrebbe dovuto pensarci prima di prendere una sbronza e non aver
le forze per alzarsi dal letto ed andare a lavoro. Prima di chiamare
Wilson per farsi venire a prendere perché incapace di
mettersi al volante. Prima di mostrarsi così come non
avrebbe dovuto. Fortunatamente per lei, il suo ritardo le aveva
permesso di modificare gli orari della babysitter, così da
poter tornare a casa più tardi quel giorno.
Era strano, ma le veniva difficile ormai gestire la bambina e tutti gli
altri problemi, sia lavorativi che non. Nelle ultime due settimane non
era riuscita a dedicarle nemmeno un weekend, e se il giorno prima
Wilson l’aveva riaccompagnata a casa con l’intento
di farle passare ‘un po di tempo con la sua bambina, lontano
dal lavoro’, lei era finita coll’approfittare della
presenza della babysitter per allontanarsi ancora una volta da casa. Si
chiedeva il perché. Certamente non era un comportamento che
una madre avrebbe dovuto avere… e se House avesse sempre
avuto ragione? E se lei non era adatta a fare la madre?
Sospirò.
“Si. Sto bene, grazie per questa
mattina.” bisbigliò, decidendo di
rompere quell’imbarazzante silenzio che sino ad allora si era
imposta di tenere.
“Saresti dovuta rimanere a casa… –
annuì l’oncologo – anzi, no. saresti
dovuta rimanere a casa ieri sera, dopo che ti ci avevo accompagnato.
Cuddy non va affatto bene!sei andata in un locale… ad
ubriacarti?”
La dottoressa si coprì il volto con una mano, imbarazzata
“Non era quello lo scopo”
“E quale era allora?”
“Avevo bisogno di riflettere… ”
Wilson scosse il capo, rassegnato “Non puoi continuare
così, sono settimane che sei in questo stato. Credi che
comportandoti così le cose miglioreranno?”
“No, certo che no!- sbottò Cuddy, posando
pesantemente la tazza sulla scrivania e facendo sghicciare qualche
goccia di tisana sui documenti ai quali stava lavorando. Odiava quando
Wilson non si faceva scrupoli a centrare il problema – ormai
è tardi per migliorare le cose! Ormai non
c’è più modo di migliorarle, lo so! Non
venire a farmi la predica James, sai benissimo che non
dovresti.”
Wilson annuì colpevole, ricevendo il colpo.
Era colpa sua d’altronde, inutile sostenere il contrario.
Aveva tenuto troppe cose nascoste alla dottoressa, aveva preteso che
per lei andasse bene a prescindere, si era illuso che tutto sarebbe
tornato alla normalità. Era questo ciò che
sperava… tornare alla normalità.
E invece cosa era successo?
House non aveva più dato sue notizie, Cuddy aveva scoperto
delle sue menzogne su di lui, aveva capito di esser stata manipolata e
che a causa di questo House non le avrebbe più rivolto la
parola, probabilmente. Ed era stato lui a condurre quel
carro… era lui il cocchiere folle di quella folle strada
intrapresa.
Non doveva biasimare Cuddy… anzi.
“Mi… mi dispiace – sussurrò,
con un tono colpevole – sono solo preoccupato per te Lisa.
Come… come sei tornata a casa ieri sera? È
pericoloso guidare ubriachi, promettimi almeno che non lo farai
un'altra volta. Se vuoi ubriacarti… - fece un
pausa, esitante – chiamami che andiamo
assieme.”
Cuddy lo guardò incredula. L’amico era passato dal
‘non farlo mai più’ a un ‘ok,
fallo, ma lascia che ti aiuti in questo’.
“Non lo farò più, non preoccuparti. Non
sono masochista fino a questo punto. – sussurrò,
facendo una smorfia per il mal di testa – anche
se… ora che mi ci fai pensare non ricordo come sia riuscita
tornare a casa. Credo che… mi abbia accompagnato
qualcuno.”
“Ah… bene.” annuì
l’oncologo dubbioso.
“Credo anche di aver visto House…”
continuò Cuddy ironica, corrugando la fronte nel tentativo
di ricordare la sera passata.
“House?” Wilson era sempre più dubbioso.
“Si, lo so… ho bevuto troppo.”
“Vai per locali nel tentativo di non pensare a lui e, una
volta attuato l’intento di affogare i pensieri
nell’alcol… vedi House. Dovresti risolvere in
altri modi il problema.”
Cuddy gli lanciò un’occhiataccia “Ad
esempio?”
Wilson esitò. Ormai, se era davvero tutto perduto, che altro
c’era da perdere?
“Prova ad andare a trovarlo. – esclamò,
spalancando le braccia in segno di resa – prova…
non so, a parlargli. Chissà, magari riuscirai ad avere sue
notizie… io sotto questo punto di vista sono off
limits.”
Cuddy si voltò totalmente verso di lui, sfoggiando uno
sguardo tra l’incredulo e l’allibito.
Cosa stava cercando di dirle? Le stava dicendo di andare da lui?! Di
andare da House?! Dopo tutto quello che avevano fatto per evitare
questo ‘pericoloso incontro’?
“Non guardarmi così, so cosa pensi..
ma… forse era meglio far così sin
dall’inizio. Sono umano, posso commettere pure io degli
errori. E poi… non voglio vederti in questo stato Lisa. Non
voglio che tu ci soffra.”
“Non sto soffrendo. – mentì lei
– sono solo preoccupata. House è un caro amico,
non voglio perderlo.”
“Giusto… perché chi trova un amico
trova un tesoro. Se si tratta di House poi…” La
schernì l’oncologo, sapendo perfettamente quanto
quelle parole fossero prive di un significato tangibile. House non era
mai stato ‘solo un amico’… e lo sapeva
fin troppo bene.
“Cosa vuol dire che sei ‘off
limits’?” deviò il discorso la
dottoressa, incuriosita dalla frase che l’amico aveva, pochi
attimi prima, enunciato.
Wilson fece cadere le braccia lungo i fianchi, pesantemente.
Si era tradito da solo.
Rifletté un attimo, giusto per ponderare se era opportuno
dire o meno la cosa.
“Ecco… ho chiamato per sapere come stava molte
volte, ma sembra che lui abbia negato il consenso ai suoi medici di far
trapelare notizie sulla sua salute, soprattutto se a chiederlo sono
io.”
Cuddy abbassò lo sguardo, avvilita
“Forse dovremmo solo lasciarlo in pace.”
Bevve un altro sorso di tisana, mentre le affioravano alla mente
ricordi vaghi di un vago sogno avuto la notte precedente. Riguardava un
uomo, alto, slanciato; un uomo che la sosteneva, l’aiutava.
Un uomo che le diceva di farsi forza. Un aspetto familiare…
La porta a vetri dell’ufficio si spalancò
improvvisamente, lasciando che la figura di un uomo la varcasse. Anche
lui era alto, anche lui era slanciato e sicuro di se, proprio come
quello del suo sogno.
Anche lui era House.
“Chi è stato l’idiota che ha assunto un
altro idiota per sostituirmi? Non è passato in mente a
nessuno che potrei anche offendermi se provate a dare il mio posto ad
uno che non sa nemmeno da che parte si fa il nodo della cravatta e che
pensa che ogni persona provenga dal paese delle
meraviglie?” irruppe melodrammatico, piazzandosi
come se niente fosse a pochi metri di distanza dalla scrivania del suo
ex capo, come era solito fare fino a non molto tempo prima.
Cuddy rimase spiazzata.
Gettò uno sguardo alla tazza di tisana che stringeva ancora
in mano, poi uno sguardo a Wilson come a chiedergli conferma di
ciò che aveva appena visto ed udito.
L’oncologo, d’altro canto, era rigido come il
gesso. In mano, teneva ancora il fascicolo che aveva preso pochi attimi
prima dalla scrivania di Cuddy.
“House?” bisbigliò incredulo, sbattendo
le palpebre nel tentativo di metterlo meglio a fuoco, come se
quell’uomo davanti a lui in realtà fosse qualcun
altro.
L’ex diagnosta schioccò le labbra con fare ovvio
“No, mio nonno.”
“Oh mio dio…” Cuddy balzò in
piedi, in un atto istintivo. Aprì nuovamente la bocca ma
prima di riuscir a proferir altro non potè fare a meno di
incrociare direttamente il proprio sguardo col suo. Finalmente, dopo
tanto tempo… dopo mesi e mesi… lui era davanti a
lei.
Le parole le si bloccarono in gola.
Qualsiasi cosa stesse per dire, svanì dalla sua mente come
fosse nebbia al mattino. Rimase immobile, quasi
pietrificata…
Fu in quell’istante che lo notò.
Cosa dire? Non aveva nulla da dire in realtà.
Improvvisamente entrambi non avevano proprio nulla da dirsi.
“Sei… scappato dalla clinica?!” fece
Wilson, ignorando lo stato di Cuddy e avvicinandosi all’amico
con fare preoccupato.
House lo fissò rassegnato, alzando in bella mostra il
bastone “ti sembro nelle condizioni di
‘scappare’?”
“Ti hanno dimesso?”
House annuì, cercando di non far trapelare quel piccolo
scintillio di orgoglio che quella domanda aveva acceso in lui.
Abbassò lo sguardo, deviandolo poi nuovamente su quello di
Cuddy. Lei era ancora in piedi, immobile, lo fissava… era
come terrorizzata. Non aveva il coraggio di parlare.
Non la biasimava.
Quello che non avrebbe dovuto avere il coraggio di parlare in quella
stanza era qualcun altro.
“Rivoglio il mio lavoro.” esclamò
convinto, con il solito atteggiamento di sempre, cercando di
farla tornare in se. Cercando di darle il giusto argomento per iniziare
una conversazione. Perché ormai, oltre al lavoro, loro non
avevano più argomenti di conversazione. E non li avrebbero
più avuti.
Lisa Cuddy corrugò la fronte, tentando di ricacciar indietro
le fitte alla testa che per tutta la mattina l’avevano
accompagnata a lavoro.
Sentì i sensi di colpa affiorarle dentro, incontenibili.
Cosa aveva fatto?!
“Ho… ho affidato il tuo reparto al Dr.
Burns” sibilò, incredula di aver appena ammesso di
fronte a House di aver creduto che lui non sarebbe più
tornato.
Lui annuì.
“Ok. Vorrà dire che proverò da qualche
altra parte…” si voltò nuovamente verso
l’uscita dell’ufficio, dando le spalle ai due come
se non considerasse che quella era la prima volta che li vedeva dopo
tanti lunghi mesi di isolamento.
“House!” lo richiamò la dottoressa,
destandosi dallo stato nel quale era precipitata. Oltrepassò
la scrivania e gli venne incontro a passi lenti, riflettendo sul da
farsi.
L’uomo tornò a guardarla, pregando di essere in
grado di riuscire ad allontanarsi da quell’ufficio il
più presto possibile.
“Posso reinserirti nella squadra. Dovrai stare alle
dipendenze del Dr. Bursn ma potrai tornare a lavorare…
dovrò anche ridurti lo stipendio però.
– fece una pausa di riflessione – lo
dovrò ridurre a tutta la squadra, ma va bene. Se questo
può farti tornare ad esercitare la
professione…”
Lui scosse la testa “No, voglio il mio vecchio
stipendio.”
“House!- lo richiamò Wilson, incredulo –
ti sta facendo un favore! Accetta, è la migliore
soluzione.”
“No, il favore lo sta facendo alla fama del suo ospedale.
Adesso che il medico zoppo è tornato tutti vorranno venire
qui. Io non ne ricevo nessun favore se mi riduce lo stipendio,
né lo riceveranno tutti gli altri medici della
squadra.”
“Lo strai facendo… per loro?” suppose
l’oncologo, stupito.
“No, per ME!”
“O questo.. o potrò permettermi solo di darti dei
turni in ambulatorio.” lo ricattò Cuddy, certa che
con questo il diagnosta avrebbe accettato.
House la fissò allibito. Era lì solo da pochi
minuti e già lo minacciava? Bene. Almeno nulla era cambiato.
“Molto bene.” annuì dopo qualche attimo
di riflessione.
Wilson gli sorrise, felice.
Anche Cuddy non riuscì a trattenere un sorriso di gioia, uno
di quelli che era solito ricordare in quei momenti bui trascorsi al
Mayfield.
Diamine, quanto gli era mancato.
“Vado subito ad informare la squadra”
“No – House bloccò
l’entusiasmo della Cuddy con voce pacata –
intendevo che accetto di fare le visite in ambulatorio.”
La dottoressa, che si era già lanciata a prendere dal
cassetto i documenti necessari alla riassunzione si bloccò,
esitante, dubbiosa sul fatto di aver realmente compreso le parole del
diagnosta.
“Come?”
Wilson la seguì a ruota “Co.. cosa?”
“Va bene se inizio domani?”
Cuddy era nuovamente rimasta senza parole, lo fissava interdetta, la
fronte corrugata nell’atto di comprendere
l’incomprensibile.
“Fammi avere gli orari via mail appena riesci
–annuì House, prendendo quel silenzio come un
consenso – Ci vediamo!”
I due medici si scambiarono degli sguardi sgomenti, interdetti. Wilson
cercò un vago sostegno in Cuddy ma anche lei stava facendo
la stessa cosa.
“A…aspetta!” fece
l’oncologo annuendo alla dottoressa e uscendo
dall’ufficio nel tentativo di bloccare House.
“Puoi parlare anche mentre cammino?sai non ho tanto tempo da
perdere… ho una casa da risistemare, …”
“Che vuol dire che farai i turni in ambulatorio.. tu odi fare
i turni in ambulatorio!”
“Infatti non voglio fare i turni in ambulatorio!”
“E allora cosa…?”
“Voglio il mio vecchio lavoro.”
“Ma non puoi avere il tuo vecchio
lavoro…”
“Quel Burns è un’idiota. Il fatto che
Cuddy ancora non se ne sia resa conto vuol dire che ancora non ha avuto
un caso serio tra le mani, e cioè… che
è stato assunto da poco. Due mesi al massimo. Io
dovrò solamente subirmi un paio di mesi di ambulatorio,
forse anche meno… da lì la squadra
inizierà a chiedermi aiuto, e Cuddy capirà che
presto dovrà restituirmi il lavoro. – fece House
ovvio, diretto verso l’uscita - Sempre meglio che
contrattare. Se faccio qualche visita, in cambio riotterò il
mio lavoro senza alcuna riduzione di stipendio e senza dover stare alle
dipendenze di un idiota.”
“Beh… ottima teoria, se solo non fosse che Burns
non è un’idiota e che Cuddy sa quel che
fa!”
“No, non è vero. Non l’ha mai saputo in
realtà. E poi l’ha assunto solo perché
ha un buon curriculum e un bel faccino… che tanto bello poi
non è, ma sappiamo tutti che i gusti della Cuddy hanno
sempre fatto schifo.”
“E il fatto che abbia un buon curriculum non ti dice
niente?”
“Mi dice tante cose in
realtà…” sogghignò ironico
il medico ma prima che riuscisse a poggiare la mano sulla maniglia
della grande porta a vetri che si affacciava sul parco del Princeton
Wilson l’afferò per un braccio, bloccandolo.
“E che mi dici di te?... che ne è stato di tutto
quel casino che ti aveva fatto andar via di qua?”
House fece spallucce, anche se continuava a mantenere un espressione
seria.
“Andato.”
“Non pensi che dovremmo parlare noi due?” lo
implorò l’oncologo, confuso
dall’atteggiamento menefreghista dell’amico.
“Lo stiamo già facendo…”
“Pensavo fossimo amici.”
“Lo pensavo anche io.” concluse House in un sibilo.
Strinse la presa attorno al bastone, voltandosi nuovamente verso
l’uscita e decidendo di abbandonare lì la
conversazione.
Wilson lo vide uscire dall’ospedale, lo vide allontanarsi da
lui a passi svelti.
Rimase immobile, incapace di reagire.
Che cosa stava accadendo?
Per la prima volta, dopo quei lunghi mesi, James Wilson, aveva iniziato
a temere la solitudine.
To be
continued…
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