Salve! La storia su Albus e
Gellert avevo
iniziato a pubblicarla da circa un mese, ma dopo ho deciso di fermarmi,
essendomi accorta di aver sbagliato troppe cose, non avendo ben
compreso il
libro prima di poter mettere le mani sulla traduzione in italiano. Ad
esempio,
credevo che Balthilda fosse studentessa ai tempi di Al, invece era la
vicina di
casa nonché la zia di Gellert… quindi ripubblico
questo primo capitolo, e man
mano modificherò la storia, sperando che qualcuno abbia il
cuore di seguirmi! Grazie
mille! Devo scusarmi con chi mi ha commentato, in particolare sakijune,
harryely e chi mi ha salvato tra i preferiti... se volete
scriverò per voi i prossimi capitoli, impegnandomi a seguire
la trama accennata dalla Rowling, o almeno non variare il carattere e
le informazioni che lei ci ha donato...^^
THE GREATER GOOD- UNO
Lo
vedeva passeggiare con in mano un libro
sdrucito, incartapecorito e sul volto lo sfigurava
l’espressione inquieta di
chi sa troppo e vorrebbe rivelare agli altri un mistero grosso quanto
un
macigno. Camminava troppo velocemente, solo Fanny riusciva con le sue
ali
leggiadre e infuocate, a stargli dietro, e a volte lo beccava per
indurlo a
fermarsi. Ma il giovane uomo indugiava, si rifiutava di stare al pari
con la
gente normale, lui voleva essere sempre anche solo per un passo
più vicino al suo
futuro, lui nascondeva un piano geniale e malefico, in quel libro scuro
che
puzzava di muffa e pelle di drago mal conciata.
Lui
veniva da una famiglia del Nord, aveva
visto crollare imperi e morire i suoi cari nelle guerre di
indipendenza, aveva
scorto la neve nello stesso istante in cui aveva aperto gli occhi per
la prima
volta. Non aveva mai posseduto una donna, non gli interessavano certe
cose, gli
bastava sentirsi superiore in ogni campo, per sentirsi appagato e
sicuro di
fronte ai cambiamenti del mondo. Era stato costretto a fuggire, nei
giorni in
cui i Babbani avevano perso la testa, nell’epoca delle
brigate con la svastica
sul braccio e l’espressione beffarda, inferocita, da belva
affamata che sfigurava
i loro volti. Grindelwald aveva assistito all’inizio del
Reich dalla sua
scuola, Dumstrang, con il cuore che scoppiava, tra
l’ammirazione per tanto
ardore e l’orrore della morte, che veniva a strappare dal
letto suoi
compagni e la gente dei dintorni, con l’insistente tocco
freddo della sua falce
aguzza, tagliente.
<<
un giorno arriverà anche per te,
amico >> gli disse un compagno, dandogli una pacca veloce
sulla spalla.
Erano rassegnati. Tutti avrebbero fatto la stessa fine. Ma lui no.
Aveva
scansato quell’opportunità, MORIRE,
AH!e aveva capito che lì, a Dumstrang, nessuno avrebbe
potuto aiutarlo, a
sconfiggere colei che conduce con sé la fine, quella signora
in nero, l’unica
sovrana a cui perfino i generali più valorosi si
inchinavano. Lui non sarebbe
morto.
Con
un pugno di soldi e un incantesimo di
smaterializzazione, aveva salutato la gente sdentata con il sangue
grumoso
ancora attaccato alle ferite sulla pelle giallastra e stanca, aveva
detto addio
alla neve e ai monti, percorso all’indietro
l’Europa, per giungere nella terra
circondata dalle acque, dove ancora la minaccia
dell’inflazione, delle
persecuzioni, della morte per una fucilata ben assestata erano ancora
vagheggiamenti per superstizioni e donne insoddisfatte,
perché i giornali
dicevano che andava tutto bene, i tea delle cinque venivano dilapidati
con
sfarzo ogni giorno nei salotti delle belle signore opulente, e i lord
ancora
passeggiavano per Picadilly con passi baldanzosi, gesti plateali.
Grindelwald
aveva scorto tutto questo in una passeggiata ininterrotta che
durò per due
giorni, scrutando in ogni finestra, respirando il fasto e la gioia,
sentendosi
sporco nella sua tenuta da contadino povero, credendo che lo avrebbero
sbattuto
in carcere perché puzzava come un villano e faceva paura
quella sua barba
incolta e la testa su cui non troneggiavano cilindri o bombette, e
quelle mani
pesanti e scure, che potevano essere mani da assassino, e gli occhi
foschi,
disillusi, in cui aveva celato, con molte difficoltà, il
pressante desiderio di
sopravvivere, di trascendere l’umanità, cedevole,
fragile come la neve al sole,
di diventare quasi simile a Dio, anche se Grindelwald dubitava della
sua
esistenza.
Si
trovò un appartamento poco distante
dalla capitale, in un posto in cui nemmeno i topi avrebbero voluto
vivere, una
stanza dalle pareti fatiscenti, dove l’intonaco profumava di
merluzzo e la
carta da parati a fiori si staccava al minimo tocco, crollando e
mostrando le
macerie di un’epoca sull’orlo di una crisi di
nervi. Ma poteva permettersi solo
quel posto, senza acqua calda né riscaldamento, senza una
cucina decente ed un
bagno dove poter cagare in santa pace, un posto che non era tale, un
posto
degno solo di esser chiamato bunker. Ma lui poteva permettersi solo
quello, e
poi non aveva tempo per trovare altri problemi su cui crucciarsi. Di
grattacapi
per una sola esistenza ne aveva già abbastanza. Quando i
proprietari della
dimora videro chi sarebbe stato il loro affittuario, un ragazzo dagli
occhi
neri, pericolosi, spudorati come tutti i tedeschi e la loro razza,
ebbero un
tremito nell’intimo, ma non lo lasciarono a vedere: gli
inglesi non si
sarebbero mai fatti mettere i piedi in testa da nessuno.
<<
se vuoi vivere qui devi sganciare
la grana il cinque di ogni mese. Non puoi pagarci neanche un giorno
dopo, o
stai ai patti, o sloggi >> gli disse il padrone, un uomo
macilento con
un’eterna canottiera unta di olio che non nascondeva il petto
villoso e
ripugnante.
Grindelwald
aveva annuito velocemente
<< stia tranquillo. Pagherò per la topaia come
stabilito. Non dovrà
preoccuparsi di questo. Ma starò ai patti se voi e il resto
del condominio
farete finta che io non esista. Sono un giornalista, e devo vivere in
solitudine per scrivere dei pezzi convincenti >>
L’uomo
macilento aveva alzato un
sopracciglio, poco convinto, e la bocca, nascosta da un paio di baffoni
scuri,
aveva assunto una piega di disprezzo. Ecco, questo è un
altro finocchio che si
paga da vivere con il suo corpo. Dovrebbe almeno lavarsi, prima, ma
forse a
qualcuno piace l’odore di sporco, aveva pensato il padrone,
ma temendo che
dando voce alle sue idee quel tedesco strano lo avrebbe mandato al
diavolo, o
peggio ucciso, rimase in silenzio, perché quei soldi gli
servivano, e per la
gente del popolo non andava sul serio tutto bene: il pane iniziava a
scarseggiare, non c’erano soldi per pagare le rate della
propria casa, le
giovani figlie dovevano smettere di stare in casa a filare la lana e
dovevano
sfasciarsi la schiena pure loro, a vendere mele al mercato o peggio, a
falciare
i campi e a farsi venire le rughe a quindici anni. Grindelwald lo
capì molto
dopo, quando Albus gli mostrò quel mondo, quando quel
giovane dai capelli rossi
e dagli occhi buoni e limpidi, lo portò in un campo, dove
fecero l’amore senza
che se lo avessero stabilito all’inizio, e scoprirono
l’amarezza di quella
terra. Ma allora, all’epoca del trasferimento dettato dalla
asfissia provata
nella sua terra natale, all’epoca in cui Albus passava la
vita sui libri
domandandosi come avrebbe potuto aiutare sua sorella Ariana e come si
sarebbe
fatto valere, nella vita, se nemmeno Aberforth suo fratello, sapeva
amarlo, il
futuro e i suoi problemi non erano mai parsi così distanti.
Quasi un'illusione
per le monache e i frati sdentati. Albus sapeva di essere diverso, e la
cosa lo
divertiva e lo intralciava diverse volte. Non avrebbe però
mai creduto, quando
anni dopo, avrebbe visto il cadavere di Grindelwald, il suo bel viso da
straniero insanguinato e senza vita, non avrebbe mai creduto che
avrebbe dato
tutta la sua intelligenza, le sue stranezze, ogni sorta di ingegno in
lui
albergante, per essere suo fratello, per essere il più
povero dei miserabili,
per non essere l’acclamato difensore del bene e della magia,
la maschera
permanente che da allora avrebbe accompagnato quell’uomo per
il resto della sua
esistenza.
Fu
un giorno di primavera quello in cui
Albus e Grindelwald si incontrarono per la prima volta. Erano troppo
giovani, e
credevano di poter tener in pugno il mondo intero quando si guardarono,
si
cercarono, si trovarono, e parlarono per due ore sotto
l’insegna sbilenca e
scheggiata della Testa di Porco, mentre la natura si svegliava ed uno
strano
tepore avviluppava le loro guance giovani e rilassate. Fu quello, il
principio
della fine.
Continua,
ma solo se lo volete voi!!
Fatemi sapere, Maria
|