Avete visto Il Film? Lo avete visto? *_*
Beh, avrei molte cose da ridire su mooolti cambiamenti di trama rispetto al libro, ma... nel
complesso mi è piaciuto!
Scriverò una recensione sul mio blog dopo che lo
guarderò per la seconda volta, giovedì! Stay tuned.
;)
Ad ogni modo, mi scuso ancora per non aver
risposto a tutte le recensioni, provvederò entro oggi! >_<
Sappiate che vi amo, tanto tanto tanto.
E ora si va a battagliare nella Città Bianca. Ne
vedremo delle belle. ;)
A presto!
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
19.
25 Settembre 3019 T. E.
Thorin si chiese quanto tempo ancora avrebbero potuto
resistere. La prima parte del cancello era crollata facilmente, come si
aspettava, mentre ora gli Haradrim parevano avere più difficoltà con la
seconda. Fu un pensiero rassicurante, dopo tutto, che la mano dei Nani avesse
contribuito a rallentare il peggio. Ma era proprio così che sarebbe andata:
avrebbero semplicemente rallentato il tempo, ma non evitato l’inevitabile. Gli
Haradrim avrebbero attraversato le mura e non c’era niente, in quel momento,
che avrebbe potuto fare per impedirglielo.
Quando si accorse che i cardini e il frettoloso muro
iniziavano a dare segni di cedimento, Thorin agì in fretta e, senza una parola,
ordinò ai suoi uomini di nascondersi e agli arcieri di ritirarsi sui tetti
degli edifici, sulle torri e ovunque avessero una buona visuale senza essere
scoperti. Se era quello il fato di quella giornata, e cioè che gli invasori
entrassero a Minas Tirith, allora avrebbero avuto una sorpresa degna del
miglior banchetto di benvenuto.
Il cancello in opera si spalancò appena in tempo per
permettere ai suoi soldati e a quelli di Gondor di trovare un nascondiglio, e
gli Haradrim rimasero interdetti nel vedere la desolazione e la calma
dall’altra parte delle mura, invece che un esiguo esercito pronto a riversarsi
su di loro come il fuoco di un drago. La fanteria mosse i primi passi
all’interno della silenziosa Città Bianca, le scimitarre in posizione difensiva
e gli scudi ben alti sul torace, mentre setacciavano le strade con i loro
penetranti occhi neri.
Fu solo quando un numeroso gruppo di loro fu completamente
all’interno che la potente voce di Thorin spezzò l’irreale silenzio calato
sulla città e i Nani si avventarono sugli assalitori con la stessa furia di una
valanga, affondando asce e spade contro la carne sotto le loro dorate corazze,
mentre gli arcieri scaricavano frecce con destrezza e precisione. Fu così che,
dopo non molti mesi dall’ultimo assalto di Minas Tirith, la città venne
nuovamente invasa dal clangore della battaglia e altro sangue venne versato
sulle strade lastricate di bianco.
Gli Haradrim si ripresero presto dalla sorpresa e in pochi
istanti la potenza difensiva dei Nani e degli Uomini non parve più così
invalicabile. Non seppero quantificare quanto tempo trascorse dall’inizio della
battaglia, ma parve infinito. Alcuni di loro caddero e ben presto iniziarono ad
indietreggiare sotto gli affondi delle scimitarre e la robustezza delle loro
corazze, finché Thorin gridò la ritirata al Secondo Cerchio. Chiusero il
cancello poco prima che il nemico li raggiungesse e Fili e Kili abbassarono la
pesante grata dietro la porta in legno. Con un sorriso, si batterono una
testata, per festeggiare il tempismo; ma il momento di gioia fu ben presto
soffocato dalla rabbia e dalla frustrazione degli assalitori, che si sfogarono
sugli edifici del Primo Livello, saccheggiandoli ed incendiandoli.
Ecthirion avrebbe volentieri saltato le alte mura del
secondo bastione, pur di lanciarsi contro chiunque osasse sollevare un solo
dito sulla sua città... o per marchiare con la sua lama un sorriso di sangue
sul volto disgustoso del suo ormai vecchio sottoposto, che dall’alto della sua
sella osservava la distruzione con soddisfazione, nonostante una mano
insanguinata fosse premuta sulla ferita. Ma le sue speranze di vendetta vennero
stroncate dalla limpida ma energica voce della sua Regina.
«Arcieri!» gridò Arwen, gli occhi spalancati verso un gruppo
di Sudroni. «Coprite il cancello, ora!»
Kili corse verso il suo avamposto e, imitato dagli altri,
tentò di colpire i soldati che stavano riorganizzando l’attacco. Ne vide
alcuni, in particolare, armeggiare con qualcosa che non riuscì a decifrare;
erano troppo in alto per poterli vedere chiaramente, ma Káel, al suo fianco,
aveva visto bene, proprio come la Regina.
«Che cosa vogliono fare?» domandò più a se stesso che all’altro,
sporgendosi dal suo avamposto per osservare meglio. «Sembra che stiano
spargendo della sabbia nera lungo il cancello...»
Gli Haradrim si allontanarono velocemente, mentre uno,
posizionato a debita distanza, tendeva un arco dalla freccia infuocata.
Káel spalancò la bocca e gridò.
Gridò più forte che poté, anche a costo di perdere l’uso
della voce. Quasi non fece in tempo a finire l’avvertimento e a strattonare
Kili il più lontano possibile, che il cancello saltò in aria, sgretolandosi
come un castello di arenaria sotto un soffio di vento troppo impetuoso. Chiunque
fosse nei paraggi venne sbalzato dall’onda d’urto e i poveri malcapitati sbatterono
violentemente contro pareti e pavimento, mentre i detriti delle mura e del
cancello cadevano come pioggia su di loro: alcuni non fecero in tempo a
ripararsi, altri si spostarono giusto in tempo.
Thorin sentì la forza dell’aria muoverlo a decine di piedi
di distanza e atterrò brutalmente sulla schiena; per un lungo istante gli parve
di essere morto. Non percepiva più il corpo, né i suoni attorno a lui; solo un
intenso fischio alle orecchie, causato dall’intensità dell’esplosione, e lo
sguardo annebbiato dal dolore e dalla confusione. Osservò vacuo il cielo
nuvoloso, cercando di ricordarsi come si facesse a respirare, poiché non era
sicuro neppure di riuscire a dilatare i polmoni. Il fastidioso fischio, che
pareva penetrargli il cervello, scemò lentamente, sostituito ancora una volta
dalle grida degli Haradrim, che partivano all’attacco, approfittando della loro
debolezza. Sbarrò gli occhi quando si rese conto del pericolo in cui si
trovava; ma riuscì a riacquistare la sensibilità delle braccia e delle gambe
solo al terribile pensiero dei nipoti, così vicini al cancello un momento prima
dell’esplosione. Il terrore che fossero gravemente feriti, o peggio, gli diede
la forza di rialzarsi e di trovare un solido appoggio sull’ascia. Vide Dwalin risollevarsi
in tempo per difendersi da un soldato e Balin poco distante da lui, il viso e
la candida barba sporchi di sangue. Cercò con nervosismo un qualsiasi segno che
potesse indicargli che Fili e Kili stessero bene, ma non li vide.
La paura gli strinse il cuore, così come tanti anni prima,
quando erano caduti davanti al suo corpo per difenderlo dalla barbarie degli
Orchi, alle porte della loro Montagna. Quel giorno avevano rischiato seriamente
la vita e ringraziò il cielo che non fosse cosciente per non vivere l’angoscia
di quelle lunghe settimane in cui erano stati costretti a letto, senza
riprendere conoscenza.
Con rabbia, affondò l’ascia su chiunque ostacolasse il suo
cammino, mentre continuava disperatamente la sua ricerca e gridava i loro nomi
a gran voce, nella vana speranza di ritrovarli sulle proprie gambe, accanto al
Nano dai capelli rossi.
Poco più lontano, ancora stordito e stupito dall’esplosione,
Ecthirion si rimise in piedi, guardando la distruzione intorno a sé. Fino a
qualche giorno prima, Minas Tirith pullulava di vita e di entusiasmo per la
ritrovata pace; ora tutto sembrava perduto. Si ritrovò a chiedersi persino se
non fosse stato solo frutto della sua immaginazione, se la Guerra dell’Anello
fosse realmente finita o se la stessero ancora combattendo.
Per la prima volta nella sua vita, l’Uomo si sentì impotente,
come un ragazzino alla sua prima battaglia, la spada che tremava tra le mani e
la paura di muovere un muscolo. Non servì ricordarsi che avesse combattuto
guerre ben peggiori, né che fosse sopravvissuto a ferite profonde, ben più
gravi della spalla colpita dalla freccia solo qualche tempo prima. Ma cosa
potevano fare lui, i suoi Uomini o tutti quei Nani, di fronte a quella
diavoleria che i Sudroni avevano portato?
Tempo addietro Re Éomer aveva parlato loro di un attacco
simile al Fosso di Helm, per mano di Saruman; le possenti ed indistruttibili
mura della fortezza, che mai erano state invase, erano crollate in un istante.
Digrignò i denti, di fronte alla vigliaccheria del nemico.
Quale degno avversario avrebbe ricorso a vili astuzie come quelle, per vincere
una battaglia?
Eppure sapeva bene, per esperienza, che non vi fossero
regole in guerra.
L’unica che contava veramente era una ed una sola.
Uccidi o lasciati
uccidere.
E lui aveva preferito sempre la prima opzione.
«Mia signora!» gridò, alla sua Regina. «Dobbiamo ritirarci
alla Cittadella, non è sicuro qui!»
Arwen levò la spada dal cadavere di un Haradrim e il suo
sguardo gli fece capire che non fosse del suo stesso avviso: era una donna che
sapeva ben difendere se stessa e ora avrebbe dovuto proteggere anche la sua
gente, con o senza suo marito. Non si sarebbe rintanata come una codarda nella
sicurezza dell’ultima cerchia di Minas Tirith.
Piuttosto sarebbe morta.
«Mia Regina! Ti prego, devi seguirmi!» continuò l’Uomo.
«Dama Brethil non è qui a proteggervi, questo compito spetta a me, ora.»
«Mantieni la posizione!» replicò lei, senza ammettere ulteriori
discussioni. «Mantieni la posizione con me, Ecthirion, e moriamo per difenderci.
Dimostrami che la fiducia del tuo Re è ben riposta.»
Egli inspirò pesantemente e annuì. «Ebbene, così sia. Ma ti
prego, stammi vicina, mia Regina. Preferisco che prendano la mia vita,
piuttosto che la tua.»
Trán non riuscì a sopprimere un grido di paura quando le
vibrazioni e l’eco dell’esplosione raggiunse il Sesto livello, facendo tremare
le pareti dell’edificio e le vene ai polsi. Le urla di terrore dei civili
giunsero chiaramente nella stanza di Thorin e lei rabbrividì. Solo l’odore del
Nano, che impregnava le coperte sotto cui era accovacciata con il fratello,
riusciva a darle quel poco di forza che le bastava per non tremare come una
foglia. Le dava l’illusione che lui fosse accanto al suo corpo, mentre
l’abbracciava con affetto per darle coraggio.
Ma Thorin non era lì, con lei.
Mahal, lui non era
lì.
Era lì fuori e solo i Valar sapevano cosa stesse accadendo.
Quanto avrebbe desiderato che l’abbracciasse davvero!
Trión le si strinse contro, cercando conforto e cacciando
indietro le lacrime di paura, e lei non poté far altro che cullarlo,
sussurrandogli che tutto sarebbe finito in fretta e per il meglio.
O almeno, così sperava e pregava, anche se dopo quel
tremendo boato, ormai, non credeva più nemmeno alle sue stesse parole.
A centinaia di piedi da lei si stava scatenando l’inferno e
l’insicurezza e la paura le serrarono la gola.
Ora che aveva trovato finalmente un bello e sincero gruppo
di amici, ora che aveva imparato ad aprirsi con gli estranei e che,
soprattutto, aveva trovato qualcuno con cui condividere un sentimento
travolgente come l’amore, tutto le parve perduto e si chiese cosa avesse
combinato di male per meritarsi tanta sofferenza e tante difficoltà. Non era
più sicura di rivedere Brethil, che il Fabbro la proteggesse, e ora persino suo
padre, i suoi fratelli, i suoi amici e il suo
Re erano in pericolo.
Il terrore di perdere tutto quello che aveva faticosamente
guadagnato era devastante.
E non sapeva più cosa fare né pensare.
Se qualche mese prima le avessero detto che sarebbe partita
per Gondor, che avrebbe conosciuto l’amicizia e l’amore e si sarebbe trovata
invischiata in una guerra, avrebbe riso e scacciato quell’idea come una mosca
fastidiosa.
Eppure, nemmeno la paura di quei momenti poté farle
rimpiangere la decisione di seguire la sua famiglia in quell’avventura. Che ne
sarebbe stato di lei, se non avesse mai varcato la soglia dei Colli Ferrosi?
Sarebbe ancora sola con i suoi pensieri, con il suo lutto e con la sua
famiglia. Non avrebbe riso con Fili e Kili, né avrebbe potuto contare sulla
presenza confortante di Brethil.
E non avrebbe, probabilmente, mai incontrato Thorin.
Quel pensiero fu talmente orribile che sentì il petto
dolerle dall’angoscia.
No, neppure la Morte stessa l’avrebbe fatta pentire della
sua scelta.
Gettò un’occhiata alla finestra, temendo di avvicinarsi come
le aveva proibito Thorin, sia per paura di essere colpita da qualsiasi cosa stesse
succedendo là fuori, sia di vedere la distruzione con i suoi occhi. Trán non
aveva mai conosciuto la guerra, poiché era stata combattuta lontana dai Colli
Ferrosi, e aveva sempre sperato di non vedere gli orrori che i suoi fratelli e
suo padre le avevano raccontato.
Così si strinse al fratello, baciandogli la testolina
indiavolata e raccontandogli qualsiasi cosa, pur di distrargli la mente... e la
sua.
L’esplosione era stata così potente da far imbizzarrire i
loro cavalli anche ad una profonda distanza, e ora alte colonne di fumo salivano
dalla Città Bianca, mentre il sole scendeva velocemente verso Ovest. Brethil
spronò Nerian con rabbia, abbassando la lama di Celeboglinn nel momento in cui raggiunse i primi Haradrim della
retroguardia. Lo sforzo e l’euforia di essere finalmente giunti fu liberato in
un grido inumano e il Nemico tremò per la prima volta nell’insicurezza.
L’esercito di Minas Tirith era di poco superiore al loro, ma era doppiamente
motivato ad uccidere ogni invasore respirasse per il solo fatto di aver osato
anche pensare di riportare il terrore della guerra entro i confini di Gondor,
tra le mura della loro Capitale.
Gimli si lanciò su un gruppo di Haradrim dal cavallo in
corsa di Legolas, e quelli caddero sotto il suo peso e la sua letale ascia. «A-ha!
Ora si comincia a ragionare!»
«Conteggio onesto, questa volta, mi raccomando!» esclamò
Legolas, scagliando la decima freccia in pochi istanti.
«Onesto? Parli di
onestà a me, ragazzino?» replicò scandalizzato il Nano, tagliando di netto il
collo ad un soldato che ebbe la sfortuna di ritrovarsi di fronte alla sua
indignazione. «Tu, piuttosto, bada
bene a come conti, Elfo!»
Legolas rise, saltando dal cavallo e sfoderando i lunghi ed
affilati pugnali che teneva sulla schiena, giacché la faretra era ormai vuota.
«Mettiamo una posta in palio, dato che a voi Nani piacciono tanto le
scommesse.»
I due furono separati per qualche lungo minuto, prima di
ritrovarsi schiena contro schiena e riprendere il discorso da dove era stato
interrotto.
«E cosa vorresti scommettere, damerino?» domandò Gimli;
dovette attendere ancora qualche istante prima che la sua curiosità fosse
sedata.
«Se io dovessi vincere–» disse Legolas. «–dovrai tagliarti
la barba.»
Il Nano fermò la sua personale battaglia, guardandolo con
occhi e labbra sbarrati, sperando di aver udito male. «Appartengo alla Casata
dei Lungobarbi! Questo ti suggerisce
qualcosa?»
«Oh, lo so bene, mastro Nano. E dato che si parla dell’onore
della tua famiglia, allora avanti, combatti! Credo che stia già perdendo, amico
mio.» replicò l’Elfo, in un sorriso divertito.
«Aspetta, Orecchie a Punta! Non abbiamo deciso quale sarebbe
il mio premio se fossi io a vincere.»
«Ma è ovvio: terrai la tua barba lunga e folta per il resto
della tua vita!»
Gimli boccheggiò ancora qualche istante e riprese a
combattere con più veemenza, borbottando la conta dei caduti e pensando che
avrebbe preferito tagliarsi le dita delle mani piuttosto che sfiorare anche un
solo ciuffo della sua adorata barba con una lama.
Poco più avanti, una scia di cadaveri segnava il passaggio
delle lame dei gemelli di Imladris, ora non più sorridenti e lieti, ma letali
come la Morte stessa. Brethil cavalcò all’interno della città, abbattendo e
calpestando nemici, e rimase pietrificata nel vedere lo stesso spettacolo del
Fosso di Helm durante la battaglia contro le forze della Mano Bianca, quando
era giunta in soccorso con l’esercito di Erkenbrand, tanti mesi addietro. La
battaglia era ormai dilagata ovunque lungo i primi tre livelli, paurosamente
vicino ai civili, e avrebbero dovuto fermare la loro marcia prima che fosse
troppo tardi.
Il viso martoriato dalle cicatrici le si distorse dalla
rabbia e combatté con rinnovato vigore. E come lei, nessuno dei suoi soldati
sembrò badare alla stanchezza della lunga cavalcata, falciando e uccidendo
qualsiasi cosa fosse identificata come il nemico. Non c’era spazio per
riprendere il fiato, in quella carneficina. Nani e Uomini avrebbero preferito
morire piuttosto che distrarsi dall’affaticamento.
Avrebbero ripulito Minas Tirith dalla feccia che l’aveva
assalita e lo avrebbero fatto quel giorno, pensò Brethil, sfilando la lhang dall’addome di un Haradrim. Nel
caos non si accorse di un arciere che colpì il suo cavallo e Nerian impennò
impaurito e dolorante, rischiando di disarcionarla malamente. Saltò dalla sella
prima che il piede le si incastrasse sulla staffa e tentò inutilmente di
calmare il suo destriero, che si allontanò al galoppo, impazzito.
«Mia signora!» gridò un soldato, poco distante da lei. «Alle
tue spalle!»
Si voltò appena in tempo per vedere un Uomo crollare ai suoi
piedi e la possente ascia di Dwalin conficcata sul cranio. La donna sospirò di
sollievo e lui ghignò. «Non c’è di che, ragazza.»
Brethil si lasciò sfuggire un sorriso, ma fu ben presto
dimenticato, sostituito dalla gravità della situazione. «Gli altri?»
Il Nano non ebbe bisogno di chiederle a chi si rivolgesse,
per capirla, e lui non si sprecò certo in parole. «Balin è ancora sulle sue
gambe e lo stesso vale per Thorin. Ma non so dove siano i ragazzi.»
Brethil strinse i denti, guardandosi intorno. «Mardil?»
«Quel codardo non si è ancora fatto vedere.» borbottò
Dwalin, le cui nocche divennero bianche pensando all’Uomo. «Che venga pure!»
Non spesero altro tempo in chiacchiere e tornarono ai loro
posti. Brethil si mosse verso il Terzo Cerchio, cercando traccia dei nipoti di
Thorin e soprattutto per controllare la situazione alla porta del Quarto. Trovò
Ecthirion con la Regina e un altro manipolo di soldati di Gondor, che
difendevano l’ingresso ai civili, e li raggiunse, seguita dai suoi Uomini. Gli
Haradrim vennero sopraffatti velocemente e il Secondo Capitano di Gondor non fu
mai così sollevato di rivedere il viso sfregiato della donna come in quel
momento. Se fosse stato sentimentalista, e soprattutto lei non una donna,
l’avrebbe senza dubbio accolta con un abbraccio.
«Credevo dovessi dirigerti all’Harad! Hai perso il senso
dell’orientamento lungo il cammino?» le domandò invece, per non perdere l’abitudine
e dimenticarsi chi fossero entrambi.
«Chiamalo buon senso; sapevo che lasciare la città in mano
tua avrebbe portato solo guai.» replicò a denti stretti; poi si rivolse alla
Regina. «Mia signora, la Prima Guardia è nuovamente al tuo servizio.»
Arwen sorrise. «Combattiamo insieme, allora.»
Si gettarono con rinnovata forza sul nemico, in quella battaglia
che non pareva aver fine; Elladan ed Elrohir si erano affiancati alla sorella e
alla Dúnadan, e, come solevano fare un tempo che pareva lontano intere Ere, i
quattro lottarono insieme, difendendosi a vicenda in una danza sincronizzata e
letale. Persino Ecthirion ebbe qualche secondo di stupore, guardando i tre
Mezz’Elfi e la Sfregiata; ma dovette riprendere subito il pieno controllo della
sua attenzione, prima che la sua leggerezza gli costasse caro l’osso del collo.
«Thêl! Quando
tutto questo finirà–» stava dicendo Elladan, tra un colpo di spada e l’altro.
«–ricordati che abbiamo uno scontro da portare a termine!»
La donna grugnì stancamente qualcosa. «Ultimamente la lista
dei miei duelli sta diventando un tantino lunga.»
«Fatti qualche domanda, dunque!» replicò Elrohir, con un
sorriso.
Ma Brethil non ebbe tempo per chiedersi perché tutti
volessero scontrarsi con lei.
O forse sì, se lo domandò quando si ritrovò un uomo
decisamente più alto e massiccio di Boromir che aveva deciso di mirare la sua
foga omicida verso di lei. Calò con forza la sua scimitarra sulla donna e
Brethil si ritrovò a parare il colpo con fatica e con entrambe le mani sulla
spada, rischiando persino di spezzarsi il polso. L’Haradrim la spintonò con
forza, facendole perdere l’equilibrio e la presa sulla lama, e cadde sulla
schiena, gemendo dal dolore; rotolò su un fianco giusto in tempo per evitare l’ennesimo affondo
e lo calciò sotto le ginocchia, sperando di farlo cadere; ma quello pareva
avere i piedi incollati al terreno e ghignò di soddisfazione. Cercò con
frenesia l’elsa di Celeboglinn ma non
la trovò subito e sentì il terreno mancarle quando l’Uomo la sollevò per i
corti capelli. Il pugno che ricevette all’addome poco dopo le troncò il fiato
per interminabili secondi e sbarrò occhi e bocca in un grido sordo. Brethil non
riuscì a reagire neppure quando sentì la freddezza di una corta lama sul fianco
destro e cadde in ginocchio, gemendo dal dolore. Gli occhi appannati dalle
lacrime e dalla sofferenza le permisero di vedere la sagoma dell’elsa di un
pugnale, conficcato completamente nella carne, che perdeva copiosamente sangue.
Poteva quasi sentire la gelida punta del pugnale raschiare contro le ossa del
bacino ad ogni movimento. Alzò lo sguardo sull’Haradrim che l’aveva colpita e
che aveva tutte le intenzioni di porre fine alle sue sofferenze con un colpo
netto della scimitarra contro il collo.
Aveva visto la Morte in faccia molte, troppe volte durante
la sua vita; ma mai quel momento la sua mano pareva così vivida da sfiorarla,
per afferrare la sua vita con le lunghe e scheletriche dita.
Brethil trattenne il fiato.
Non ebbe tempo per pensare, per perdersi nei ricordi di
un’esistenza fatta di vagabondaggi e battaglie. Accadde tutto così in fretta
che quasi non se ne accorse. Ebbe solo il tempo di alzare il mento, per
guardare in faccia il suo carnefice e aspettando che la fine giungesse.
Sperò solo che Boromir, dovunque fosse, stesse bene e
superasse la guerra anche per lei.
Anche con gli occhi ora chiusi riusciva a vederlo.
Le sorrideva come nelle giornate più luminose, quando le
mostrava con orgoglio le vie della sua infanzia e le raccontava la storia di
Gondor.
S’imbronciava quando lei faceva valere le proprie ragioni di
fronte alla sua sconfinata testardaggine.
E percepiva la morbidezza di quelle labbra sulle sue, prima
di lasciarsi andare tra le sue braccia e tra i sogni dell’ennesima notte spesa
insieme.
Ma la spada non calò con la velocità che aveva immaginato e
sperato.
Riaprì gli occhi grigi quasi con disappunto e vide
l’Haradrim cadere senza vita, mentre alle sue spalle si alzava la figura ferita
di Ecthirion, la spada grondante di sangue. Brethil tornò a respirare,
impiegando qualche secondo prima di rendersi conto che fosse ancora viva. Incontrò
lo sguardo del Secondo Capitano, che le porgeva una mano per rialzarsi, e lei
l’afferrò con forza, rimettendosi in piedi sulle gambe maldestre e
ringraziandolo con un breve cenno del capo. Sfilò con disgusto il pugnale dal
fianco, premendo immediatamente una mano sulla ferita che pulsava
fastidiosamente, poiché temeva per un’emorragia troppo abbondante e non poteva
permettersi di perdere forze nel mezzo di una battaglia. Ecthirion si strappò
il mantello, fasciandole il busto con uno stretto nodo, e Brethil tentò di
raddrizzare la schiena appena finì. Con un instabile equilibrio, strinse Celeboglinn tra le dita della mano
sinistra, controllando la situazione; ma quando incrociò lo sguardo di Mardil,
che era giunto al galoppo evitando le spade dei Gondoriani, ed ora era pronto a
combattere, si mise in guardia.
Ecthirion, però, le oscurò la vista, frapponendosi tra i
due. La sua espressione, perennemente seria e irata, parve ancora più
minacciosa del solito. «Lascialo a me. Lui
è mio.»
Brethil sapeva bene che quello non fosse un gesto di
cortesia per la sua ferita. No, Ecthirion voleva vendicarsi del suo uomo più fidato,
colui che lo aveva tradito senza remore alcuna. E sebbene volesse essere lei ad
ucciderlo con le sue mani, si fece da parte, poggiandosi contro il muro di
un’abitazione e preparandosi a qualsiasi altro attacco le venisse rivolto.
Ecthirion ringhiò dalla rabbia, mentre stringeva la spada e
lo scudo tra le dita.
Eccolo lì, il verme.
Gli sorrideva, come se il caos che si stava scatenando
intorno a lui non fosse altro che puro divertimento. E forse lo era davvero,
per lui: un gioco di cui aveva scritto personalmente le regole e in cui sapeva
di aver vinto.
Ma Ecthirion non gli avrebbe permesso di lasciarsi
sconfiggere, un’ulteriore volta. Perché sì, aveva perso come mentore e guida. Che
cosa aveva sbagliato, come suo Comandante? Quando era accaduto il cambiamento?
Quando l’aveva perso di vista? Erano tutte domande che continuava a porsi da
quando aveva scoperto il suo doppio gioco, e il non trovare risposta lo
debilitava e lo irritava ancora di più.
«Perché?» fu tutto ciò che riuscì a chiedergli, quando le
loro lame si incrociarono in un clangore di ferro contro ferro.
Mardil ghignò, il viso contorto dalla follia e dallo sforzo
dello scontro. «Ero stanco. Stanco di essere la tua ombra e quella del Sovrintendente.
Stanco che persino una donna fosse più in alto di me! Mi è stata proposta
un’offerta migliore e l’ho accolta con piacere. Potere, quello vero... quello
che tu non hai mai avuto, quello che né tu né il tuo amato Re avrebbe potuto
darmi.»
Ecthirion gli fu addosso con più vigore, facendolo arretrare
ma senza colpirlo. Mardil era un soldato fin troppo ben addestrato per farsi
sopraffare da lui.
Il suo maestro.
«È tutto qui? Combatti contro Gondor solo per meri scopi
egoistici?»
«No, certo che no. Quale vuoto e scarso cattivo sarei. Ti ho
mai accennato al mio albero genealogico e alle mie origini Harad?»
Il Secondo Capitano sgranò gli occhi, preso alla sprovvista
dalla domanda e dall’affondo successivo, che lo colpì alla spalla già ferita.
«Oh, sì... mia madre era Haradrim. E Gondor l’uccise.» continuò
Mardil, muovendo la lama nella carne, con piacevole sadismo. «Morì esattamente
di fronte ai miei occhi di bambino. Riesco ancora a vederla prendere l’ultimo
respiro, prima di rimanere immobile; e riesco ancora a vedere il gusto del
Gondoriano che si prese la sua vita. Così, spaventosamente simile a te, mio
caro amico.» Ecthirion tentò di parlare, ma quello non glielo permise. «Tu hai
ucciso la mia famiglia. E io ucciderò la tua, dovesse significare mettere a
ferro e fuoco l’intera Terra di Mezzo. Sai, forse tu non la ricorderai, ma mia
madre era bella ed una guerriera, come la Sfregiata. Ma le donne, nell’Harad,
sono nate per combattere; femmine come l’amante del Sovrintendente sono un
insulto alle nostre signore, non trovi?»
Il sorriso si spense solo qualche secondo dopo essersi reso
conto che la mano che reggeva la spada non era più attaccata al braccio, che
ora perdeva sangue ovunque. Con orrore, spostò lo sguardo sulla donna che aveva
appena disprezzato e che reggeva la sua affilata lama elfica.
«E così, sarei un insulto?» ansimò, per lo sforzò che aveva
dovuto fare nel correre incontro ai due.
Mardil non fece in tempo a rispondere, perché un freddo
mortale dovuto al panico lo immobilizzò sul posto; con un colpo di tosse sputò
altro sangue e cadde sulla schiena, ormai senza vita e la spada di Ecthirion
affondata fino all’elsa nell’addome.
Con le lacrime agli occhi per il dolore del tradimento, per
aver ucciso un uomo che credeva essergli amico e fratello – l’unico che potesse
ritenere tale – eppure felice per il sollievo di essere ancora vivo, Ecthirion
si rivolse a Brethil, una mano sulla spalla ferita, e cadde in ginocchio
accanto a lei, non trovando la forza di sollevare lo sguardo. «Ti chiedo
perdono, mia signora.» mormorò, con rabbia. «Perdonami per aver dubitato di te.
Perdonami.»
Brethil lo abbracciò con cautela, ancora troppo scossa dagli
avvenimenti per rendersi conto che l’uomo distrutto che aveva tra le braccia
era lo stesso che, per lunghe settimane, l’aveva insultata fino
all’esasperazione.
Le trombe risuonarono per la città con forza e gioia, e in
quel momento niente contava più. Non i loro asti, non i loro sbagli.
Erano vivi.
E Minas Tirith gridava di aver vinto, ancora una volta.
*
Ebbene, anche questo è andato!
Mamma mia, che fatica tremenda!
Deve esserci davvero qualcosa di tremendamente sbagliato
in me, per farmi amare capitoli come questo. :D
A presto! *-*
E andate a vedere La Desolazione di Smaug! Solo il
Drago vale il prezzo del biglietto. <3
Marta.