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Autore: Epo    18/10/2013    2 recensioni
La maledizione della bestia poté essere rotta con la forza più grande, il vero amore. Ciò che raccontano è questo, lo narrano da secoli, perché le fiabe sono coinvolgenti e colme di speranza.
Ma Blaine ha cessato da tempo di credere alle favole e alle storie dei buoni sentimenti. Mentre Kurt non può fare a meno di aggrapparcisi con tutte le proprie forze.
[Kurt/Blaine, AU contemporanea, liberamente ispirata a La bella e la bestia]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Burt Hummel, Kurt Hummel, Nuovo personaggio, Rachel Berry | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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fearless2

Note:

Per prima cosa, è successa una cosa chiamata real life e subito dopo che ho mangiato le mie serate libere guardando Teen Wolf e innamorandomi di un altro pairing. Senza vergogna.
Per seconda cosa: trovate questa fanfiction anche su AO3. Per esperienza conosco e apprezzo la comodità di un sito con buona grafica per la lettura e soprattutto la possibilità di scaricare direttamente nel formato preferito, per cui ho caricato Fearless anche lì.
Infine: sono una “new entry” nel mondo delle fanfiction? No. Ho pubblicato per molto tempo fanfiction, con un altro account, in diversi fandom, tra cui questo. Quell'account ora non esiste più, quelle fanfiction nemmeno; magari non ci siamo mai “incontrati”, magari sì, magari avete già letto o seguito qualcosa di mio... chissà. In ogni caso, vi saluto, auguro una buona lettura e ringrazio per consigli, critiche, o anche un invisibile passaggio.

Epo.



*

II.


Una crepa ci attraversa, nella sua imperfezione ci unisce e allo stesso tempo ci separa

(da Mondo di seconda mano, di Katherine Min)



*-*-*


Se si fosse soffermato per qualche istante a rifletterci, si sarebbe reso conto di essersi addentrato in un'inopportuna strada di testardaggine e insistenza. Anni adolescenziali di cotte impossibile verso compagni di scuola irrimediabilmente eterosessuali gli avevano se non altro insegnato il dignitoso limite delle attenzioni indesiderate e che a volte fosse meglio – meno doloroso – rinunciare a priori, piuttosto che fissarsi su un'irrealizzabile fantasia.

Se si fosse soffermato a pensarci, si sarebbe reso conto di come la porta sempre chiusa, i biglietti stringati, gli incontrati evitati fossero messaggi e segnali ben chiari dell'opinione di Blaine circa la costanza quotidiana con cui lui si presentava davanti alla sua porta dopo le commissioni della giornata.

Ma Kurt ignorava queste sensazioni, fingeva di non vedere l'espressione che Jane gli rivolgeva, tra la disapprovazione e la sorpresa, quando lui tornava in cucina dopo aver bussato e atteso qualche minuto davanti all'ingresso della camera di Blaine. La verità è che si sentiva... elettrizzato. Il percorrere i corridoi infiniti e deserti gli dava l'impressione di essere solo in quella villa antica, di poter correre, urlare, cantare... e nessuno gli avrebbe detto niente, nessuno avrebbe dato eco alle sue grida, così come nessuno rispondeva a quella porta, tanto che a volte arrivava a chiedersi se davvero qualcuno si celasse dietro di essa.

V'era un piccolo mistero, nascosto tra le mura della villa, e nella ripetitività dei viaggi in macchina, delle sue giornate tra il lavoro e la vita tranquilla che conduceva, quello era sufficiente per attirare la sua attenzione.

Da adolescente si sarebbe imbarazzato all'idea che a ventisei anni si sarebbe ritrovato in una tale situazione: incuriosito dalla vita di qualcuno che nemmeno conosceva, ancorato a una cittadina di provincia, senza un lavoro fisso, ben lontano dalla realizzazione dei propri sogni. E single, oltretutto, perché se a un certo punto aveva rinunciato a coronare la propria fantasia su un principe azzurro affascinante (e ricco e vestito alla moda) che attraversava con un cavallo bianco un campo di fiori colorati per venirgli incontro, era anche vero che il gradino precedente – trovare qualcuno di decente e interessante con cui uscire a bere qualcosa, che non fosse interessato solo a del sesso casuale al primo appuntamento o, eventualmente, anche senza la parte dell'appuntamento – si era rivelato piuttosto arduo.

Aveva bei ricordi, sì, ma alla fine ogni rapporto, per quanto inizialmente promettente, si era esaurito con rapidità: di solito era lui, era colpa sua, colui che si stancava e si allontanava, che sentiva che non era quello giusto, qualsiasi cosa questo volesse dire, che non era ciò che realmente desiderava. Non aveva mai nemmeno il coraggio di ammetterlo, e semplicemente finiva per assumere un atteggiamento distaccato e allontanare chi cercava di avvicinarlo.

« Conquistarti è come scalare l'Everest » gli aveva detto una volta Tina.

E lui aveva riso, imbarazzato e forse un po' offeso. Rispondendole che le cose speciali sono faticose da ottenere, ma, in cuor suo, pensando a come si fosse soli in cima all'Everest. Col cielo così vicino, le nuvole sopra le spalle, pesanti e fredde. Quanto aveva desiderato qualcuno, durante i peggiori momenti della sua vita. Duranti i ricoveri di suo padre, gli interventi, la chemioterapia. Qualcuno che gli tenesse la mano e ascoltasse i suoi sfoghi su qualsiasi cosa, per quanto stupidi o capricciosi potessero essere.

Ma non era stato così. Ed era rimasto in piedi ugualmente, anche senza qualcuno che lo accompagnasse e sostenesse. Era rimasto in piedi e a testa alta, lo sguardo fisso su suo padre, sulla propria casa, su ciò che amava.

I suoi sogni si erano spostati al di là della sua vista, oltre ciò che i suoi occhi riuscivano a intravedere: desideri lontani e fuori dalla sua portata. New York era parsa la fantasia di un ragazzino, il canto un progetto impossibile e poco concreto; quando nasci in una cittadina qualsiasi e frequenti un liceo come tanti, prendere il volo sembra l'unica strada per distinguerti, ciò che ti sostiene per anni di indifferenza e incomprensione e disprezzo, ma alla fine tutto si era rivelato diverso: Kurt aveva compiuto le scelte giuste – era rimasto con suo padre, aveva cercato un lavoro, la serenità di una vita tranquilla, e aveva mantenuto le proprie passioni nel limite della propria casa – e non le aveva mai rimpiante. Che c'era di male allora, si diceva, se si concedeva una piccola fantasia?

I passi sospesi su un pavimento lucido, il sogno di pianoforti che animavano stanze deserte aperte solo per lui, una presenza misteriosa oltre una porta, silente, sfocata, sfuggente.... eccolo, era il suo piccolo intrigo, lì, a portata di mano.



*-*-*



Il rumore della pioggia contro i vetri lo stava facendo impazzire. Era un ticchettare costante. Un martellare pungente contro le sue tempie doloranti. Gemette e affondò la testa nel cuscino, sollevando le coperte fino a rimanerne seppellito.

« Spero proprio che tu non abbia intenzione di uscire da lì! » sentì esclamare.

« Uh? » mugugnò confuso Riemerse da sotto il piumone e osservò suo padre avvicinarsi a lui con un vassoio tra le mani.

« La colazione a letto! » Esclamò stupito. « Un'esperienza più unica che rara...» aggiunse con un sorriso.

Quest'ultimo dettaglio non era tecnicamente vero: aveva avuto un amante che gli aveva portato la colazione a letto ogni mattina che avevano trascorso insieme. Forse una piccola attenzione, forse un modo per far perdonare il fatto che dovessero nascondersi in casa e che non aveva la minima intenzione di dichiarare al mondo di essere gay e di uscire con Kurt Hummel. In ogni caso, suo padre non aveva bisogno di sapere tutto ciò.

« C'è del tè? » chiese. Nonostante il mal di testa che lo tormentava, l'idea di bere qualcosa di caldo senza uscire dalla propria alcova di coperte lo allettava.

Suo padre gli rivolse uno sguardo preoccupato. « Tè, sì, ma non credere che ti permetterò di non mangiare qualcosa. Devi rimetterti in forze, sei ridotto uno straccio, lasciatelo dire ».

« Grazie, è piacevole sentirsi apprezzati ».

« Non dire sciocchezze, Kurt, intendo dire che sembri stanco, ti devi essere buscato qualcosa con questo tempaccio, sono almeno tre giorni che stai covando qualcosa e non stai bene. »

Kurt si morse un labbro. Era vero. « Uhm, io... »

« Quindi non pensare nemmeno per un momento di uscire di casa, oggi, te ne starai qui, al caldo, e lascerai che mi prenda cura di te ».

Sbuffò. Suo padre in modalità chioccia poteva essere asfissiante. Sembrava dimenticare di avere un figlio di ventisei anni. « Ma... al lavoro...»

« Faranno a meno di te, per oggi. O sei così indispensabile che quella casa crollerà, senza di te? »

« Io- » abbassò lo sguardo, colpito da quelle parole. « No, certo che no. Posso chiamare tranquillamente ».

Indispensabile?

No, di certo no. E non ci aveva pensato, fino a quel momento. Avrebbe potuto facilmente stare casa, dubitava sarebbe cambiato qualcosa con la sua assenza.

Era abbandonata da tempo la voglia di sentirsi indispensabili, essenziali, irrinunciabili. Sollevò lo sguardo su suo padre, impegnato a imburrargli una fetta di pane.

Solo lì, in quella casa, nella loro piccola e stretta famiglia, era indispensabile.

« Grazie, papà ».

E avere questo doveva essere sufficiente.




*-*-*




Quando tornò al lavoro – scoprendo che niente era crollato in sua assenza – il piccolo mistero era ancora un'attrattiva, pur se impallidita. Blaine Anderson aveva cessato di essere un nome ed era divenuto un mistero: da cercare, ignorare, interrogare, disprezzare.

Ma, infine, lo vide.

Sarebbe dovuto accadere, prima o poi, era solo questione di tempo, di questo ne era sempre stato consapevole. Ma quando infine si ritrovarono faccia a faccia, fu del tutto inaspettato. Quasi un fantasma o l'abitante di una sua fantasia si fosse improvvisamente materializzato di fronte a lui, corporeo invece che una fugace immagine della propria mente.

Erano giorni che aveva cessato di bussare alla porta di Blaine e che si limitava ad andare e venire dalla villa, restandovi il meno possibile, infastidito da quelle mura. Si avvicinava la visita di controllo semestrale di suo padre e questo aveva distolto Kurt da qualsiasi frivolezza.

La sera, si mordeva la lingua per trattenersi dal chiedere sollecito a suo padre come stesse, osservando il suo volto teso, gli occhi che andavano rapidi al calendario appeso in cucina, su una grossa X in pennarello verde che segnava la data sempre più vicina.

Nel flusso delle preoccupazioni che riempivano i suoi pensieri, recarsi al lavoro era a un certo punto divenuto più difficile. Le spese per i medicinali, le visite specialistiche, l'assicurazione sanitaria più dignitosa che fosse riuscito a trovare, l'affitto... tutto pesava sul loro conto in banca già sofferente: ritrovarsi nel lusso abbandonato ed esibizionista di villa Anderson gli spremeva l'amaro in bocca.

Dopo i pochi giorni che aveva trascorso a casa, ammalato, ero tornato al lavoro e si era reso conto che nulla era cambiato senza di lui, che la sua assenza non aveva avuto nessuna importanza. E si era reso conto che erano tre le persone che si occupavano a tempo pieno di Blaine Anderson. Tre! Eppure questi non aveva nemmeno il coraggio di uscire di casa a comprarsi le proprie mutande: si limitava a segnarne l'ordinazione su un foglietto, perché lui obbedisse.

Fu forse per questi pensieri che, la mattina in cui Kurt finalmente trovò l'album che Blaine da tempo cercava, fu la stessa in cui cessò di tentare un contatto con lui.

Quella mattina, percorse il lungo e silenzioso corridoio con il disco tra le mani, il sorriso in volto.

« Ce l'ho fatta! » pensava, esultante. Già immaginando l'espressione sorpresa di Blaine, la sua reazione, dopo quasi due mesi di ricerche, chissà che avrebbe detto, chissà che... – Kurt si fermò, rimase immobile.

Non avrebbe visto la sua reazione. Non avrebbe ricevuto un grazie. Un riconoscimento per il suo lavoro, per l'impegno, per averci provato ed esserci riuscito.

Semplicemente, il giorno successivo il titolo sarebbe sparito dalla lista.

Blaine non gli avrebbe sorriso, non si sarebbe mostrato a lui – contento, sorpreso – non avrebbe ascoltato il racconto di come si fosse fatto letteralmente in quattro per trovarlo, contattando negozianti, collezionisti, venditori su internet.

Non avrebbe fatto niente di tutto questo. Perché la verità era che Kurt non aveva importanza: era solo un autista, un mezzo per acquistare oggetti senza uscire di casa, qualcuno cui non era degnata nemmeno parola o sguardo... solo fogliettini scritti con noncuranza, ordini da eseguire. Si sentì stringere lo stomaco.

Aveva un lavoro, sì, ma avrebbe potuto svolgerlo chiunque. Avrebbe potuto essere senza volto, senza personalità, senza carattere. Sarebbe stata la stessa cosa. I suoi sogni adolescenziali non erano semplicemente stati posti in secondo piano al confronto con la realtà, si erano dissipati come un'ombra di fumo, come il suo posto nel mondo. Cercava fama, successo, un palcoscenico che gli desse attenzione; e ora era anonimo, totalmente invisibile persino al suo datore di lavoro. Un nessuno.

Respirò a fondo e si rese conto di avere il respiro accelerato. Le guance accaldate. Gli occhi brucianti.

« Oddio » soffiò. « Che sto facendo? »

La consapevolezza fu improvvisa, un velo che copriva il suo sguardo si sollevò e fu come osservarsi da lontano, distaccati e allibiti. Aveva cercato ossessivamente l'attenzione di Blaine Anderson, un uomo che nemmeno conosceva e che lo riteneva indegno di attenzione. Aveva pensato di avere importanza, che i suoi passi in quei corridoi non fossero solo quelli di un intruso.

Doveva essere parso un molestatore seriale, come minimo. Un folle. Un disperato.

Strinse tra le mani l'album, forte, fin quasi a spezzarlo. Ancorandosi al cartone dell'involucro per placare la sensazione pungente del proprio respiro. E poi si girò, incerto sulle gambe, e tornò sui suoi passi. Le scarpe leggere e il più silenziose possibile sui pavimenti di marmo.




*-*-*



Rabbrividì di un ultimo tremore di freddo, avvicinandosi alla stufa. Strinse e riaprì le mani arrossate e irrigidite, sbuffando nel calore della cucina.

« Meglio? »

Si girò e vide Jane che gli porgeva una tazza di porcellana colma di cioccolata. Le sorrise. « Sì, decisamente. Qualche istante e starò benissimo... » Soffiò sulla bevanda bollente. « Credo che avrei freddo persino ai Tropici, sai? Per cui in queste giornate vorrei solo rifugiarmi sotto le coperte e affogare nel caldo ».

Jane ridacchiò. « Dovresti venire ad aiutarmi in cucina ogni mattina, qui è impossibile sentire freddo ».

« Mmm, se non hai timore che ti faccia esplodere il forno o l'intera cucina vengo volentieri... Anche se potrei essere di ben poco aiuto. Mentre la fetta di torta che mi hai dato ieri? Divina. »

« L'hai mangiata? T'è piaciuta? »

« Se m'è piaciuta? » Roteò gli occhi, emettendo un sospiro di piacere. « L'ho divorata dopo cena e credo che mio padre abbia quasi pianto al pensiero che ve ne era solo una fetta a testa. Jane, sei uno fenomeno ».

Lei schioccò la lingua, rivolgendogli un sorrisetto. « Ti ringrazierei, se l'avessi preparata io, ma non essendo così eviterò solo di non offendermi per il fatto che non mi hai rivolto complimenti tanto sentiti ».

Kurt la fissò, sbattendo le palpebre, confuso. « Ma avevi detto che era una torta casalinga di casa Anderson ».

« Appunto. Di casa Anderson, non della cuoca o della cameriera ».

« E allora, chi diamine...»

Oh.

Rimase a bocca aperta.

Non poteva davvero dire che l'aveva preparata-

« E' esattamente come pensi, non fare quella faccia incredula. Un certo burbero padrone di casa infesta la cucina di notte, per colpirci tutti a colpi di cioccolato e crema ».

No. Non poteva essere. Kurt la fissava allibito. Si chiese se ricordarle che Blaine Anderson non si comprava le mutande da solo, figuriamoci se metteva le mani in cucina!

« Ma intendi sul serio che -»

Jane lo interruppe immediatamente, levandogli la tazza di mano ed esclamando con voce acuta: « Oddio! A proposito del signorino Anderson, è tardissimo, vestiti, vestiti! »

Gli piazzò la giacca tra le braccia e lo spinse verso l'ingresso.

Kurt era ormai convinto che dovesse aver bevuto qualcosa. « Jane, ma che diamine stai facendo, stai bene? Piantala di spingermi ».

Lei prese invece a trascinarlo per mano.

« Il signorino Blaine, bisogna accompagnarlo alla visita di controllo » disse semplicemente.

Kurt spalancò gli occhi. « Cosa? Intendi dire che devo accompagnarlo io? »

Lei si fermò, all'improvviso, costringendolo a inciampare per evitare di caderle addosso. Kurt sbatté una mano su un mobiletto di legno scuro addossato alla parete vicina. Un vaso di fragile porcellana cinese traballò pericolosamente, fermandosi un attimo prima di cadere, proprio nell'attimo in cui il respiro di Kurt si bloccava e una voce seccata diceva: « Quando avrai finito di far cadere oggetti che valgono più di dieci anni di tuoi stipendi, potresti degnarti di smetterla anche di farmi aspettare ».

E fu inaspettato, inatteso.

Blaine Anderson era esattamente davanti a lui.




*-*-*



Guardarlo era doloroso.

Così come mascherare il proprio disagio, il nodo alla gola, la voce tremante con cui aveva balbettato un saluto incerto. Non sapeva dove posare lo sguardo, come osservarlo in volto senza ricalcare i suoi tratti rovinati, senza che fosse altrettanto evidente che lo stesse studiando o al contrario che stesse facendo di tutto per non mostrarsi attento ai suoi lineamenti.

Fissò un punto del pavimento frugandosi le tasche per recuperare le chiavi dell'auto. Premette i polpastrelli contro il metallo e si diresse verse il portone di uscita. Finché gli dava le spalle era più facile rimanere impassibili.

« Pensavo di aver chiesto un taxi » sentì Blaine mormorare, rivolto a Jane.

Non udì la risposta, coperta dal crepitio della ghiaia sotto i suoi passi. Dopo pochi istanti, seguì il rumore di una camminata incerta. Non si voltò e continuò a dirigersi verso la macchina, fino a trovarsi davanti alla portiera a osservare il riflesso nel vetro del finestrino avvicinarsi fino a essere alle sue spalle.

Il suo volto.

Le sue mani.

La gamba che trascinava.

« Aprimi la portiera ».

Si riscosse.

Respirò, a fondo, di nuovo. Accogliendo aria per calmare il suo cuore, si girò finalmente verso di lui e obbedì al suo ordine.

Incontrò i suoi occhi, più vicini a lui di quanto si aspettasse. Si fissarono qualche istante, sufficiente per percepire il suo sguardo: di sfida, quasi, e luminoso, tanto luminoso e inatteso che fu facile per un attimo dimenticare il resto del suo volto.

I lineamenti distorti, la carne rovinata, morta. Appariva doloroso, ancora, una ferita a tratti aperta, eppure...

eppure dovevano essere trascorsi anni.

Poi Blaine si abbassò e si infilò nell'auto. Kurt lo vide guardare risoluto davanti a sé, in attesa, e sistemare un'ampia sciarpa a coprire parte del suo volto.

Si rese conto in quell'istante che si era mostrato a lui, tanto quanto fino a quel momento si era nascosto, e che sicuramente aveva osservato la sua reazione, leggendola, studiandola, attendendola.

Si era accorto di quanto fosse doloroso guardarlo?



*-*-*



Gli aveva comunicato l'indirizzo in tono piatto, poi si era voltato a osservare il profilo dei campi e degli alberi che scorrevano lungo la strada. Kurt guidava fissando davanti a sé in modo quasi ostinato, un silenzio di lana grezza lo pizzicava in gola e sulla pelle.

« Hai freddo? » chiese piano, maledicendo la propria voce incerta.

« Se avessi avuto freddo ti avrei detto di accendere il riscaldamento ».

Kurt si morsicò un labbro, costringendosi a non rispondere, odiando una volta in più il suo atteggiamento.

Che ti è successo?, avrebbe voluto chiedergli. Ma non avrebbe mai potuto farlo, in realtà. Solo osservare il suo braccio fermo e nascosto sotto la giacca, l'unica mano visibile coperta da un guanto bianco, il suo viso in parte rovinato da cicatrice nodose e bianche e sfregi infiammati

Non era difficile mappare il passaggio del fuoco sul suo corpo.

Era più arduo individuare la giovinezza, la bellezza sopravvissuta.

Eppure...

Kurt spiò il suo riflesso.

Ricordò il suo sguardo. La sua figura smilza.

Eppure... eppure vi era: meno evidente, nascosta, ma era questo che rendeva per Kurt difficile posare lo sguardo su di lui, che fissava come implacabile il contrasto, la cicatrice della realtà sulla pelle di un giovane.

Fissare gli occhi sulla sua guancia era un richiamo al dolore, all'odore della carne morta, bruciata. Era la sofferenza fisica che spaventava Kurt più di ogni altra cosa, che lo terrorizzava di una paura paralizzante: quella che aveva consumato sua madre lentamente, in un'agonia pari a una tortura, quella che suo padre tentava di nascondere mostrandosi forte o fiducioso, quella che si insinuava in incubi capaci di tenerlo sveglio intere notti, quella che era impressa indelebile sulla pelle di un giovane uomo.

Come era sentirsi sciogliere dalle fiamme?

Strillare, strillare, soffrire.

E poi risvegliarsi e scoprire il dolore di nuovo, sul proprio corpo, per sempre?

Kurt si sentì bruciare i polmoni, mentre prendeva lentamente fiato. V'era cenere nella sua gola?

« Non hai mai visto delle cicatrici? »

Fu così sorpreso dal sentire di nuovo la sua voce, dopo minuti di silenzio e pensieri, che quasi si voltò verso di lui.

« Scusa? » farfugliò.

« Intendo dire » lo udì sospirare « che il tuo... timore? Orrore? Nei confronti di queste cicatrici sarebbe comico, se non fosse oltremodo spropositato. Non sono contagiose, sai? Stare in auto con me non ti trasformerà in un mostro ». Il suo tono era acre, vibrante di rabbia.

Kurt accolse le sue parole sbarrando gli occhi e fissandolo dallo specchietto. Non lo stava guardando: pareva ancora concentrato sul paesaggio che li circondava.

« No no » balbettò. « Io... »

Oddio. Non sapeva che dire.

« Sei solo un ragazzino » si sentì sbeffeggiare dopo pochi secondi.

« Non sono un ragazzino » ribatté infantilmente, pentendosene subito.

Lo vide agitare la mano guantata in un gesto di noncuranza.

Come se non fosse importante ciò che Kurt diceva o pensava. Quest'ultimo, irritato, si sforzò di spiegarsi: « Non è come pensi tu » sillabò lentamente, cercando calma nella propria voce. « Non è come pensi tu per niente, io sono solo... sorpreso, forse. E non riesco a smettere di pensare a- a-» Gli mancò il fiato per il disagio.

Ma doveva aver attirato la sua attenzione perché si accorse che ora lo stava fissando, voltato nella sua direzione, in attesa. « A? A cosa? A come sarei senza queste.... cose? A ciò che ho perso? »

Strinse il volante tra le dita. « No, no. A... a come deve essere stato » Espirò lentamente. « Al dolore, deve essere stato insopportabile, a come non sia possibile dimenticarlo, il dolore ».

Un dolore che ricorderai ogni volta che ti guarderai allo specchio, pensò. Ma non lo disse.

E Blaine non rispose alle sue parole.

Nel riflesso dello specchietto, Kurt vide che era tornato a fissare gli alberi e il cielo oltre di essi.

La guancia che gli rivolgeva era pelle sana e morbida e rosea.



*-*-*



I pianoforti maestosi, scuri, eleganti. Impolverati e abbandonati da anni: nessuno in quella casa era più in grado di suonarli, comprese Kurt.

Le sale non accoglievano danze e feste. I pavimenti non venivano calpestati da ospiti e i muri non accoglievano risate e parole. Da anni era così, da quando Blaine si era ritirato a una clausura sofferente e lontana da tutto e tutti. Da quell'incidente, come lo chiamavano.

Era stato facile immaginarlo come un mistero, o invidiare il suo denaro e maledire la sua arroganza. Odiare la sua indifferenza. Sviluppare fantasiose storie che dipingevano una vita agiata e riposante, priva di problemi.

Era stato facile e si era rivelato sbagliato, almeno in parte: era invece piuttosto certo di aver indovinato riguardo alla sua arroganza.

E ora era difficile e comunque altrettanto sbagliato ripercorrere i propri passi e tornare su quel corridoio, davanti a quella porta. O almeno così continuava a ripetersi.

« Che diamine sto facendo? » sbuffò.

Erano trascorse quasi due settimane dall'ultima volta che si era trovato lì, da quando era fuggito di fronte alla consapevolezza di quanto fosse inopportuna e sgradita la propria insistenza. E ancora si ostinava a chiedersi il perché, senza sapersi dare risposta.

Sollevò una mano e accarezzò l'adesivo sulla porta, lo stesso che già una volta l'aveva convinto a bussare.

La verità è che aveva percepito la propria stessa solitudine in Blaine Anderson. E non riusciva a smettere di pensarci, dal giorno primo, dal tempo che avevano trascorso insieme, tra frasi smozzicate e silenzi tesi. La sensazione di essere invisibile al mondo che Kurt odiava era invece in lui un evidente e assurdo desiderio. Le porte e l'arroganza a chiuderlo in quella villa, in quella camera.

E nessuno a bussare per chiedere il permesso di entrare.

Facile nascondersi e dimenticarsi, quando nessuno viene a cercarti

Kurt chiuse una mano a pugno, si strinse l'album al petto e, con decisione, batté le nocche contro il legno.





fine secondo capitolo



Note conclusive:

nodi della trama devono venire al pettine (tipo: perché Blaine recita il martire emo?!) altri sicuramente mi sono invece dimenticata di sbrogliarli.

Una piccola nota riguardo a Kurt: l'insofferenza nel sentirsi ignorati credo possa essere una sensazione piuttosto forte, anche se se spero di non aver premuto troppo sull'acceleratore. In molti il lavorare senza gratificazione è un'esperienza di disagio, credo che per un personaggio che aspirava a esibirsi possa essere ancora maggiore.

(Non che abbia pretese di realismo, comunque... <.<)

Alla prossima!

Epo

   
 
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