CAPITOLO
19
La
vibrazione del cellulare sul comodino mi destò da un sonno totalmente
privo di
sogni. Ricordavo unicamente di essere crollata non appena avevo messo
la testa
sul cuscino, ed ero sicura che il complice di quella stanchezza fosse
stato quello
strano Capodanno di cui ricordavo poco o niente.
Una
cosa però mi appariva stranamente chiara: il mio corpo appiccicato a
quello di
Simone nella cucina.
Mi
svegliai di soprassalto, mettendomi a sedere con uno scatto, simile a
quello
dei vampiri risvegliatosi dalle proprie bare, e per poco non persi
l’equilibrio
rotolando rovinosamente giù dal letto.
Lo
evitai soltanto perché qualcuno riuscì ad agguantarmi in tempo.
«È
mai possibile che ogni volta tenti sempre di sgattaiolare via dal mio
letto?»
mi rimbeccò Simone, facendo capolino dalla nuvola di coltri con quei
capelli
neri perennemente spettinati.
Un
lieve velo di barba sfatta gli adombrava il viso, rendendolo
“leggermente” più
maturo ai miei occhi.
Leggermente, s’intende. Aveva
pur sempre quattro anni in meno della sottoscritta.
«Se
non l’avessi notato, stavo cadendo… idiota.» sibilai, liberandomi dalla
sua
presa.
Ovviamente
mi accorsi soltanto in ultimo di essere completamente nuda, e solo
quando il
lenzuolo si abbassò del tutto e mi ritrovai uno sguardo di fuoco di
Simone
addosso, caddi nel più completo imbarazzo.
Immediatamente
mi schiacciai le mani al petto, indignata. «La smetti di fissarmi come
un
maniaco?» Tentai di coprirmi alle bell’è meglio.
Simone
sghignazzò divertito da tutta quella mia pantomima.
«Che
hai da ridere, eh? Ti diverte mettermi in imbarazzo?»
Ero
stufa di essere presa per i fondelli, soprattutto da un ragazzino
impertinente,
viziato – stupendamentebravoaletto
–
e immaturo.
Simone
scosse la testa. «Mi diverte il fatto che tu stia facendo tanto per
coprirti,
quando ieri notte mi hai mostrato più di quanto tu voglia ammettere…»
sussurrò
malizioso, avvicinandosi.
A
quel punto, la vecchia Venera gli avrebbe rifilato un bel ceffone
sonoro e
avrebbe rimesso il ragazzino in riga, al suo posto, dove avrebbe dovuto
essere.
Ma
la vecchia Ven non c’era più, ormai era un dato di fatto.
La
sera prima, nonostante fossi andata al party con James, avessi
condiviso un
ballo e una limousine con lui, avevo pensato solo ed esclusivamente a
Simone. A
quanto mi mancava, a quel vuoto che lentamente si allargava come una
voragine
nel mio stomaco, a causa della sua lontananza.
Simone
continuò ad avvicinarsi lentamente, fermandosi ad un soffio dalle mie
labbra.
Con
una mano scostò i capelli arruffati che avevo davanti agli occhi,
incastrandoli
dietro l’orecchio poi mi guardò intensamente.
I
suoi occhi bruciavano come la prima volta che lo avevo visto.
«S-Sme-Smettila…»
soffiai, stringendomi il cotone del lenzuolo al petto e sentendo le
guance
tingersi di rosso.
Riusciva
sempre a farmi uno strano effetto, a far sì che le mie difese
crollassero come
un castello di carte. Lui riusciva sempre a trovare l’asso di cuori,
alla base
della piramide e, sfilandolo, rompeva il muro che mi ero così
faticosamente
costruita attorno.
«Di
fare cosa?» continuò lui, sfiorando con il pollice la mia guancia e
cominciando
ad accarezzarla.
Una
cascata di brividi mi percorse la pelle, increspandola. Era odiosamente
strano
il modo in cui, con un gesto così semplice, Simone riuscisse a rendermi
innocua.
Afferrai
saldamente il suo polso e lo bloccai. Mi era rimasto ancora un barlume
di
lucidità dalla sera precedente e avrei dovuto sfruttarlo.
«Di
fissarmi come se fossi una bistecca e tu un lupo affamato da giorni!»
Gli
scostai bruscamente la mano.
Simone
non si offese, né sembrò arrabbiarsi. Sorrise, anzi.
«Auuuuuuuuuuuuuuu!»
ululò, rovesciando la testa all’indietro, spiazzandomi completamente.
Un
accenno di sorriso affiorò alle mie labbra. Anche se tentavo in tutti i
modi di
mantenere una maschera di serietà, controllo, di maturità nei suoi
confronti,
non riuscivo a resistere. Per quanto Simo si comportasse da ragazzino
immaturo,
certi suoi comportamenti mi facevano sentire più leggera.
«Stai
sorridendo,» disse, indicandomi l’angolo delle labbra.
«Chi?
Io? No, ti sbagli!» mentii subito, anche se stentavo ancora a
trattenermi dal
ridere.
«Eccolo!
Lo vedo!» ridacchiò felice lui.
Era
da tempo che non lo vedevo così spensierato. L’ombra che in quegli
ultimi
giorni aveva coperto il suo sguardo si era lentamente dissolta.
«Ti
sbagli.» Incrociai le braccia al petto. «Magari sto solo ridendo di te,» puntualizzai.
Lui
si accigliò giusto un attimo, poi continuò il suo assalto mirato. «Beh
allora
meriti una punizione…»
E
a quel punto mi si avventò letteralmente addosso, imponendo il suo
corpo sul
mio e costringendomi a “soccombere” sotto di lui.
«Lasciami
andare,» gli intimai, seria.
Nessuno
mi aveva mai sottomessa in quel modo, soprattutto perché mi reputavo
una donna
di carattere e capace di tenere i maschietti nel proprio pugno – seppur
piccolo.
«No.»
Simone era dannatamente serio e quegli occhi non la finivano di sondare
il mio
corpo con una bramosia che ci mise ben poco a scaldarmi.
Eravamo
così noi due, ormai non potevo più negarlo. Due scintille che al primo
contatto
prendevano fuoco e sarebbero riuscite ad incendiare interi ettari di
terreno
attorno a loro, facendo terra bruciata di tutto.
Così
saremmo finiti noi due, con solo il deserto attorno a noi.
«Simo…»
soffiai, sulle sue labbra che lentamente scendevano e si avvicinavano
alle mie.
«Ho
pensato a quello che mi hai chiesto…» mormorò, fissandomi intensamente.
Sgranai
gli occhi rendendomi conto di ciò che gli avevo chiesto la sera prima,
quando,
nell’ebbro della passione, lo avevo quasi implorato di venire a Tivoli
con me.
Ti stai proprio rammollendo…
Avrei
voluto scavarmi la fossa da sola e sprofondarci dentro, perché avevo
servito a
Simone il coltello dalla parte del manico ed ora avrebbe potuto
incidermi il
petto e cavarne fuori il mio cuore senza alcuna difficoltà.
La
mia forza si stava trasformando in una debolezza sin troppo evidente e
controproducente.
«…ah
sì?» cercai di fare l’indifferente, ma arrivati a quel punto non sapevo
quanto
ancora sarei stata credibile.
Infatti,
Simone mi lanciò subito un’occhiata di rimprovero.
Ormai
non riuscivo ad ingannare più nessuno, nemmeno me stessa. Bastava
ammetterlo,
essere coerenti: mi ero presa una sbandata per un calciatore, nonché
mio
cliente. Per Simone.
Una
cosa che andava contro tutti i miei principi e ciò che avevo sempre
sostenuto.
Mi eri persa nel mio stesso bicchiere d’acqua.
«Guarda,
non hai nessun obbligo verso di me… se non v-» ma lui mi zittì con un
profondo
e umido bacio. Mi costrinse a schiudere le labbra, ad accogliere la sua
lingua
calda e a giocarci maliziosamente, cominciando a mugolare di piacere.
Perché
era tutto istinto con Simone. Il cervello poteva benissimo essere messo
da
parte.
Ci
staccammo solo dopo alcuni lunghi minuti di coccole. Mi sentivo bene,
stranamente bene, come non mi sentivo da anni ormai.
«Dovresti
pensare di meno e agire di più,» commentò lui, con un sorriso.
«Me
l’hai già detto,» precisai.
I
suoi occhi scuri non mi abbandonarono mai e mi sentii leggermente in
soggezione
sotto quello sguardo così intenso. A dirla tutta, avevo paura. Timore
che, come
James, Simone avrebbe potuto rifiutare quel mio invito, facendomi
tornare a
casa da sola.
Non
che un ritorno del ‘figliol prodigo’ mi mettesse qualche pressione,
solo che
avrei preferito affrontarlo con qualcuno accanto. C’era sempre mio
padre che
non condivideva quella mia scelta di vivere all’estero, lontano dalla
famiglia
quasi come se lo avessi fatto apposta.
Loro
non avevano colpe, era solo che avevo sempre desiderato lasciare
l’Italia per
qualcosa di più grande, qualcosa che avrei potuto gestire a modo mio.
«Verrò.»
Se ne uscì di punto in bianco Simone, stendendosi su di me e
appoggiando la
testa sul mio petto. Il calore del suo corpo era piacevole contro il
mio, così
cominciai distrattamente ad accarezzargli i capelli.
«Ti
dico subito che se lo stai facendo per pietà, preferisco che tu non
venga…»
precisai.
Simone
alzò di poco la testa, posando il mento nell’incavo del mio seno e mi
fissò.
«Possibile che non possa mai far qualcosa senza un secondo fine? Mi
credi così
subdolo?» sorrise.
Feci
finta di pensare qualche secondo. «Uhm… sì,» conclusi, ridendo anche io.
Simone,
allora, per vendicarsi, cominciò a baciarmi il seno, facendomi
rabbrividire e
tentai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, ma la verità era
un’altra. Ero
felice che avesse deciso di accompagnarmi, forse lo ero ancora di più
di quanto
lo fossi stata se anche James lo avesse fatto.
Non
sapevo ancora spiegare cosa provassi per il calciatore, mi sentivo
confusa.
Eppure
ero sicura che qualcosa c’era. Qualcosa di bello, che mi faceva
sorridere, e
questo a me bastava.
«Si
può sapere dov’è finito Leonardo?» sbraitò Celeste per la
quattordicesima
volta.
Sbuffai
e tentai di calmarla. «Ha detto che andava a vedere qualcosa al negozio
di
souvenir, al centro dell’aeroporto. Tornerà presto…» la rassicurai.
La
mia migliore amica sembrava una pazza. Aveva i chiari segni del
nervosismo a
fior di pelle e in quel caso era sempre meglio starle alla larga: punto
primo,
capelli in disordine e completamente arruffati, punto secondo, occhi
spiritati
come quelli di Gollum; punto terzo, la voce stridula che raggiungeva
gli
ultrasuoni.
«Manca
un quarto d’ora all’imbarco! Possibile che dobbiamo sempre farci
riconoscere?
Come se già non sapessero chi siamo!» sbraitò, per l’ennesima volta.
«Celardo?» suggerì Simone, riemergendo
dall’imbacuccamento di quel freddissimo primo Gennaio.
Sia
io che Cel gli lanciammo uno sguardo di fuoco.
«Ma
tua nonna dov’è?» gli chiesi, notando che alle sue spalle, oltre ai
bagagli a
mano che avevamo accumulato in un angolo, non c’era nemmeno l’ombra
della
signora Annunziata.
Simone
mi restituì uno sguardo abbastanza confuso. Poi fece spallucce.
Celeste
non la finiva di andare avanti e indietro lungo tutta la sala
d’aspetto. «Eh,
ma quando ritorna, mi sente! Stavolta lo lascio di sicuro… anzi, gli
lascio
l’orma del mio stivale sulla faccia!» borbottava tra sé e sé.
In
quello stato, se le avessi fatto presente che anche la nonnina Sogno
mancava
all’appello, le sarebbe venuto un esaurimento. Mi sedetti sbuffando
sulle
poltrone, accanto a Simone di cui s’intravedeva unicamente un ciuffo di
capelli
castano scuro e un paio di occhi. Aveva la sciarpa dell’Arsenal tutta
avvolta
attorno alla faccia e il cappello con le orecchie ben calcato sulla
testa.
«Ti
rendi almeno conto di essere quantomeno ridicolo?» gli domandai,
cercando di
ignorare i borbottii della mia migliore amica.
Simone
sbuffò, o almeno credetti lo facesse. Non si vedeva nulla a parte gli
occhi e
quel dannato ciuffo di capelli.
Sorrisi.
Anche
se era la situazione più strana che avessi mai vissuto, lì a Heathrow,
aspettare il volo 28671 Londra – Roma era qualcosa che mi riempiva il
cuore di
gioia e di aspettativa. Erano sei mesi che non tornavo a casa.
Un
po’ avevo paura, dovevo ammetterlo. Avrei rivisto i miei genitori dopo
così
tanto tempo, dopo averli sentiti unicamente con delle fredde
telefonate, anche
durante gli auguri di Natale. Avevo sempre detto loro di avere troppo
lavoro da
sbrigare per poter scendere, eppure adesso mi ritrovavo qualche giorno
libero
da poter passare in famiglia.
E allora cosa c’entrava Simone?
Il
mio cuore fece una lunga capriola all’indietro ed io rimasi con la
bocca
asciutta.
In
effetti, non era sbagliato quel pensiero. Avevo conosciuto il
calciatore quasi
cinque anni prima, quando con Celeste e Robbeo eravamo volati a Londra
per
riuscire a ricucire quella specie di relazione tra lei e Leonardo, ma
non era
successo nulla tra di noi.
Anche
perché lui era ancora più immaturo di adesso, pensa te…
Simone
era quasi uno sconosciuto, un ragazzo che avevo incontrato per caso
dopo tanti
anni e con cui mi ero ritrovata costretta a condividere la casa, il
lavoro e
ogni minuto libero del mio tempo. Di certo non faceva parte della mia
famiglia.
«Il volo 28671 procederà con l’imbarco al
gate 9, ripeto, il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9»
trillò la
voce metallica dell’altoparlante.
L’unica
cosa che sentimmo io e Simo, invece, fu lo strillo nevrotico di Celeste
che
avrebbe mandato giù tutte le Madonne del cielo, se nonna Annunziata non
fosse
spuntata in fondo al corridoio, tenendo suo nipote per un orecchio
mentre lo
trascinava verso di noi.
«Te
l’ho riportato, raggio di sole,» sorrise la vecchina, imbacuccata tanto
quanto
il nipote più giovane.
Celeste
la abbracciò. «Grazie, grazie!» sospirò felice, poi rivolse un’occhiata
gelida
al povero Leonardo. «Con te facciamo i conti dopo,»
ringhiò.
Mi
alzai dalla poltroncina e afferrai il bagaglio a mano, con il
biglietto. Mi
misi in fila insieme agli altri, seguita dall’omino
della michelin – aka Simone – che sembrava dovesse partire
per il Polo Nord.
«Ma
non ti sei coperto un po’ troppo? A Roma non fa così freddo…» osservai,
lanciandogli un’occhiata scettica.
Lui
tentò di rispondermi, ma ne uscì unicamente un farfugliamento ostruito
da
quella sciarpa avvolta attorno alla faccia una quindicina di volte.
Dentro di
me mi chiesi quanto potesse essere lunga…
«Lo
fa per nascondersi dalla “folla”,» intervenne per lui Leonardo,
massaggiandosi
l’orecchio destro che la nonna prima, e la fidanzata dopo, gli avevano
massacrato. Era diventato più rosso di un pomodoro maturo e
sospettosamente
gonfio.
«Ha
paura che tutti gli chiedano un autografo, che lo fermino al rullo dei
bagagli,
che lo assalgano con le foto… non si rende conto che per gli italiani è
quasi
uno sconosciuto.» ridacchiò.
Simone
tentò invano di protestare, ma quello che uscì dalla sua coltre di
indumenti fu
solo una serie di borbottii attutiti dalla lana e dagli strati del
piumino che
aveva addosso.
«Come
volere tu, uomo delle nevi!» lo derise Leonardo, massaggiandosi ancora
l’orecchio dolorante e raggiungendo Celeste che non mancò di rifilargli
un’occhiataccia.
Rigirandomi
la carta d’identità tra le mani, pensai a ciò che aveva appena detto
Leo. Non
avevo minimamente pensato alla reazione che gli altri avrebbero potuto
avere
vedendo Simone, a cosa, un paese piccolo come Tivoli, avrebbe potuto
fargli una
volta scoperta la sua identità.
Non
ci avevo pensato, perché per me lui era prima di tutto Simone, poi il
resto.
Ormai
non era più Mr. Sogno, oppure il calciatore di fama mondiale che
giocava in uno
dei club più esclusivi della capitale inglese. Avevamo condiviso troppe
cose
insieme, perché potesse ridursi tutto a quello.
Lo
guardai con la coda dell’occhio, pentendomi per un attimo per averlo
costretto
a seguirmi. Lui non mi doveva niente, non eravamo nulla noi due: né
fidanzati,
né innamorati… forse amanti e basta.
Simone
vedendomi pensierosa si abbassò leggermente due dei dodici strati della
sciarpa
che gli copriva il volto. «Ti sta frullando qualcosa qui dentro…»
insinuò,
abbassandosi e picchiettando l’indice insistentemente sulla mia tempia.
«Piantala per un attimo di pensare, okay? Lo so che ti stai pentendo di
avermi
chiesto di venire, te lo leggo negli occhi,» sospirò.
Mi
vergognai come una ladra per essere così facilmente leggibile da uno
come
Simone, eppure ormai era come se fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.
Mi
capitava sempre più spesso di intuire il suo umore e lui il mio.
Si chiama “essere anime gemelle”,
ciccia.
Scossi
la testa violentemente. NO! C’era una bella differenza tra lo scopare
come
conigli giorno e notte e in ogni luogo di quell’appartamento, ed essere
anime
gemelle. Un’enorme differenza. Io e Simone avevamo chimica, ormai era
innegabile, ma non ero innamorata di lui.
Nossignore.
Anche
perché, se ciò fosse stato vero, avrebbe segnato la mia condanna a
morte.
Venera Donati non poteva permettersi nessun tipo di relazione fino a
quando non
fosse diventata socia della Abbott&Abbott, e per far ciò avrei
dovuto
vincere la causa di dubbia paternità di Simone.
A
proposito della causa…
«Ma
il test di paternità?» domandai di punto in bianco a Simo, cambiando
abilmente
discorso.
Lui
mi sorrise. «Rimandato,» sghignazzò. «Ho detto che avevo degli impegni
che non
potevo assolutamente saltare… degli impegni che mi costringevano a letto per qualche giorno…» e mi
sorrise malizioso, soltanto con gli occhi visto che spuntavano solo
quelli
dalla sciarpa e dal cappello.
«Sei
un maiale,» lo apostrofai.
«Ronf!»
ridacchiò lui, manco avesse cinque anni.
«Prego,»
mormorò la signorina, così le porsi il biglietto aereo e la carta
d’identità.
Controllò i miei dati, poi mi congedò con un sorriso augurandomi buon
viaggio.
Oltrepassai
il tornello e aspettai Simone. Non seppi nemmeno il motivo per cui
avrei dovuto
farlo, mi sembrava di essere tornata al liceo, quando attendevo Celeste
in un
angoletto perché dovevamo fare tutto insieme.
La
hostess controllò i documenti di Simone, poi gli sorrise melliflua.
Alzai
un sopracciglio quando il suddetto calciatore si abbassò la sciarpa con
fare da
dongiovanni e le sussurrò qualcosa che non riuscii a capire. In ultimo,
soltanto mezzo secondo prima che lo liquidasse, Simone si accorse che
lo stavo
fissando ed impallidì.
A
quel punto mi diressi a cercare il mio posto a sedere. Che si fottesse
lui e
quella sciarpa di merda.
Sentii
i suoi passi goffi dietro di me, ma non rallentai. Anzi, la mia bassa
statura e
l’assenza dell’ingombro del piumino che aveva il calciatore, mi
permisero di
zigzagare tra la folla dei passeggeri che posizionavano i loro bagagli
nello
stipetto sopra i sedili.
Avvistai
il numero “48” proprio vicino all’uscita di emergenza e mi ci fiondai
prima che
Simone potesse raggiungermi. Per fortuna vidi che nonna Annunziata
occupava uno
dei tre sedili, quello vicino al finestrino. Almeno avrei avuto una
“testimone”
che avrebbe cucito la bocca a Simone senza che io stessi lì a sentire
tutte le
sue stupide scuse puerili.
Non
stavamo insieme, d’accordo, ma almeno avrebbe potuto evitare di fare il
coglione con tutte le creature di sesso femminile presenti sulla faccia
della
terra!
Sei troppo esagerata, gli stai
soltanto gettando benzina sul fuoco. Così si sentirà ancora più
importante e
ciò gli darà il diritto di trattarti a pesci in faccia.
Dov’è finita la Venera di
ghiaccio?
Aveva
ragione il mio Cervello. Il mio buon caro e vecchio Cervello che per
buona
parte delle vacanze invernali si era assopito, forse zittito dai
quintali di
dolci che avevo ingurgitato in baffo alla dieta.
«Sei
emozionata per il rientro a casa, cara?» mi domandò la nonna.
Annuii
sorridendo. «Sono sei mesi che non li vedo…» sospirai.
Lei
a quel punto mi strinse la mano e mi sorrise, facendomi forza. Anche se
dall’esterno potevo sembrare una donna forte, capace di sopravvivere a
tutto e
ignorare le proprie emozioni, persino una vecchina era riuscita a
capire come
mi sentissi nervosa in quel momento.
«Andrà
tutto bene, poi ci sarà Pisellino
al
tuo fianco,» insinuò, strizzando l’occhiolino.
Rimasi
a fissarla basita, incapace di capire se dovessi sorridere o meno. In
quel
momento, avrei voluto volentieri prenderlo a badilate sui denti, ma
tentai di
trattenermi.
Il
diretto interessato arrivò con un po’ di ritardo, riuscendo a mettersi
seduto
nonostante l’ingombro di quel cappotto e di quella sciarpa
chilometrica.
Finalmente, dopo quasi due ore che era imbacuccato in quel modo, si
tolse il
cappello e si sbottonò il giubbino.
«Caaaaaldo!»
sospirò, esausto.
Nemmeno
gli risposi, anche se avrei voluto infierire.
Dovevo
stare calma. Il Cervello mi aveva ben suggerito di fregarmene di tutta
quella
faccenda, altrimenti gli avrei unicamente dato una soddisfazione in
più. Già si
sentiva Mr. Ho-l’ego-più-grosso-di-uno-stato-indipendente, figurarsi se
avesse
saputo di rendermi gelosa della prima hostess che gli fosse ronzata
attorno.
Giammai!
«Tesoro,
non ti fa bene coprirti così. Poi ti ammali,» lo rimproverò la nonna.
Simone
sbuffò e agitò le mani. «Devo mantenere l’incognito, altrimenti quando
arriverò
a Roma non potrò nemmeno camminare in pace. Ragazze che mi fermano ad
ogni
angolo… che vogliono una foto con il sottoscritto, o magari un bacio…»
e lì mi
lanciò un’occhiata per vedere la mia reazione.
Il
nulla.
Rimasi
impassibile afferrando uno dei miei libri da leggere – Storia
del diritto medievale e moderno – ma non feci una piega.
Notai con soddisfazione che rimase leggermente deluso da quella mia
freddezza,
ma decisi di continuare a non dargliela vinta.
«Buongiorno a tutti, qui è il comandante che
vi parla. Siete sul volo 28671, con partenza da Heathrow Londra e
diretto a
Roma Fiumicino. L’equipaggio vi augura un buon volo e un soggiorno
piacevole.»
In
seguito, le due hostess e lo stewart cominciarono a spiegare i
movimenti base
in caso di emergenza. Ero completamente immersa nel capitolo
quattordici del
volume che mi ero portata come lettura leggera in aereo, quando fu il
momento
di allacciare le cinture.
Notai
che nonna Annunziata si era portata qualcosa da fare a maglia, mentre
Simone
era assorto nello studiare la macchia ignota che era sul copri testa
del sedile
di fronte.
I
motori del boeing cominciarono a rombrare, così come l’aereo che iniziò
a
muoversi lungo l’aeroporto, raggiungendo la pista che gli spettava. Non
ero
nervosa, anzi. L’aereo non mi aveva mai dato problemi, più che altro
ero ancora
intenta a non fare passi falsi con Simone.
Pensava
davvero che mi desse fastidio il fatto che ci provasse con metà della
popolazione femminile? Ancora non sapeva con chi avesse a che fare.
Venera
Donati non si era mai fatta mettere sotto da nessuno!
Non in senso letterale… visto che
stamattina…
Non
nel senso strettamente letterale.
Dopo
due giri di pista a vuoto, il boeing si posizionò sulla pista nove e
cominciò a
rullare più forte. Misi da parte il tomo, giusto per non perdermi la
partenza,
e attesi. Poco dopo cominciò a partire, decollando a poco a poco ed io
sentii
quella familiare sensazione di compressione allo stomaco.
La
pressione che iniziava a salire, le orecchie che si otturavano e il
respiro
sempre più corto.
Simone,
accanto a me, non fece una piega, come la nonna dall’altra parte. In
fondo
erano abituati, pensai. Leonardo aveva accennato a Cel che da piccoli
spesso
erano costretti a viaggiare molto per riunire le due famiglie che
abitavano
così lontane.
Il
papà di Simo e di Leo erano fratelli, e anche se i genitori di Simone
si erano
separati, questo non significava che i cugini non dovessero più
incontrarsi.
Dopo
poco, per fortuna, apparve il segnale di slacciare le cinture e di
poter
accendere gli apparecchi elettronici purché in modalità offline. Con
mia grande
sorpresa, nonna Annunziata tirò fuori l’ultimo modello di lettore mp3
della
Apple e inforcò gli auricolari, cominciando a scegliere la playlist.
Simone
sorrise. «Da quando papà glielo ha regalato, non si scolla più da
quell’affare,» commentò.
Rimasi
basita nel vedere una settantenne così a suo agio con quella
tecnologia,
contando il fatto che per insegnare a mia nonna ad usare il cellulare,
ci
avevamo messo tre o quattro anni.
E
ancora adesso le partivano le telefonate a casaccio.
«È
sorprendente!» dissi.
Ripresi
la mia lettura leggera, ignorando palesemente Simone che tentava di
stabilire
un contatto visivo con la sottoscritta. Nel frattempo, sul sedile
posteriore,
si sentivano gli schiamazzi di Leonardo e Celeste che litigavano
riguardo a
qualcosa.
«Sembrano
una coppia sposata,» sbuffò il piccolo Sogno.
«Chi?»
chiesi distrattamente.
Nel
frattempo, di sottofondo, partì la canzone “Highway to hell” degli ACDC
dall’i-pod della vecchina. Rimasi sempre più sconcertata dai gusti
della nonna
di Simone.
«Quel
carciofo di mio cugino e l’amica tua,» sbottò, come se non ci arrivassi
da
sola. Ero completamente immersa in feudi e acri di terreno!
«Stanno
sempre a battibeccare, a discutere, ad urlare… non li sopporto,»
aggiunse lui,
cominciando a grattare la macchia sul copri testa di fronte.
Lo
fissai disgustata.
«È
normale, quando si sta insieme. Di solito, discutere rafforza il
legame,»
dissi, anche se le mie storie precedenti non erano durate abbastanza,
nemmeno
da essere definite “storie”.
Simone
sbuffò. «Il nostro no,» disse di punto in bianco.
Segnai
il rigo cui ero arrivata con l’indice, poi specchiai i miei occhi nei
suoi.
«Punto primo, stiamo sempre a litigare, anzi, a scannarci, dal primo
giorno che
ci siamo incontrati,» sospirai esausta. «Punto secondo, noi non siamo una coppia,» conclusi.
Colpito e affondato.
Avevo
decido di non concedere terreno a Simone, di non fargli capire che
fosse
importante per me. Anche se la sera prima avrei fatto di tutto pur di
vederlo,
anzi, mi ero quasi sentita male a causa della sua assenza, lui questo
non
doveva saperlo.
Conoscevo
quelli come lui, i ragazzi viziati e belli, quelli che avevano sempre
tutto
dalla vita. Se lo avessi accontentato subito, si sarebbe stufato di me
come di
un giocattolo ormai vecchio, e ne avrebbe cercato uno nuovo,
abbandonandomi in
una vecchia soffitta polverosa.
E
nessuno doveva permettersi di usarmi.
Simone
rimase dieci minuti buoni a fissarmi.
«Che
vuoi?» dissi, continuando a leggere senza nemmeno restituirgli lo
sguardo.
Lui
si affossò nella poltrona e grugnì. «Niente!» con un’espressione
imbronciata.
Lo
lasciai crogiolarsi nella sua rabbia, e continuai ad immergermi nella
lettura.
Ero soddisfatta di come avevo affrontato la questione, anche perché con
Simone
bisognava avere sempre il guinzaglio tirato. Mai dargli corda.
«Caffè
o succo di frutta?»
Mi
voltai distrattamente verso la hostess che si era avvicinata col
carrello delle
bevande, porgendomi un bicchiere di plastica. Simone mi fece cenno di
chiedere
anche a nonna Annunziata se voleva qualcosa.
Le
diedi un colpetto al gomito, interrompendo “Romeo & Juliet” dei
Deep
Purple, ma lei negò subito l’offerta della hostess.
«Io
un caffè, grazie,» dissi, mentre mi veniva versato il solito bibitone – come lo chiamavo io – degli
inglesi che conteneva due grammi di caffeina e dodici litri d’acqua.
La
signorina mi porse il bicchiere, poi rivolse a Simone un sorriso da
gatta in
calore. Roteai gli occhi al cielo. Era mai possibile che esistesse
almeno un
essere dotato di vagina che non ci provasse con quel microcefalo?
«Lei
cosa desidera… Mister…?» e ridacchiò.
Per
Simone, era come se lo avessero invitato a ballare direttamente un
tango
orizzontale nel bagno dell’aereo, così cominciò a flirtare liberamente
con la
hostess, quasi io fossi invisibile.
In
un certo senso, me l’ero cercata.
Avevo
chiaramente detto al calciatore che non c’era nulla tra noi, e che i
suoi
patetici tentativi di abbordaggio non mi facevano né caldo né freddo.
In
verità, mi stava dando un fastidio che rischiava di farmi venire un
forte
prurito alla pelle.
«Se
non le dispiace, anche io un bel caffè… con molto zucchero. Amo le cose
dolci…»
e lasciò la frase in sospeso di proposito.
Che
razza di marpione. Dio mio! Quelle battute patetiche non avrebbero
fatto
effetto nemmeno sulla più stupida delle galline in gonnella, eppure la
hostess
bionda continuava a ridacchiare. Bene, dagli pure la soddisfazione di
essere un
bravo corteggiatore… perfetto!
Ecco
perché i ragazzi d’oggi non sanno più cosa sia la galanteria.
Se
la prima sciacquetta che incontrano è già pronta ad allargare le gambe
con una
simile battuta priva di qualsiasi charme…
Devo ricordarti chi di noi, tra i
presenti, ha “aperto le gambe” nemmeno ventiquattr’ore fa?
Tornai
al mio bel capitolo sui feudi, ignorando palesemente sia le battutine
semi-pornografiche che si scambiavano quei due, sia il Cervello che
cominciava
a fare di testa sua.
Meglio
studiare, prepararsi e continuare a mantenere la mente allenata. Si
trattava di
una vacanza, questo sì, ma sarebbe stata breve.
Passati
quei giorni di “festa” sarei subito rientrata in pista al fianco di
James,
contro St. James e la Cloverfield che voleva unicamente una fetta della
notorietà
di Simone.
«Sentito,
Ven?» mi disse d’improvviso Simone, distogliendomi dalle mie
riflessioni.
«Cosa?»
Lui
sorrise alla hostess. «È sempre nel suo mondo, troppo intelligente la
mia
piccolina!» ridacchiò strofinandomi il palmo sulla testa.
Piccolina?
Mia? Ma da quand’è che mi
apostrofava
con parole che non erano “nanetta” oppure “miss acidona duemilatredici”?
«Siete
proprio una bella coppia,» sorrise la signorina, salutandoci e
proseguendo con
gli altri ospiti del volo.
Mi
ero persa praticamente tutto il discorso. «Che cavolo le hai detto?»
ringhiai,
scostandogli bruscamente la mano che era ancora rimasta artigliata alla
mia
testa.
Simone
sghignazzò. «Nulla che non fosse vero,» disse tranquillo.
Mi
preoccupai di quella sua asserzione. Possibile che mi fossi immersa a
tal punto
nei miei pensieri, da non accorgermi che stesse sparlando di me?
Chiusi
il libro e minacciai Simone con 384 pagine di Diritto medievale. «Cosa.
Le.
Hai. Detto.,» ringhiai minacciosa.
Lui
fissò prima me, poi il tomo dall’aspetto minaccioso ed estremamente
polveroso.
«Vuoi farmi morire d’allergia?» chiese.
Lo
fissai assottigliando lo sguardo. «No, ma posso sempre colpirti con il
bordo e
farti spuntare un bernoccolo al centro della fronte!» sibilai.
Simone
alzò le mani in segno di resa. «Ma niente, la signorina è stata così
gentile da
offrirsi di togliermi questa macchia,» e si indicò i pantaloni con un
evidente
macchiolina di marmellata che si era sbrodolato mangiando una
crostatina, «nel
bagno dell’aereo, ma le ho detto che ci avrebbe pensato volentieri la
mia
fidanzata.»
Sgranai
gli occhi. «L-La t-tua cosa?» balbettai.
«Ma
adesso parli come quel coglione del fidanzato di mia sorella?» sbottò
lui.
Gli
afferrai il polso e strinsi, come se non ci fosse un domani. «Vuoi che
ti ripeta
anche in francese quello che ti ho detto prima riguardo al nostro
“rapporto”?»
ripetei.
Era
qualcosa che dovevo chiarire. Alla fin fine eravamo stati a letto
insieme, ma
trattandosi di Simone, avevo sempre creduto che non ci saremmo spinti
oltre dall’essere
friends with benefits.
Stranamente,
però, il modo in cui Simone aveva liquidato la hostess mi faceva
sentire
lusingata.
Non devi adagiarti sugli allori.
Ricorda, guinzaglio tirato.
Giusto,
non dovevo dargliela vinta altrimenti mi avrebbe rigirato come un
calzino.
Simone
sprofondò ancor di più nella poltrona. «Non sei divertente quando fai
l’acida
in questo modo. Stamattina lo eri molto di più,» brontolò, giocando con
il
laccio del suo cappotto.
Mi
si strinse il cuore a vederlo così afflitto. Come al solito, dando
retta alla
Ven “razionale” avevo spinto da parte e sigillato quella parte umana di
me.
Simone era un dongiovanni, questo lo avevo capito sin da subito, ma per
arrivare fin dove mi ero spinta con lui, avevo visto qualcosa oltre
quella maschera
che ostentava con tutti.
Controllai
che nonna Annunziata fosse ben intenta a finire la sciarpa di lana e
che
nessuno stesse guardando nella nostra direzione. Mentre aprivo il libro
per
finire il capitolo, lo lasciai sulle ginocchia e con la mano cercai
quella di
Simone, intrecciando le nostre dita.
Lui
sussultò a quel contatto ma non si scostò.
Con
la coda dell’occhio lo vidi sorridere e sorrisi a mia volta.
Eravamo
strani, lo ammetto, ma di una stranezza che cominciava a piacermi e a
cui mi
stavo lentamente abituando.
***
Una
volta scesi dall’aereo, raggiungemmo il rullo dove sarebbero stati
distribuiti
i nostri bagagli. Ovviamente, da che mondo e mondo, chiunque
sa che l’aeroporto di Fiumicino è famoso per la
caratteristica dei giorni interi passati a fissare il rullo prima di
avere
indietro i propri bagagli.
Mi
ricordo un anno, forse il viaggio della maturità, in cui attendemmo due
ore e
mezza prima che ci fossero rese tutte le valigie. Una cosa del tutto
inaudita.
Era durato meno il volo aereo, che il ritiro bagagli.
«Mettiti
comodo,» suggerii a Simone, trovando un gradino che sembrava piuttosto
accogliente.
Lui
mi fissò perplesso. «Perché?»
Sorrisi
quasi per la sua ingenuità. «Non lo sai che i nostri bagagli
arriveranno come
minimo tra un’ora? Se ci va bene, poi…» gli dissi.
Simone
stranamente non sembrò sconvolto da quella verità. Mi porse gentilmente
la
mano. «Alzati e vieni con me,» sorrise enigmatico.
Notai
che anche Celeste seguiva Leonardo, così come nonna Annunziata che
procedeva
dietro di loro. Rimasi sconvolta nel constatare che ci stavamo
dirigendo nel
gabbiotto dove c’era la sicurezza. Pensai subito che si fossero
ammattiti, o
peggio.
«Cosa
vuoi fare?»
Simone
non disse nulla, si limitò a farci entrare nella stanzetta dove un paio
di
poliziotti, con cani lupo al guinzaglio, scortavano i nostri bagagli
intonsi.
Anzi, per un nanosecondo pensai li avessero persino lucidati…
«Li
abbiamo controllati, è tutto apposto,» disse il capo della sicurezza a
Leonardo. «Sei pulito, campiò!» orrise, stringendogli la mano.
Capii
quella specie di “mafia” aereoportuale soltanto alla fine di tutta
quella
pantomima. I poliziotti ridevano e scherzavano coi due cugini Sogno,
lasciandosi fare delle foto e degli autografi solo per aver consegnato
loro i
bagagli prima degli altri comuni mortali.
Rimasi
completamente scioccata da tutto quello. Essere famoso ti spianava
delle strade
che altrimenti sarebbero state sbarrate ad un tipo come me, ad esempio.
Celeste
sembrava abituata, infatti, non faceva che sorridere e scherzare con
gli
agenti.
Nel
frattempo accesi il telefono, e scoprii che avevo due messaggi non
letti: uno
di James e l’altro…
hi,
spaghetti girl!
sei
atterrata? come va lì? fa freddo? fammi sapere se va tutto
bene.
xoxo
jamie.
Fissai
quel messaggio come se fossi caduta in trance. Lo avevo liquidato con
un “ci
sentiamo” la sera precedente, ma non mi ero nemmeno ricordata di fargli
una
telefonata o dirgli che fine avevo fatto.
Certo, magari dicendo “ciao
collega, sono andata via dal party per trombarmi selvaggiamente il
nostro
cliente – cosa che faccio ormai da tre settimane”.
Il
mio Cervello era particolarmente sarcastico in quel periodo di vacanze.
L’altro
messaggio non seppi se fosse il caso di leggerlo o meno. Non sentivo il
mittente da quando avevo lasciato Tivoli e la cosa lo avrebbe fatto
arrabbiare
molto. Eppure sapeva del mio arrivo. Di sicuro, mia madre ci aveva
messo lo
zampino.
Decisi
di togliermi quella curiosità.
guarda
te se ho dovuto sapere da tua madre che venivi in questi
giorni!
sei
incredibile, vennie. sappi che te la farò pagare in modi che
nemmeno conosci. intanto verrò a prenderti alla stazione dei pulmann.
sto
qui dalle sette di questa mattina, a congelarmi tra l’altro.
avrai
la mia salute sulla coscienza.
-m.
Già
questa la diceva lunga su chi mi sarei trovata di fronte persino prima
di
mettere ufficialmente piede a Tivoli.
Simone
mi si avvicinò di soppiatto. «Chi è?» chiese, sospettoso. Notò che
mettevo via
il cellulare con una certa fretta e cominciò ad accigliarsi. «Di nuovo
l’avvocatuncolo?
Ma lo sa che ci sono anche io? Sarebbe bene avvertirlo…» ghignò.
Sospirai
sonoramente alzando gli occhi al cielo. «La tua virilità rimarrà
intaccata. Era
Jamie ma voleva solo sapere se fossi atterrata e questo è un altro
messaggio
che non ti riguarda,» tagliai corto, afferrando il mio trolley e
dirigendomi
verso le fermate dei pulmann.
Simone
mi raggiunse con due falcate. «Tutto ciò che c’è su quel telefono mi
riguarda,»
disse serio.
Gli
rivolsi uno sguardo strano. Non sapevo se stesse facendo sul serio o
era
soltanto un modo per vedere se mi arrabbiavo. Davvero era così geloso
degli sms
che ricevevo?
Notai
che i suoi occhi diventavano sempre più scuri, man mano che continuavo
a
nascondergli la verità. Forse quella specie di cosa che c’era tra noi
due, si
stava sempre più allontanando dal modo giocoso con cui era iniziato
tutto.
Cercai
di tagliare la discussione il più in fretta possibile. «È solo
un’amica,»
sospirai, omettendo un particolare un po’ spinoso di cui non avevo
fatto mai
parola con nessuno. «Ci aspetta all’arrivo dei pulmann a Tivoli,» gli
spiegai.
Simone
parve subito ringalluzzito. Aveva tirato su la testa, lucidato la sua
cresta da
gallo cedrone e pettinato il bargiglio che gli penzolava dal mento.
Esibizionista.
«È
carina, questa tua amica?» ammiccò.
Riflettei
sul particolare che gli avevo omesso, poi pensai di divertirmi alle sue
spalle.
«Molto carina, ma non è il tuo tipo,» aggiunsi.
Nel
frattempo, Leonardo e Celeste ci avevano raggiunti con nonna
Annunziata.
Sapevamo bene che le nostre strade, da quel punto in poi, si sarebbero
divise.
Dovevamo salutarci.
«Come,
non è il mio tipo?» protestò subito Simone. «Tutte
le ragazze sono il mio tipo!» disse con ovvietà.
Riuscii
a trattenermi dal ridere a stento. Era troppo facile prendersi gioco di
Simone,
solo che cercai di rimanere nel personaggio il più possibile. Cosa
c’era di
male a prendersi gioco di lui nell’attesa del breve viaggio che ci
avrebbe
aspettato?
Nulla.
Infatti.
«Tesoro,
stammi bene durante questa breve vacanza. Può essere che convinca Leo a
salire
un po’ da te, chissà…» sorrise Celeste, abbracciandomi.
La
strinsi a mia volta. «Mi casa es tu casa,»
ridacchiai.
Lei
mi guardò un po’ apprensiva. Nei suoi occhi blu lessi molto più di ciò
che
voleva dirmi a parole, però si limitò a mettermi in guardia. «Stai
attenta,» e
lanciò uno sguardo esaustivo verso Simone che salutava sua nonna e
prendeva a
cazzotti Leonardo.
Lo
guardai anche io, sospirando. «Lo farò,» le promisi.
Non
sapevo quanto la mia migliore amica avesse intuito, ma era chiaro come
il sole
che ormai c’era qualcosa tra me e il calciatore. Era innegabile. Quegli
sguardi, quegli sfioramenti e le battutine erano inequivocabili ormai.
Avevamo
fatto il “salto” che ci aveva permesso di passare da acerrimi nemici a
focosi
amanti.
Salutai
Leonardo e nonna Annunziata, che mi promise di passarmi presto tutta la
sua
playlist dell’i-pod, poi ci dirigemmo con i trolley al seguito verso la
stazione dei pulmann.
«Dobbiamo
prendere il 547,» dissi, controllando bene il biglietto che avevo fatto
su
internet prima di partire.
Simone
sbuffò e alzò la mano. Il taxi bianco inchiodò di fronte a noi e per
poco non
mi mise sotto le ruote. «Che cazz…?» imprecai.
Simone
aprì la portiera e mi fece cenno di entrare. «Io non prendo i mezzi
pubblici,»
commentò, poi mi strappò la valigia dalle mani e mi spinse
letteralmente dentro
l’abitacolo dell’auto.
Scambiò
due parole col tassista, poi si sedette accanto a me e partimmo.
«Dunque,
un campione come lei cosa ci va a fare a Tivoli? Vuole rilassarsi alle
terme?»
chiese l’autista. Si sa che i tassisti, soprattutto quelli romani, sono
i più
chiacchieroni e impiccioni di tutto l’universo.
Simone
sorrise e mi passò un braccio attorno alle spalle. «Sono stato invitato
a casa
della mia ragazza,» ridacchiò, facendomi arrossire.
Immediatamente
l’uomo cominciò a farmi domande, ad interessarsi alla mia professione e
si
sorprese di sapere che non ero nessun tipo di modella, bensì un
quasi-avvocato.
Mi fece piacere parlare con quell’uomo, rese il viaggio molto più
leggero.
Mi
dimenticai persino che Simone avesse speso quasi un patrimonio per
portarci da
Fiumicino a Tivoli con il taxi. Era una cosa incredibile e se fossi
stata
completamente in me, mi sarei infuriata.
Soprattutto
perché avevo buttato le sette sterline del pulmann che avevo prenotato
tramite
internet.
«Dunque,
da quanto state insieme, se posso chiederlo?» domandò, imboccando
finalmente
l’uscita che dal raccordo conduceva sino a Tivoli.
Cercai
di rispondere per prima, per evitare imbarazzi, ma Simone mi
precedette. «Da
ieri, è stata una cosa piuttosto improvvisa.»
«Oh!
Un amore giovane, allora! Congratulazioni. E mi dica, signorina, com’è
stare
con una star del calcio come il signor Sogno?» domandò ancora.
Sembrava
di stare sotto interrogatorio. Stavolta sentii gli occhi di Simone
addosso,
come due calamite d’onice. Aspettava che rispondessi, il maledetto.
«Non
più strano di quanto sembri. Alla fine, la fama non è poi tutto questo
granché,» commentai, con la mia solita inflessione di acidità.
Il
tassista sorrise, Simone no.
Intravidi
un’ombra di broncio fanciullesco sul suo viso e mi compiacqui. Voleva
il gioco
duro? Allora doveva essere abituato anche ai colpi bassi come quello.
Si
vantava a destra e a manca che fossi la sua fidanzata, quando nessuno
aveva
deciso questo, così mi divertivo anche io alle sue spalle.
«Com’è
che siete diretti alla stazione dei pulmann?» s’informò il tassista.
«Un’amica
ci viene a prendere, che cara…» sorrise Simone, fissandomi.
Assomigliava
stranamente a Jim Carrey nel “Il grinch” con quel suo aspetto malvagio.
Ridacchiai
a mia volta. «Già, un’amica.»
«Beh,
allora siamo quasi arrivati,» annunciò il tassista.
Simone
mi si lanciò completamente addosso, spalmandosi sul finestrino opposto
per
sbirciare se riusciva ad intravedere la mia famosa “amica” dell’sms.
«Spostati!»
gli urlai, soffocando da tutti gli strati di stoffa che si era messo
addosso.
Sembrava addobbato come un albero di natale!
«È
quella biondina laggiù? O la moretta lì in fondo? Spero per te che non
si
tratti di quella laggiù perché è un mostro…» cominciò a criticare.
«Levati
di dosso, maledetto idiota!» sbraitai, poi finalmente il tassista
parcheggiò e
mi concesse di scendere e di riacquistare la capacità di respirare.
Simone
lo pagò e smontammo i bagagli dal lato posteriore della vettura,
dopodiché il
calciatore mi si affiancò, vedendo che sondavo le persone presenti
nell’ampio
parcheggio.
«È
lei?» mi disse, quasi accecandomi per indicare una ragazza bionda e
alta.
«No!»
ringhiai, afferrando il cellulare dalla tasca per sicurezza.
«Lei?»
chiese di nuovo, indicandomene un’altra.
«No,
te lo dico io quando si avvicina,» lo rassicurai.
Sondai
bene tutti i dintorni, cercando di riconoscere tra la gente chi avrebbe
dovuto
“scortarci” fino a casa e mi sorpresi di incrociare il suo sguardo
subito dopo.
Sorrisi.
«Andiamo,»
comunicai a Simone e cominciai a camminare verso un punto preciso del
grande
parcheggio. Era lì, avvolto in quel vecchio pastrano che avevo visto un
milione
di volte, con quella kefiah da anticonformista che si addiceva proprio
al suo
personaggio.
«Ehi,
‘spetta!» si lagnò Simone, seguendomi. Cominciò a notare con disappunto
il
particolare che fino a quel momento gli avevo saccentemente nascosto.
«Guarda
che in quella direzione ci sta solo un coglione con le basette di
Barbossa,
eh…» osservò piccato.
Ignorai
la sua protesta e mi avvicinai al suddetto ragazzo, che mi restituì un
sorriso
lungo da orecchio a orecchio. Allargò le braccia ed io lasciai andare
la
valigia per tuffarmici dentro e affondare in quel vecchio cappotto che
ancora
odorava delle prime sigarette che ci eravamo fumati insieme.
«Sei
arrivata, finalmente,» mormorò sorridente.
«E
tu hai mantenuto la parola e mi sei venuto a prendere.»
Lo
sguardo del ragazzo si spostò perplesso da me a Simone, poi di nuovo
sulla
sottoscritta. Simone mi fissava come se avessi appena fatto sesso in
pubblico
con il mio migliore amico. Era nero, cupo, arrabbiato e deluso.
«Sarebbe
lui la tua amica?» indicò il
ragazzo
con un indice.
Feci
spallucce. «Lo avevo detto che non era il tuo tipo…» gli feci notare.
«Comunque
lui è Mario, Mario, questo è Simone,» feci le dovute presentazioni nel
più
breve tempo possibile.
Via il dente, via il dolore.
Simone
e Mario si lanciarono un’occhiataccia gelida e si squadrarono, come due
cervi
pronti a prendersi a cornate per il territorio.
Mario
allungò la mano per primo. «Tu sei quel calciatore dell’Arsenal…
giusto? Mi
pare di averti visto in televisione…» sorrise.
Simone
gli strinse la mano, forte. Forse un po’ troppo
forte. «Sono io, peccato che non possa dire lo stesso di te,
visto che mi
sei sconosciuto.»
Inspirai
forte.
Cominciamo
bene, quei due si conoscevano da meno di due secondi e già tirava aria
di
tempesta. Mario era il mio migliore amico da sempre, da quando ne avevo
memoria.
Non ne avevo mai parlato con Simone, perché ormai non ci sentivamo da
mesi, da
quando ero partita. Soltanto Celeste sapeva quanto io e lui fossimo
legati.
Era
come mio fratello maggiore.
Sarebbe
stato meglio che avessi fatto una premessa a Simone, dicendogli che tra
me e
Mario non c’era mai stato nulla – nonostante ci avessimo provato,
davvero –
eppure ci avevamo riso sopra, perché il legame che si era instaurato
tra di noi
era del tutto fraterno e inscindibile.
Ma
chi ero io per privarmi di uno spettacolo simile?
Divertirmi
alle spalle di Simone per quasi una settimana, vedendolo rodersi il
fegato e
facendosi chissà quali filmini mentali su me e Mario che ci davamo
dentro come
conigli… imperdibile.
«Bene,
bando alle ciance. Andiamo a casa, sono esausta,» sospirai.
Veloce
come un fulmine, Mario afferrò il trolley e mi scortò verso la sua
auto,
ridacchiando.
«Posto
davanti? Come sempre?» sorrise ed io ricambiai.
«Come
sempre!»
Dietro
di me, giurai di aver sentito Simone cominciare a fare il verso,
borbottando un
“Come sempre” piuttosto infastidito.
Oh,
quella sarebbe stata una vacanza memorabile!
*si prostra ai piedi delle sue fanzzzzz*
Avete tutto il diritto di picchiarmi/legarmi/seviziarmi/frustarmi
*sembra una scena di 5O sfumature* perché non ho scusanti stavolta!
Avrei dovuto rispondere alle recensioni, ma non l'ho fatto. SONO PIGRA!
T_T
E' grasso che cola che mi metta a scrivere di tanto in tanto #fugge.
Comunque, è stato di recente il mio compleanno - per non dire
"comple-vecchiaggine" visto che ormai (alla veneranda età di
diciott'...ehm ventidu... ehm... VENTICINQUE anni) non riesco
minimamente ancora ad organizzarmi. No, no.
Vi giuro che mi ci metto, visto che fuori piove. Debbo recuperare il
tempo perso e mandare avanti questa storiella *w*
Come ringraziarvi per le 15 recensioni dello scorso capitolo??? *BALLA
LA CONGA* il record!
Ora non mi siedo assolutamente sugli allori, ma vado avanti per la mia
strada! -ESAMI PERMETTENDO - TT_TT
Bai bai gente! Al prossimo capitolo! :3
//marty
Ah! Ieri ho pubblicato la prima OS partecipante alla challenge che
abbiamo indetto io e wifuccia [x],
ovviamente su Arrow.
Non c'è scadenza né premi. Libertà totale! :3
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