Inception - Bersaglio facile
Bene, la prima fanfiction che scrivo in questo fandom.
Devo confessare
che questo pairing, all’inizio, non mi diceva nulla e ce lo
vedevo anche poco, però dopo aver letto alcune cose bellissime
mi sono appassionata ed ora li ADORO!
Spero di avergli
reso giustizia, questa è solo una cosina, penso di poter fare di
meglio, ma sono dell’opinione che bisogna seguire
l’ispirazione!
Mi rendo conto che non è un fandom frequentatissimo, però qualche commento mi farebbe piacere, grazie fin da ora.
I personaggi
appartengono ai legittimi autori e sono usati senza scopo di lucro. La
canzone che introduce la storia è “Every word was a piece
of my heart” di Jon Bon Jovi.
Vi lascio alla lettura.
Sara
- Bersaglio facile -
You know that I love you, but I hate you
'Cause I know I can never escape you
Let the choir sing
For tonight I'm an easy mark
Arthur apre gli
occhi piano, non mette subito a fuoco. Per un lungo momento pensa di
essere al lavoro, perché non ricorda minimamente come è
arrivato in quel letto, però ha in bocca e nella testa qualcosa
che somiglia troppo ai postumi di una sbornia colossale – di
quelle che risolvi a stento con uno zabaione doppio e quattro pillole
di paracetamolo – per non rendersi conto che è la
realtà.
Mastica a vuoto e
si passa una mano tra i capelli, mentre si guarda attorno. È una
camera d’albergo, forse quella che Saito gli ha fatto trovare
prenotata in un hotel di lusso. L’arredamento è
minimalista, elegante, di suo gradimento. Ricorda vagamente di aver
fatto scattare la serratura elettronica, ma potrebbe essere benissimo
una di quelle del sogno del lavoro Fisher.
Deve cercare di
ricordare la sera precedente, oppure trovare il suo totem,
perché è troppo brutto un sogno dove sei bloccato in un
letto ed il tuo alito sa di fogna.
La sera prima, il giorno prima…
Sì, il giorno prima è facile: c’è stato il lavoro Fisher.
Un cazzo di
fottutissimo ingorgo in cui hanno rischiato di rimanere incastrati
tutti quanti. Prima per un suo stupido errore, poi per… No, non
vuole sapere cosa è successo nella parte di sogno dove lui non
c’era, è stato abbastanza complicato risolvere un calcio
in assenza di gravità. Alla faccia di chi gli ha sempre
rimproverato di avere poca fantasia.
Certo, deve
ammettere di essere un po’ curioso, riflette, fissando il
soffitto color crema. Potrebbe chiedere ad Ariadne, lei certamente gli
racconterebbe cosa è successo. Probabilmente lo farebbe anche
Eames…
Eames, cazzo!
È una rivelazione improvvisa che gli fa accelerare il cuore. Ora ricorda.
All’uscita
dell’aeroporto hanno diviso un taxi e Arthur ricorda di aver
rimproverato al falsario che era pericoloso, con Fisher ancora vicino.
Lui lo ha ignorato con una scrollata di spalle ed un insopportabile
sorrisetto dei suoi, poi gli ha proposto di cenare insieme.
Arthur ha
ponderato di rispondere di no per qualcosa come cinque secondi, poi ha
accettato, forse per il cervello ancora annebbiato dai composti di
Yussuf e dall’adrenalina del sogno.
Non ha pensato
nemmeno per un istante che possa essere a causa di quel filo di
tensione che è sempre scorso tra lui ed Eames e che Arthur ha
opportunamente classificato come irritazione e che, invece, è
tutt’altro.
Ricorda sprazzi della conversazione a cena.
“Non vuoi proprio dirmi come hai risolto il calcio senza gravità?”
“Hm, che dire… forse non sono banale come pensi…”
“Non ho mai pensato che tu fossi banale, darling.”
“E cosa, allora? Noioso?”
“Affascinante.”
Oh, Dio…
Ma gli ha sorriso? Quando lui gli ha fatto quel complimento con un
sorrisino malizioso e complice? Gli ha sorriso? Anche se Eames
indossava una camicia di seta con un’orrenda – seriamente
orrenda – fantasia a fiori tropicali?
Si sono scolati tre bottiglie di vino a cena. Forse per quello gli ha sorriso.
Poi sono andati al bar, perché non gli bastava, evidentemente.
No, non perché voleva stare ancora con lui, questo no.
Tra shot di
tequila e risate sul nulla – ubriachi, troppo – Arthur ha
raccontato ad Eames tutto del calcio, dell’ascensore, della
dinamite, di loro legati insieme col filo del telefono. Eames ha riso,
forte e si è complimentato con lui per
l’originalità e gli ha dato pacche sulle spalle.
Una di quelle
pacche, senza preavviso, è diventata una carezza calda sulla
nuca di Arthur. E il ghigno di Eames è diventato un sorriso
dolce, mentre si guardavano con gli occhi illanguiditi dall’alcol.
E allora si sono
alzati, sono usciti dal bar, hanno percorso l’atrio –
sempre guardandosi negli occhi – e sono saliti su un ascensore
pieno di specchi.
E, dopo, Arthur
– sì, Arthur! – ha spinto Eames contro quegli
specchi e lo ha baciato, mentre tutto intorno rifletteva
l’immagine delle loro bocche attaccate.
Poi un campanello
ha annunciato il piano e le porte si sono aperte e loro sono scivolati
nel corridoio, continuando a baciarsi, a toccarsi, a sfilarsi le
camicie dai pantaloni.
Non sa come hanno
indovinato la porta, ma la sensazione è che Eames regga
l’alcol meglio di lui. Ad ogni modo, Arthur ha aperto e
poi…
Poi, cazzo…
“Non posso averlo veramente fatto.” Si dice Arthur a bassa voce, con una mano sul viso.
Si guarda ancora
intorno, cerca di mettere a fuoco il pavimento nella parte più
buia della camera. Ci sono vestiti sparsi. Sì, c’è
anche la bruttissima camicia di Eames.
“Merda.” Impreca Arthur a denti stretti.
Comincia a
pensare di non riuscire a muoversi perché a bloccarlo
c’è quasi sicuramente un braccio di Eames. Abbassa gli
occhi sul proprio petto nudo. Sì, c’è un braccio
muscoloso e tatuato che gli stringe la vita.
Merda alla seconda, pensa alzando gli occhi al cielo.
Con manovre degne
di un contorsionista piuttosto abile, riesce a districarsi dalla presa
dell’altro uomo e a scendere dal letto senza fare rumore. Eames
borbotta, ma non da segni di essersi svegliato. Arthur comincia a
cercare i suoi abiti imprecando piano.
Gli viene un
dubbio, ad un certo punto. Si mette dritto e ascolta il proprio corpo.
Gli fa solo un po’ male il collo ed il suo stomaco brucia come
l’inferno, ma non ci sono altri dolori sospetti, in punti del
corpo compromettenti. Forse non sono andati fino in fondo.
Cerca il suo
totem nelle tasche della giacca che indossava, perché ancora
spera di essere in un sogno e che tutto quello non sia successo davvero.
“Dimmi che
è un sogno, dimmi che è un lavoro…” Ripete
come un mantra, mentre fruga nell’elegante capo
d’abbigliamento.
“No,
decisamente non è un sogno.” Mormora una voce arrochita
dietro di lui, facendolo gelare sul posto. “Perché io sto
davvero ammirando il tuo bellissimo culetto bianco.”
Arthur si gira
lentamente verso il letto, con in faccia un’espressione omicida e
trova ad attenderlo il sorriso assonnato di Eames.
“Buongiorno,
darling.” Lo saluta rilassato. “E, comunque, dovresti
sapere che ciò che succede nei sogni, per il cervello, è
reale quanto quello che provi davvero, quindi non fa differenza se
siamo in un sogno o no.” Spiega poi, con un irritante tono
saccente.
“Fottiti.” Sibila Arthur.
“Oh, avrei
tanto voluto!” Replica allegro lui, con quel suo fottuto, sexy
accento inglese. “Ma tu sei venuto e ti sei addormentato, mentre
io avevo ancora la bocca sul tuo…” E fa un cenno verso il
basso del corpo dell’altro.
Arthur avvampa e si copre le pudenda con la giacca che ha ancora in mano.
“Sai, amore, sei delizioso quando fai la verginella.” Afferma Eames e ride piano.
“Non chiamarmi ‘amore’!” Sbotta Arthur.
“Ti è sempre piaciuto che lo facessi.”
“Non
è vero!” Si difende lui, ma è arrossito di nuovo,
poi si siede sul bordo del letto sospirando. “Cosa abbiamo che
non va, noi due?”
“Niente.”
Fa Eames rilassato, sistemando le braccia sul lenzuolo che lo copre
fino alla vita. “Siamo attratti uno dall’altro, tutto
qui.”
“Ohh, e da cosa lo avresti dedotto questo?”
“Beh,
lasciando stare le tue implorazioni di stanotte, che non posso riferire
alla luce del giorno perché troppo lascive e
volgari…” Arthur incassa la testa nelle spalle,
nascondendogli il viso, ma Eames sorride furbo. “…ci
sarebbe il bacio del lavoro Von Braun.”
“Stavamo morendo, Eames.” Obietta Arthur.
“Non
veramente, darling.” L’altro sbuffa. “E al risveglio
non mi hai neanche salutato, dovrei essere ancora molto offeso, tanto
da rifiutarti anche il servizietto di stanotte…”
“Ti
prego!” Supplica ostile Arthur. “Era solo un bacio e non so
perché l’ho fatto, era stato un bel lavoro, finito di
merda, ma… E comunque non è più successo
niente.”
“Come no!” Sostiene con vigore Eames. “Ci siamo baciati anche durante il lavoro March.”
“No, non me lo ricordo assolutamente.” Nega Arthur scuotendo il capo.
“Mi hai anche toccato le tette…” Afferma furbo l’altro.
Arthur si gira con espressione incredula e fissa il sorriso soddisfatto di Eames.
“La rossa… Eri tu!” Esclama poi, sconvolto. “Tu! Brutto cazzone…”
Lui risponde con
un’eloquente alzata di sopracciglia ed il solito sorriso
sornione. Arthur deve ammettere che quando sorride in quel modo gli
farebbe di tutto. E niente di questo tutto può essere riferito
in fascia protetta.
Sì, va bene. È attratto da Eames. Molto attratto da Eames. Schifosamente attratto da Eames.
Inutile
continuare a negarlo dopo che ci ha passato la notte insieme e che
hanno avuto un così stretto scambio di liquidi corporali. Che
ora ricorda.
Ricorda
perfettamente baci umidi a bocca aperta. Carezze poco caste. Vestiti
che volano. Imprecazioni. I propri gemiti conditi da affermazioni
irripetibili. Le labbra carnose di Eames sulla pelle, che scendono sul
suo petto, sul suo inguine… Il piacere che arriva ad ondate
sempre più intense.
“Dai, amore, vieni qui…” Lo prega Eames con dolcezza.
Sa che se si girasse lo vedrebbe guardarlo con occhi caldi e magari la mano tesa verso di lui.
“No.” Risponde però, nonostante voglia andare da lui.
Si alza dal letto
e corre in bagno. Come una neosposa casta e pura. Come non avesse il
culo al vento e i capelli indecentemente spettinati.
Eames lo segue con gli occhi, un po’ deluso.
Passano lunghi minuti in cui gli unici rumori sono lo scarico del gabinetto e acqua che scorre.
Eames sospira e si accomoda i capelli. Non ha mai pensato che con Arthur sarebbe stato semplice.
Prima di tutto
Arthur non è uno che si concede, anzi. È un fottuto
cacacazzo pignolo e pedante, con la fissa delle cose fatte a regola
d’arte, che non cede a facili lusinghe, che non si fa sedurre da
un bel sorriso, che è capace di metterti i bastoni tra le ruote
anche mentre te lo scopi.
Ma è Arthur.
E tanto basta a Eames per non smettere di tentare.
Non sa nemmeno
lui come Arthur sia diventato il punto fermo in mezzo al mare dei suoi
flirt, delle scopate occasionali, delle avventure più o meno
serie. Quello che, anche se lo vedi ad intervalli più o meno
irregolari, vale la pena di provarci. Sempre.
Sono dieci anni
che si girano intorno. Perché Eames è perfettamente
consapevole di non essergli indifferente, che anche lui è
interessato. Eppure, nonostante quei baci rubati, non era mai successo
niente.
Non erano mai arrivati ai livelli della notte precedente.
Ma Arthur – oh, il suo Arthur! – era pieno di tequila come una barrique messicana.
Eames si domanda scoraggiato se non sia per quello che si è concesso così facilmente.
Ora, però,
il cielo si fa chiaro oltre la grande finestra semi coperta dalla tenda
chiara e continuare a farsi domande non sarebbe da Eames.
È andata
com’è andata. Ha preso quel che ha potuto –
più di quello che avrebbe mai pensato – ed è il
momento di un’educata uscita di scena.
Passerà del tempo prima che si rivedano. Potrebbero essere mesi o anni, addirittura.
Gli provoca uno
strano peso nel petto realizzare che potrebbero passare anni prima che
possa rivedere Arthur. Prima che possa di nuovo guardarlo negli occhi,
provocarlo con qualche battuta, lavorare con lui, solo sfiorarlo
fingendo di farlo senza intenzione.
Cazzo!
Con uno sbuffo frustrato, Eames esce dal letto e comincia a radunare le sue cose.
Meglio togliersi
di mezzo finché lui è in bagno, così non lo
costringerà a dei saluti imbarazzati e imbarazzanti.
Perché
Eames conosce Arthur e sa che lui, certamente, si è già
pentito di quello che è successo e sta cercando una soluzione,
rintanato di là.
Si è
appena infilato i suoi boxer fortunati – Cristo, mai così
fortunati! – quando sente la porta del bagno aprirsi. Non si
gira, cerca i pantaloni.
“Eames.” Lo chiama piano Arthur. “Te ne vai?” Chiede poi, sembra sorpreso.
Lui scrolla le
spalle e si volta, trovando un sorriso di circostanza. Arthur è
fermo sulla porta, indossa le mutande e una t-shirt, i capelli
perfettamente pettinati. Eames spalanca un po’ gli occhi.
“Beh,
pensavo…” Biascica il falsario. “Non vedo
cos’altro potrei fare, dopo che sei scappato in bagno.”
“Non sono scappato.” Borbotta l’altro, abbassando e deviando gli occhi.
Non sei un bravo bugiardo, amore. Pensa Eames con un sorriso storto.
“No? E, allora, sei cosa? Fuggito?” Replica divertito.
“Eames, cazzo…” Sbotta Arthur.
“Tranquillo.”
Fa Eames a mani alzate. “Non voglio metterti in imbarazzo, due
minuti e me ne vado, la mia stanza è in fondo al
corridoio…”
“Hai ragione.” Lo sorprende l’altro, interrompendolo.
Eames alza gli
occhi e lo fissa un po’ perplesso. Ha i pantaloni in mano e la
gamba destra alzata a mezz’aria nel gesto d’infilarseli.
Si raddrizza,
abbassa la gamba e le braccia e continua a fissarlo, finché un
suo sopraciglio si alza e l’espressione si fa ironica.
“Tu, mi stai dando ragione, darling?” Gli chiede divertito.
“Sì.” Ammette timidamente Arthur.
“Tu odi darmi ragione.”
“Sì.” Conferma asciutto l’altro. “Ma fammi spiegare…”
“Sono tutto orecchie, amore.”
Il suo tono
fastidiosamente compiaciuto e ilare sta proprio per far saltare i nervi
di Arthur, già al limite per via di quello che sta per dirgli.
“Credi che
sia facile parlare, dopo quello che è successo stanotte?”
Fa Arthur. “Tra l’altro indossi delle mutande orrende che
mi rendono difficile la concentrazione…”
Eames abbassa gli
occhi sui suoi boxer di seta di un abbagliante color verde bordato di
marrone. Ma come? Orrendi i suoi boxer super fortunati, che hanno avuto
il supremo onore di essere violati dalle dita di Arthur? Sei cattivo, piccolo mio… Pensa.
“Se vuoi posso toglierle.”
“Eames!”
“Arthur.”
C’è
qualcosa nel tono di Eames, mentre per la prima volta da molto tempo lo
chiama per nome. Arthur lo guarda negli occhi e non c’è
malizia, non c’è provocazione, né ironia. Sono
sinceri e profondi, quegli occhi chiari, mentre lo fissano con dolcezza.
“Tu mi piaci, è vero.” Confessa alla fine Arthur.
Eames sorride
appena, abbassando gli occhi. Ok, lo ha capito da un pezzo, ma è
bello sentirselo dire. E fa anche un po’ paura.
“E, beh, ti
odio.” Continua Arthur, strappandogli un sorrisetto consapevole.
“Ti odio, sei insopportabile, chiaro? Però… mi
piaci.”
“Oggi sei un bersaglio facile, darling.” Replica Eames sbuffando un sorriso.
Arthur lo guarda
malissimo. Lui adora quando aggrotta la fronte in quel modo e
assottiglia i suoi occhi scuri in un’espressione minacciosa.
“Se vuoi che rimanga, basta che lo chiedi, Arthur.” Dice allora Eames.
Perché,
alla fine, gli piace il suo nome. Se usa quei vezzeggiativi lo fa per
provocarlo. E per far finta che questa cosa sia meno importante di
quello che è.
Arthur sbuffa,
guarda altrove, poi sospira e rilassa le spalle. Sembra molto
più giovane di quando imbracciava un fucile di precisione contro
la sicurezza di Fisher.
“Resta.” Esala infine, quasi contro voglia.
E allora Eames
sorride e butta i pantaloni che aveva ancora in mano. Si avvicina a
lui, finché gli è abbastanza vicino da costringerlo ad
alzare la testa; allora allunga una mano e gli accarezza la pelle
morbida sotto l’orecchio, la mascella, il collo.
Arthur, a quel tocco, sospira e socchiude gli occhi. Ah, allora gli piace! Davvero!
“Adesso me lo dici cosa sei andato a fare in bagno?” Gli chiede dolcemente Eames, prima di baciargli il mento.
Lui sospira indeciso, forse si vergogna.
“Sono
andato…” Gli sfugge un sospiro, stavolta di piacere non
trattenuto, perché Eames gli sta baciando il collo.
“…a lavarmi i denti…”
Eames si scosta da lui, lo guarda con occhi brillanti e poi ridacchia allegramente sorpreso.
“Ti sei… lavato i denti.” Fa poi, incredulo e sempre più divertito. “Veramente?”
Arthur sbuffa, gli da una spinta e mette su un’espressione offesa.
“Certo che
l’ho fatto!” Esclama. “Dovevo parlare con te e non
potevo farlo tranquillamente con quell’alito orrendo!
Perché devi sempre complicare le cose, eh?”
Ma Eames lo sorprende sempre e dovrebbe saperlo. Non è da uno che fa il suo lavoro, farsi sorprendere da tipi come Eames.
Lui gli sorride,
con una dolcezza ed una sincerità disarmanti e, allora, anche
Arthur non sa più cosa dire, ne ha più la forza
d’inveirgli contro. Esala un respiro arreso.
Eames lo prende per i fianchi e se lo avvicina. “Vieni qui.” Gli sussurra morbido.
Arthur fa finta di non averne troppa voglia, ma si fa più prossimo al suo corpo solido.
“E
così…” Sussurra Eames al suo orecchio.
“…il mio perfettissimo Arthur non era così
perfetto, per una volta.” Mormora contro la sua pelle. “Il
mondo cadrà entro l’ora del the…”
“Quanto sei
stronzo!” Ridacchia Arthur nella sua clavicola, mentre Eames gli
solletica la schiena sotto la maglietta.
Sono ormai allacciati in un precario balletto sulla moquette coperta di vestiti sparsi.
“Dio, ti mangerei…” Mugugna Eames affondato nel collo di Arthur.
“Limitati a non rompermi una costola, per ora.” Replica lui, prima di succhiargli il lobo di un orecchio.
Inciampano,
cadono sul letto. Eames sta attento a non rompere davvero qualcosa ad
Arthur. Ridono e si baciano. E non sono più ubriachi. La
maglietta di Arthur finisce sul pavimento insieme all’altra roba.
Ed è tutto perfetto.
Tranne un piccolo particolare che disturba la visione d’insieme di Arthur.
“Mr. Eames…”
“Dimmi, amore…”
“Le tue mutande sono davvero inguardabili.”
“Se vuoi posso toglierle.”
“Sì.”
E quando un
raggio di sole colpisce le mutande verdi di Eames, ormai cadute in
terra, Arthur sorride. Sorride e sa per certo che non è un
sogno. Perché in nessuno dei suoi sogni Eames indossava delle
mutande verdi. In nessuno dei suoi sogni erano stati così
realmente vicini, pelle contro pelle, respiro nel respiro.
E fanculo se è Eames e questa cosa sarà maledettamente imprevedibile e spaventosa.
In nessuno dei sogni di Arthur tutto era così assurdamente perfetto.
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