fearless2
Note:
Per
prima cosa, è successa una cosa chiamata real life e subito dopo che
ho mangiato le mie serate libere guardando Teen Wolf e innamorandomi
di un altro pairing. Senza vergogna.
Per
seconda cosa: trovate questa fanfiction anche su AO3. Per esperienza
conosco e apprezzo la comodità di un sito con buona grafica per la
lettura e soprattutto la possibilità di scaricare
direttamente nel formato preferito, per cui ho caricato Fearless
anche lì.
Infine:
sono una “new entry” nel mondo delle fanfiction? No. Ho
pubblicato per molto tempo fanfiction, con un altro account, in
diversi fandom, tra cui questo. Quell'account ora non esiste più,
quelle fanfiction nemmeno; magari non ci siamo mai “incontrati”,
magari sì, magari avete già letto o seguito qualcosa di mio...
chissà. In ogni caso, vi saluto, auguro una buona lettura e
ringrazio per consigli, critiche, o anche un invisibile passaggio.
Epo.
*
II.
Una
crepa ci attraversa, nella sua imperfezione ci unisce e allo stesso
tempo ci separa
(da
Mondo di seconda mano, di Katherine Min)
*-*-*
Se
si fosse soffermato per qualche istante a rifletterci, si sarebbe
reso conto di essersi addentrato in un'inopportuna strada di
testardaggine e insistenza. Anni adolescenziali di cotte impossibile
verso compagni di scuola irrimediabilmente eterosessuali gli avevano
se non altro insegnato il dignitoso limite delle attenzioni
indesiderate e che a volte fosse meglio – meno doloroso –
rinunciare a priori, piuttosto che fissarsi su un'irrealizzabile
fantasia.
Se
si fosse soffermato a pensarci, si sarebbe reso conto di come la
porta sempre chiusa, i biglietti stringati, gli incontrati evitati
fossero messaggi e segnali ben chiari dell'opinione di Blaine circa
la costanza quotidiana con cui lui si presentava davanti alla sua
porta dopo le commissioni della giornata.
Ma
Kurt ignorava queste sensazioni, fingeva di non vedere l'espressione
che Jane gli rivolgeva, tra la disapprovazione e la sorpresa, quando
lui tornava in cucina dopo aver bussato e atteso qualche minuto
davanti all'ingresso della camera di Blaine. La verità è che si
sentiva... elettrizzato. Il percorrere i corridoi infiniti e
deserti gli dava l'impressione di essere solo in quella villa antica,
di poter correre, urlare, cantare... e nessuno gli avrebbe detto
niente, nessuno avrebbe dato eco alle sue grida, così come nessuno
rispondeva a quella porta, tanto che a volte arrivava a chiedersi se
davvero qualcuno si celasse dietro di essa.
V'era
un piccolo mistero, nascosto tra le mura della villa, e nella
ripetitività dei viaggi in macchina, delle sue giornate tra il
lavoro e la vita tranquilla che conduceva, quello era sufficiente per
attirare la sua attenzione.
Da
adolescente si sarebbe imbarazzato all'idea che a ventisei anni si
sarebbe ritrovato in una tale situazione: incuriosito dalla vita di
qualcuno che nemmeno conosceva, ancorato a una cittadina di
provincia, senza un lavoro fisso, ben lontano dalla realizzazione dei
propri sogni. E single, oltretutto, perché se a un certo punto aveva
rinunciato a coronare la propria fantasia su un principe azzurro
affascinante (e ricco e vestito alla moda) che attraversava con un
cavallo bianco un campo di fiori colorati per venirgli incontro, era
anche vero che il gradino precedente – trovare qualcuno di decente
e interessante con cui uscire a bere qualcosa, che non fosse
interessato solo a del sesso casuale al primo appuntamento o,
eventualmente, anche senza la parte dell'appuntamento – si era
rivelato piuttosto arduo.
Aveva
bei ricordi, sì, ma alla fine ogni rapporto, per quanto inizialmente
promettente, si era esaurito con rapidità: di solito era lui, era
colpa sua, colui che si stancava e si allontanava, che sentiva che
non era quello giusto, qualsiasi cosa questo volesse dire, che non
era ciò che realmente desiderava. Non aveva mai nemmeno il coraggio
di ammetterlo, e semplicemente finiva per assumere un atteggiamento
distaccato e allontanare chi cercava di avvicinarlo.
«
Conquistarti è come scalare l'Everest »
gli aveva detto una volta Tina.
E
lui aveva riso, imbarazzato e forse un po' offeso. Rispondendole che
le cose speciali sono faticose da ottenere, ma, in cuor suo, pensando
a come si fosse soli in cima all'Everest. Col cielo così vicino, le
nuvole sopra le spalle, pesanti e fredde. Quanto aveva desiderato
qualcuno, durante i peggiori momenti della sua vita. Duranti i
ricoveri di suo padre, gli interventi, la chemioterapia. Qualcuno che
gli tenesse la mano e ascoltasse i suoi sfoghi su qualsiasi cosa, per
quanto stupidi o capricciosi potessero essere.
Ma
non era stato così. Ed era rimasto in piedi ugualmente, anche senza
qualcuno che lo accompagnasse e sostenesse. Era rimasto in piedi e a
testa alta, lo sguardo fisso su suo padre, sulla propria casa, su ciò
che amava.
I
suoi sogni si erano spostati al di là della sua vista, oltre ciò
che i suoi occhi riuscivano a intravedere: desideri lontani e fuori
dalla sua portata. New York era parsa la fantasia di un ragazzino, il
canto un progetto impossibile e poco concreto; quando nasci in una
cittadina qualsiasi e frequenti un liceo come tanti, prendere il volo
sembra l'unica strada per distinguerti, ciò che ti sostiene per anni
di indifferenza e incomprensione e disprezzo, ma alla fine tutto si
era rivelato diverso: Kurt aveva compiuto le scelte giuste –
era rimasto con suo padre, aveva cercato un lavoro, la serenità di
una vita tranquilla, e aveva mantenuto le proprie passioni nel limite
della propria casa – e non le aveva mai rimpiante. Che c'era di
male allora, si diceva, se si concedeva una piccola fantasia?
I
passi sospesi su un pavimento lucido, il sogno di pianoforti che
animavano stanze deserte aperte solo per lui, una presenza misteriosa
oltre una porta, silente, sfocata, sfuggente.... eccolo, era il suo
piccolo intrigo, lì, a portata di mano.
*-*-*
Il
rumore della pioggia contro i vetri lo stava facendo impazzire. Era
un ticchettare costante. Un martellare pungente contro le sue tempie
doloranti. Gemette e affondò la testa nel cuscino, sollevando le
coperte fino a rimanerne seppellito.
«
Spero proprio che tu non abbia intenzione di uscire da lì!
» sentì esclamare.
«
Uh? » mugugnò confuso
Riemerse da sotto il piumone e osservò suo padre avvicinarsi a lui
con un vassoio tra le mani.
«
La colazione a letto! » Esclamò
stupito. «
Un'esperienza più unica che rara...»
aggiunse con un sorriso.
Quest'ultimo
dettaglio non era tecnicamente vero: aveva avuto un amante che
gli aveva portato la colazione a letto ogni mattina che avevano
trascorso insieme. Forse una piccola attenzione, forse un modo per
far perdonare il fatto che dovessero nascondersi in casa e che non
aveva la minima intenzione di dichiarare al mondo di essere gay e di
uscire con Kurt Hummel. In ogni caso, suo padre non aveva bisogno di
sapere tutto ciò.
«
C'è del tè? » chiese.
Nonostante il mal di testa che lo tormentava, l'idea di bere qualcosa
di caldo senza uscire dalla propria alcova di coperte lo allettava.
Suo
padre gli rivolse uno sguardo preoccupato. «
Tè, sì, ma non credere che ti permetterò di non mangiare
qualcosa. Devi rimetterti in forze, sei ridotto uno straccio,
lasciatelo dire ».
«
Grazie, è piacevole sentirsi apprezzati ».
«
Non dire sciocchezze, Kurt, intendo dire che sembri stanco, ti
devi essere buscato qualcosa con questo tempaccio, sono almeno tre
giorni che stai covando qualcosa e non stai bene. »
Kurt
si morse un labbro. Era vero. « Uhm,
io... »
«
Quindi non pensare nemmeno per un momento di uscire di casa,
oggi, te ne starai qui, al caldo, e lascerai che mi prenda cura di te
».
Sbuffò.
Suo padre in modalità chioccia poteva essere asfissiante. Sembrava
dimenticare di avere un figlio di ventisei anni. « Ma... al
lavoro...»
«
Faranno a meno di te, per oggi. O sei così indispensabile che quella
casa crollerà, senza di te? »
«
Io- » abbassò lo sguardo, colpito da quelle parole. « No, certo
che no. Posso chiamare tranquillamente ».
Indispensabile?
No,
di certo no. E non ci aveva pensato, fino a quel momento. Avrebbe
potuto facilmente stare casa, dubitava sarebbe cambiato qualcosa con
la sua assenza.
Era
abbandonata da tempo la voglia di sentirsi indispensabili,
essenziali, irrinunciabili. Sollevò lo sguardo su suo padre,
impegnato a imburrargli una fetta di pane.
Solo
lì, in quella casa, nella loro piccola e stretta famiglia, era
indispensabile.
«
Grazie, papà ».
E
avere questo doveva essere sufficiente.
*-*-*
Quando
tornò al lavoro – scoprendo che niente era crollato in sua assenza
– il piccolo mistero era ancora un'attrattiva, pur se impallidita.
Blaine Anderson aveva cessato di essere un nome ed era divenuto un
mistero: da cercare, ignorare, interrogare, disprezzare.
Ma,
infine, lo vide.
Sarebbe
dovuto accadere, prima o poi, era solo questione di tempo, di questo
ne era sempre stato consapevole. Ma quando infine si ritrovarono
faccia a faccia, fu del tutto inaspettato. Quasi un fantasma o
l'abitante di una sua fantasia si fosse improvvisamente
materializzato di fronte a lui, corporeo invece che una fugace
immagine della propria mente.
Erano
giorni che aveva cessato di bussare alla porta di Blaine e che si
limitava ad andare e venire dalla villa, restandovi il meno
possibile, infastidito da quelle mura. Si avvicinava la visita di
controllo semestrale di suo padre e questo aveva distolto Kurt da
qualsiasi frivolezza.
La
sera, si mordeva la lingua per trattenersi dal chiedere sollecito a
suo padre come stesse, osservando il suo volto teso, gli occhi che
andavano rapidi al calendario appeso in cucina, su una grossa X in
pennarello verde che segnava la data sempre più vicina.
Nel
flusso delle preoccupazioni che riempivano i suoi pensieri, recarsi
al lavoro era a un certo punto divenuto più difficile. Le spese per
i medicinali, le visite specialistiche, l'assicurazione sanitaria più
dignitosa che fosse riuscito a trovare, l'affitto... tutto pesava sul
loro conto in banca già sofferente: ritrovarsi nel lusso abbandonato
ed esibizionista di villa Anderson gli spremeva l'amaro in bocca.
Dopo
i pochi giorni che aveva trascorso a casa, ammalato, ero tornato al
lavoro e si era reso conto che nulla era cambiato senza di lui, che
la sua assenza non aveva avuto nessuna importanza. E si era reso
conto che erano tre le persone che si occupavano a tempo pieno di
Blaine Anderson. Tre! Eppure questi non aveva nemmeno il
coraggio di uscire di casa a comprarsi le proprie mutande: si
limitava a segnarne l'ordinazione su un foglietto, perché lui
obbedisse.
Fu
forse per questi pensieri che, la mattina in cui Kurt finalmente
trovò l'album che Blaine da tempo cercava, fu la stessa in cui cessò
di tentare un contatto con lui.
Quella
mattina, percorse il lungo e silenzioso corridoio con il disco tra le
mani, il sorriso in volto.
«
Ce l'ho fatta! » pensava, esultante. Già immaginando l'espressione
sorpresa di Blaine, la sua reazione, dopo quasi due mesi di ricerche,
chissà che avrebbe detto, chissà che... – Kurt si fermò, rimase
immobile.
Non
avrebbe visto la sua reazione. Non avrebbe ricevuto un grazie. Un
riconoscimento per il suo lavoro, per l'impegno, per averci provato
ed esserci riuscito.
Semplicemente,
il giorno successivo il titolo sarebbe sparito dalla lista.
Blaine
non gli avrebbe sorriso, non si sarebbe mostrato a lui – contento,
sorpreso – non avrebbe ascoltato il racconto di come si fosse fatto
letteralmente in quattro per trovarlo, contattando negozianti,
collezionisti, venditori su internet.
Non
avrebbe fatto niente di tutto questo. Perché la verità era che Kurt
non aveva importanza: era solo un autista, un mezzo per acquistare
oggetti senza uscire di casa, qualcuno cui non era degnata nemmeno
parola o sguardo... solo fogliettini scritti con noncuranza, ordini
da eseguire. Si sentì stringere lo stomaco.
Aveva
un lavoro, sì, ma avrebbe potuto svolgerlo chiunque. Avrebbe potuto
essere senza volto, senza personalità, senza carattere. Sarebbe
stata la stessa cosa. I suoi sogni adolescenziali non erano
semplicemente stati posti in secondo piano al confronto con la
realtà, si erano dissipati come un'ombra di fumo, come il suo posto
nel mondo. Cercava fama, successo, un palcoscenico che gli desse
attenzione; e ora era anonimo, totalmente invisibile persino al suo
datore di lavoro. Un nessuno.
Respirò
a fondo e si rese conto di avere il respiro accelerato. Le guance
accaldate. Gli occhi brucianti.
«
Oddio » soffiò. « Che sto facendo? »
La
consapevolezza fu improvvisa, un velo che copriva il suo sguardo si
sollevò e fu come osservarsi da lontano, distaccati e allibiti.
Aveva cercato ossessivamente l'attenzione di Blaine Anderson, un uomo
che nemmeno conosceva e che lo riteneva indegno di attenzione. Aveva
pensato di avere importanza, che i suoi passi in quei corridoi non
fossero solo quelli di un intruso.
Doveva
essere parso un molestatore seriale, come minimo. Un folle. Un
disperato.
Strinse
tra le mani l'album, forte, fin quasi a spezzarlo. Ancorandosi al
cartone dell'involucro per placare la sensazione pungente del proprio
respiro. E poi si girò, incerto sulle gambe, e tornò sui suoi
passi. Le scarpe leggere e il più silenziose possibile sui pavimenti
di marmo.
*-*-*
Rabbrividì
di un ultimo tremore di freddo, avvicinandosi alla stufa. Strinse e
riaprì le mani arrossate e irrigidite, sbuffando nel
calore della cucina.
«
Meglio? »
Si
girò e vide Jane che gli porgeva una tazza di porcellana colma di
cioccolata. Le sorrise. « Sì, decisamente. Qualche istante e starò
benissimo... » Soffiò sulla bevanda bollente. « Credo che avrei
freddo persino ai Tropici, sai? Per cui in queste giornate vorrei
solo rifugiarmi sotto le coperte e affogare nel caldo ».
Jane
ridacchiò. « Dovresti venire ad aiutarmi in cucina ogni mattina,
qui è impossibile sentire freddo ».
«
Mmm, se non hai timore che ti faccia esplodere il forno o l'intera
cucina vengo volentieri... Anche se potrei essere di ben poco aiuto.
Mentre la fetta di torta che mi hai dato ieri? Divina. »
«
L'hai mangiata? T'è piaciuta? »
«
Se m'è piaciuta? » Roteò gli occhi, emettendo un sospiro di
piacere. « L'ho divorata dopo cena e credo che mio padre abbia quasi
pianto
al pensiero che ve ne era solo una fetta a testa. Jane, sei uno
fenomeno ».
Lei
schioccò la lingua, rivolgendogli un sorrisetto. « Ti ringrazierei,
se l'avessi preparata io, ma non essendo così eviterò solo di non
offendermi per il fatto che non mi hai rivolto complimenti tanto
sentiti ».
Kurt
la fissò, sbattendo le palpebre, confuso. « Ma avevi detto che era
una torta casalinga di casa Anderson ».
«
Appunto. Di casa Anderson, non della cuoca o della cameriera ».
«
E allora, chi diamine...»
Oh.
Rimase
a bocca aperta.
Non
poteva davvero dire che l'aveva preparata-
«
E' esattamente come pensi, non fare quella faccia incredula. Un certo
burbero padrone di casa infesta la cucina di notte, per colpirci
tutti a colpi di cioccolato e crema ».
No.
Non poteva essere. Kurt la fissava allibito. Si chiese se ricordarle
che Blaine Anderson non si comprava le mutande da solo, figuriamoci
se metteva le mani in cucina!
«
Ma intendi sul serio che -»
Jane
lo interruppe immediatamente, levandogli la tazza di mano ed
esclamando con voce acuta: « Oddio! A proposito del signorino
Anderson, è tardissimo, vestiti, vestiti! »
Gli
piazzò la giacca tra le braccia e lo spinse verso l'ingresso.
Kurt
era ormai convinto che dovesse aver bevuto qualcosa. « Jane, ma che
diamine stai facendo, stai bene? Piantala di spingermi ».
Lei
prese invece a trascinarlo per mano.
«
Il signorino Blaine, bisogna accompagnarlo alla visita di controllo »
disse semplicemente.
Kurt
spalancò gli occhi. « Cosa? Intendi dire che devo accompagnarlo io?
»
Lei
si fermò, all'improvviso, costringendolo a inciampare per evitare di
caderle addosso. Kurt sbatté una mano su un mobiletto di legno scuro
addossato alla parete vicina. Un vaso di fragile porcellana cinese
traballò pericolosamente, fermandosi un attimo prima di cadere,
proprio nell'attimo in cui il respiro di Kurt si bloccava e una voce
seccata diceva: « Quando avrai finito di far cadere oggetti che
valgono più di dieci anni di tuoi stipendi, potresti degnarti di
smetterla anche di farmi aspettare ».
E
fu inaspettato, inatteso.
Blaine
Anderson era esattamente davanti a lui.
*-*-*
Guardarlo
era doloroso.
Così
come mascherare il proprio disagio, il nodo alla gola, la voce
tremante con cui aveva balbettato un saluto incerto. Non sapeva dove
posare lo sguardo, come osservarlo in volto senza ricalcare i suoi
tratti rovinati, senza che fosse altrettanto evidente che lo stesse
studiando o al contrario che stesse facendo di tutto per non
mostrarsi attento ai suoi lineamenti.
Fissò
un punto del pavimento frugandosi le tasche per recuperare le chiavi
dell'auto. Premette i polpastrelli contro il metallo e si diresse
verse il portone di uscita. Finché gli dava le spalle era più
facile rimanere impassibili.
«
Pensavo di aver chiesto un taxi » sentì Blaine mormorare, rivolto a
Jane.
Non
udì la risposta, coperta dal crepitio della ghiaia sotto i suoi
passi. Dopo pochi istanti, seguì il rumore di una camminata incerta.
Non si voltò e continuò a dirigersi verso la macchina, fino a
trovarsi davanti alla portiera a osservare il riflesso nel vetro del
finestrino avvicinarsi fino a essere alle sue spalle.
Il
suo volto.
Le
sue mani.
La
gamba che trascinava.
«
Aprimi la portiera ».
Si
riscosse.
Respirò,
a fondo, di nuovo. Accogliendo aria per calmare il suo cuore, si girò
finalmente verso di lui e obbedì al suo ordine.
Incontrò
i suoi occhi, più vicini a lui di quanto si aspettasse. Si fissarono
qualche istante, sufficiente per percepire il suo sguardo: di sfida,
quasi, e luminoso, tanto luminoso e inatteso che fu facile per un
attimo dimenticare il resto del suo volto.
I
lineamenti distorti, la carne rovinata, morta. Appariva doloroso,
ancora, una ferita a tratti aperta, eppure...
…
eppure
dovevano essere trascorsi anni.
Poi
Blaine si abbassò e si infilò nell'auto. Kurt lo vide guardare
risoluto davanti a sé, in attesa, e sistemare un'ampia sciarpa a
coprire parte del suo volto.
Si
rese conto in quell'istante che si era mostrato a lui, tanto quanto
fino a quel momento si era nascosto, e che sicuramente aveva
osservato la sua reazione, leggendola, studiandola, attendendola.
Si
era accorto di quanto fosse doloroso guardarlo?
*-*-*
Gli
aveva comunicato l'indirizzo in tono piatto, poi si era voltato a
osservare il profilo dei campi e degli alberi che scorrevano lungo la
strada. Kurt guidava fissando davanti a sé in modo quasi ostinato,
un silenzio di lana grezza lo pizzicava in gola e sulla pelle.
«
Hai freddo? » chiese piano, maledicendo la propria voce incerta.
«
Se avessi avuto freddo ti avrei detto di accendere il riscaldamento
».
Kurt
si morsicò un labbro, costringendosi a non rispondere, odiando una
volta in più il suo atteggiamento.
Che
ti è successo?, avrebbe
voluto chiedergli. Ma non avrebbe mai potuto farlo, in realtà. Solo
osservare il suo braccio fermo e nascosto sotto la giacca, l'unica
mano visibile coperta da un guanto bianco, il suo viso in parte
rovinato da cicatrice nodose e bianche e sfregi infiammati
Non
era difficile mappare il passaggio del fuoco sul suo corpo.
Era
più arduo individuare la giovinezza, la bellezza sopravvissuta.
Eppure...
Kurt
spiò il suo riflesso.
Ricordò
il suo sguardo. La sua figura smilza.
Eppure...
eppure vi era: meno evidente, nascosta, ma era questo che rendeva per
Kurt difficile posare lo sguardo su di lui, che fissava come
implacabile il contrasto, la cicatrice della realtà sulla pelle di
un giovane.
Fissare
gli occhi sulla sua guancia era un richiamo al dolore, all'odore
della carne morta, bruciata. Era la sofferenza fisica che spaventava
Kurt più di ogni altra cosa, che lo terrorizzava di una paura
paralizzante: quella che aveva consumato sua madre lentamente, in
un'agonia pari a una tortura, quella che suo padre tentava di
nascondere mostrandosi forte o fiducioso, quella che si insinuava in
incubi capaci di tenerlo sveglio intere notti, quella che era
impressa indelebile sulla pelle di un giovane uomo.
Come
era sentirsi sciogliere dalle fiamme?
Strillare,
strillare, soffrire.
E
poi risvegliarsi e scoprire il dolore di nuovo, sul proprio corpo,
per sempre?
Kurt
si sentì bruciare i polmoni, mentre prendeva lentamente fiato. V'era
cenere nella sua gola?
«
Non hai mai visto delle cicatrici? »
Fu
così sorpreso dal sentire di nuovo la sua voce, dopo minuti di
silenzio e pensieri, che quasi si voltò verso di lui.
«
Scusa? » farfugliò.
«
Intendo dire » lo udì sospirare « che il tuo... timore? Orrore?
Nei confronti di queste cicatrici sarebbe comico, se non fosse
oltremodo spropositato. Non sono contagiose, sai? Stare in auto con
me non ti trasformerà in un mostro ». Il suo tono era acre,
vibrante di rabbia.
Kurt
accolse le sue parole sbarrando gli occhi e fissandolo dallo
specchietto. Non lo stava guardando: pareva ancora concentrato sul
paesaggio che li circondava.
«
No no » balbettò. « Io... »
Oddio.
Non sapeva che dire.
«
Sei solo un ragazzino » si sentì sbeffeggiare dopo pochi secondi.
«
Non sono un ragazzino » ribatté infantilmente, pentendosene subito.
Lo
vide agitare la mano guantata in un gesto di noncuranza.
Come
se non fosse importante ciò che Kurt diceva o pensava. Quest'ultimo,
irritato, si sforzò di spiegarsi: « Non è come pensi tu » sillabò
lentamente, cercando calma nella propria voce. « Non è come pensi
tu per niente, io sono solo... sorpreso, forse. E non riesco a
smettere di pensare a- a-» Gli mancò il fiato per il disagio.
Ma
doveva aver attirato la sua attenzione perché si accorse che ora lo
stava fissando, voltato nella sua direzione, in attesa. « A? A cosa?
A come sarei senza queste.... cose? A ciò che ho perso? »
Strinse
il volante tra le dita. « No, no. A... a come deve essere stato »
Espirò lentamente. « Al dolore, deve essere stato insopportabile, a
come non sia possibile dimenticarlo, il dolore ».
Un
dolore che ricorderai ogni volta che ti guarderai allo specchio,
pensò. Ma non lo disse.
E
Blaine non rispose alle sue parole.
Nel
riflesso dello specchietto, Kurt vide che era tornato a fissare gli
alberi e il cielo oltre di essi.
La
guancia che gli rivolgeva era pelle sana e morbida e rosea.
*-*-*
I
pianoforti maestosi, scuri, eleganti. Impolverati e abbandonati da
anni: nessuno in quella casa era più in grado di suonarli, comprese
Kurt.
Le
sale non accoglievano danze e feste. I pavimenti non venivano
calpestati da ospiti e i muri non accoglievano risate e parole. Da
anni era così, da quando Blaine si era ritirato a una clausura
sofferente e lontana da tutto e tutti. Da quell'incidente, come lo
chiamavano.
Era
stato facile immaginarlo come un mistero, o invidiare il suo denaro e
maledire la sua arroganza. Odiare la sua indifferenza. Sviluppare
fantasiose storie che dipingevano una vita agiata e riposante, priva
di problemi.
Era
stato facile e si era rivelato sbagliato, almeno in parte: era invece
piuttosto certo di aver indovinato riguardo alla sua arroganza.
E
ora era difficile e comunque altrettanto
sbagliato ripercorrere i
propri passi e tornare su quel corridoio, davanti a quella porta. O
almeno così continuava a ripetersi.
«
Che diamine sto facendo? » sbuffò.
Erano
trascorse quasi due settimane dall'ultima volta che si era trovato
lì, da quando era fuggito di fronte alla consapevolezza di quanto
fosse inopportuna e sgradita la propria insistenza. E ancora si
ostinava a chiedersi il perché, senza sapersi dare risposta.
Sollevò
una mano e accarezzò l'adesivo sulla porta, lo stesso che già una
volta l'aveva convinto a bussare.
La
verità è che aveva percepito la propria stessa solitudine in Blaine
Anderson. E non riusciva a smettere di pensarci, dal giorno primo,
dal tempo che avevano trascorso insieme, tra frasi smozzicate e
silenzi tesi. La sensazione di essere invisibile al mondo che Kurt
odiava era invece in lui un evidente e assurdo desiderio. Le porte e
l'arroganza a chiuderlo in quella villa, in quella camera.
E
nessuno a bussare per chiedere il permesso di entrare.
Facile
nascondersi e dimenticarsi, quando nessuno viene a cercarti
Kurt
chiuse una mano a pugno, si strinse l'album al petto e, con
decisione, batté le nocche contro il legno.
…
fine
secondo capitolo
Note
conclusive:
nodi
della trama devono venire al pettine (tipo: perché Blaine recita
il martire emo?!) altri sicuramente mi sono invece dimenticata di
sbrogliarli.
Una
piccola nota riguardo a Kurt: l'insofferenza nel sentirsi ignorati
credo possa essere una sensazione piuttosto forte, anche se se spero
di non aver premuto troppo sull'acceleratore. In molti il lavorare
senza gratificazione è un'esperienza di disagio, credo che per un
personaggio che aspirava a esibirsi possa essere ancora maggiore.
(Non
che abbia pretese di realismo, comunque... <.<)
Alla
prossima!
Epo
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